Panthera tigris sondaica

Era da un po' che non inserivo sul blog uno dei miei racconti. E queste sonnacchiose giornate di fine estate mi paiono l'occasione ideale per sollazzarsi con un testo breve, se non altro per avere una scusa per rimanere in casa o in ufficio, al fresco dell'aria condizionata.

Il racconto che segue, come la maggior parte dei miei lavori brevi, deriva da un'edizione del concorso-lampo "Minuti contati", anche se non ricordo a quale risale. Il tema assegnato era "dall'altra parte dell'isola", che se sulle prime mi aveva ispirato qualche idea in stile Lost, alla fine mi ha portato a scrivere questo breve pezzo in prospettiva quadrupede. Il titolo è volutamente specifico in modo che una ricerca su wikipedia possa consentire al lettore di capire il nucleo della vicenda.



Panthera tigris sondaica

Affamata, esausta, rassegnata, procede acquattata tra i campi di riso, con passo silenzioso ma rapido, portando con sé suo figlio. Affamata per i lunghi giorni di digiuno; esausta per le continue fughe a cui è costretta da troppo tempo; rassegnata nel vedere il mondo intorno a lei cambiare, soffocando ogni sua speranza.
Il piccolo piange, terrorizzato da quell’esperienza sconvolgente. Trascinato contro la sua volontà, cieco e inerme, tutto quello che può fare è rivolgere appelli strazianti perché qualcuno lo aiuti. Ognuno di quei lamenti le strazia il cuore, facendole venire voglia di fermarsi, stringerlo a sé, carezzarlo. Da troppo tempo non sente le sue fusa.
Invece prosegue, spinta dalla disperazione, inoltrandosi in territori che non ha mai attraversato, per cercare un posto, anche lontano, dove le cose possano essere migliori. Dove è cresciuta lei non rimane più niente, la foresta è scomparsa, rimpiazzata dagli odiosi acquitrini che i bipedi fanno crescere per il loro sostentamento, le prede che cacciava con tanta passione in passato si sono esaurite, i suoi compagni e amanti sono morti, uno dopo l’altro, per fame o per l’azione dei bipedi. Non c’è più niente lì, per lei o per i suoi figli.
Ma forse, ha pensato, dall’altra parte dell’isola…
I due cuccioli dormivano quando ha deciso di partire. Non poteva prenderli entrambi, lo sapeva. Per un attimo ha pensato di trucidarne uno, per non dover dividere le poche forze rimaste. Ha avvicinato il muso a uno dei due, dischiudendo le fauci, lo ha afferrato. Il piccolo ha mugolato, appena indispettito dal suo tocco. Il suo sguardo è andato al fratellino adagiato lì accanto.
Se avesse potuto piangere, le lacrime sarebbero uscite nel momento in cui si è allontanata dalla tana, portando via uno dei suoi figli, abbandonando l’altro.
Tornerò, significava l’attimo di esitazione in cui si è voltata verso il vecchio nido, prima di partire.
Ora cammina, la schiena bassa per sfuggire alla vista dei bipedi che sa di dover temere, stringendo il tigrotto tra quei denti che innumerevoli volte hanno squarciato arterie, dilaniato muscoli, frantumato ossa. Ogni fruscio le fa guizzare le orecchie, saltare un battito del cuore, e allora si immobilizza, per un istante, prima di capire che può andare avanti. Vorrebbe che il piccolo si acquietasse, smettesse di pigolare quelle acute note di dolore, perché sa che i bipedi le sentiranno. Ma non ha scelta.
Un tempo era stata giovane e forte. Aveva dominato quelle terre, insieme ai suoi fratelli, con parsimoniosa crudeltà, infliggendo la morte alle altre creature solo quando era necessario. Poi le cose erano cambiate, la morte sembrava arrivare da ogni direzione, senza un criterio, come attirata dai bipedi che si erano moltiplicati così in fretta. A volte sognava di poter anche lei infliggere la morte non per necessità, ma per soddisfazione, e quelle volte le sue prede immaginarie erano sempre loro: i bipedi. A volte pensava che avrebbe potuto…
Ferma.
Un rumore. Movimento tra le piante basse. Un odore. Acido, sgradevole. Familiare.
Altri suoni, e adesso li riconosce: le vocalizzazioni dei bipedi. Toni diversi, in avvicinamento.
Deposita il figlio a terra e si abbassa con lui, lecca il pelo ancora ispido sulla sua schiena cercando di tranquillizzarlo. Il piccolo sembra gradire, e inizia ad appisolarsi. Appena in tempo, forse i bipedi non l’hanno sentito.
No. Troppo tardi. Eccoli sbucare dai campi, sono tre. Due grossi e uno più piccolo, che emette suoni squillanti e scomposti. L’hanno vista, si sono fermati a fissarla. Uno ha un’appendice rigida che gli spunta tra gli arti anteriori, che punta nella sua direzione.
È finita. Sa cosa sta per succedere.
Ma allora pensa che potrebbe davvero provarci, come ha immaginato. Che se il piccolo bipede è come il suo piccolo figlio, allora colpendo lui quelli grandi capiranno. Forse è il panico, forse la fame. Se potesse comprenderlo, saprebbe che è anche vendetta.
Compie un balzo, uno di quelli eleganti e micidiali che praticava spesso in passato, e si avventa sul bipede piccolo, che inizia a squillare ancora di più, emettendo versi che lei riconosce come grida di terrore.
Con le zanne trova subito la gola, afferra e apre, tira e lacera, assaporando l’inebriante sapore del sangue, finché un boato non le ferisce le orecchie e qualcosa la punge e spinge all’indietro.
Viene sbalzata, cade sulla schiena, il muso finisce accanto al cucciolo adagiato al suolo. E allora, si accorge che non si era addormentato. Non respira più.
Un altro boato e un’altra puntura, ancora dolore. Mentre le forze la abbandonano, ripensa al figlio che ha lasciato nella vecchia tana. La vita le scivola via, e sa che presto succederà anche a lui.
Non sa che con lui morirà un’intera specie. Non le importa. Sa solo che non ha mantenuto la sua promessa.

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