Coppi Night 25/03/2018 - Swiss Army Man

Avrei dovuto fidarmi di più di chi diceva che questo era un film che meritava la visione. Mi è passato sottomano un paio di volte ma non avevo trovato sufficiente stimolo a guardarlo, valutando che sì, poteva essere interessante, ma in fondo, dai, Daniel Radcliffe dove vuoi che ti porti, quando ho provato a guardarlo al di fuori di Hogwarts non è andata bene (per la verità nemmeno Harry Potter mi è mai piaciuto così tanto, ma per il suo pubblico di riferimento di certo funziona). Poi come succede quasi sempre negli ultimi tempi, è arrivato su Netflix e allora, vabbè, proviamolo.

E ora dopo averlo visto due volte in due giorni posso dire che Swiss Army Man è un capolavoro. Non sono solito tenere una lista dei miei "film preferiti", ma di certo se ne dovessi stilare una in questo momento rientrerebbe di sicuro nei primi dieci.

La storia inizia con un naufrago (Hank, interpretato da Paul Dano) abbandonato su qualche imprecisata isola del Pacifico, che proprio quando ha deciso di suicidarsi scorge un corpo sulla spiaggia. Ma già dopo le prime interazioni tra lui e il cadavere (Daniel Radcliffe, appunto) si capisce subito che questo non è Robinson Crusoe e nemmeno Cast Away. L'isola viene abbandonata subito e il film non tiene a mostrarci la sopravvivenza e spirito di adattamento del naufrago. Certo, le strabilianti abilità del morto (un "uomo-coltellino svizzero", come da titolo) sono determinanti nel raggiungere la salvezza e la civiltà, ma la vera storia non è questa.

La vera storia, sommersa sotto uno strato spesso e denso di gag visive, flatulenze, assurdità biologiche e fisiche, travestimenti e musica accappella, è quasi banale nella sua universalità. È la storia di una persona che si perde non perché è finita su un'isola deserta, ma perché non sa cosa il mondo voglia da lui, per cui si fa in disparte, incapace di esprimere le sue passioni, si intiepidisce fino a rischiare di spegnersi del tutto. Ed è poi dal suo confronto con il morto, che invece poco per volta si rianima e riacquisisce le sue capacità, che inizia a emergere qualcosa. Ma non per questo il tutto si riduce a una morale alla Anna dai capelli rossi "la vita è meravigliosa", anzi, il confronto con il mondo esterno (il mondo "reale") è proprio quello che più ci può destabilizzare, ed è proprio lì che Manny, il morto ormai tornato in possesso di tutte le sue facoltà, fallisce. Ma tutto questo è aperto all'interpretazione, può anche trattarsi soltanto di una storia sgangherata di un allucinato introverso che merita di andare in galera per stalking.

Ci sono poi due aspetti in particolare che voglio però sottolineare. Il primo è il valore simbolico della scoreggia in questo film. La flatulenza è il primo segno di quasi-vita di Manny e rimane un elemento costante in tutta la vicenda, i due protagonisti ne parlano spesso. "Alla gente non piace quando gli scoreggi davanti" insegna Hank all'amico cadavere. E quando poi le cose si incrinano tra loro, Manny si chiede "Se il tuo migliore amico si nasconde quando deve scoreggiare, cos'altro ti sta nascondendo?" E nelle scene finali, quando il mondo reale ha schiacciato tutti i sogni dei due amici, è proprio con una scoreggia, e la teatrale ammissione "Sono stato io" che Hank afferma la sua rinnovata prospettiva, il suo desiderio di prendere il controllo della propria vita. A mia memoria non esiste nessun film che abbia trattato la flatulenza diversamente da uno strumento per qualche facile risata grossolana, ma Swiss Army Man la nobilita completamente.

E in secondo luogo, ma con un valore preponderante su tutto il resto, la colonna sonora. Il modo in cui la musica, composta dalle stesse voci dei due attori, si integra nel film, a mio avviso è rivoluzionario. Una concezione totalmente nuova della musica "di accompagnamento" in un film. Sicuramente in molti film la musica riveste un ruolo importante, con la ripetizione di temi oppure (anche senza entrare nel campo dei musical) mettendo in bocca le parole ai personaggi. Ma qui è diverso ed è, per quanto ne so, totalmente nuovo. Peraltro, è ciò che rende questo film sostanzialmente indoppiabile, a meno di non voler reinterpretare anche tutte le tracce della OST. Tempo fa parlavo del fatto che la musica nei film iniziasse a ricoprire un ruolo sempre più marginale, tanto da venire dimenticata subito dopo: questo era quello che volevo, senza sapere di volerlo. A rischio di fornire un piccolo spoiler (ma si tratta proprio dei primi minuti del film), metto un esempio di come il tema del film viene sviluppato la prima volta. Se esistono altri film che usano la colonna sonora come questo, vi prego, segnalatemeli



Swiss Army Man merita di più. Ha ricevuto qualche nomination in festival del cinema indipendente, e Daniel Radcliffe ha vinto anche il premio come miglior attore al Sundance. Ma questo è un film che ha in sé le caratteristiche per segnare qualcosa, oltre a qualcuno. Quindi non fate come me, e date retta a chi vidice di guardarlo. Come sto facendo io adesso, se non si è capito.

Annienta-mente, o WTF did i just see?!

La settimana scorsa è uscito su Netfilx Annientamento, film di Alex Garland "liberamente tratto da" l'omonimo romanzo di Jeff Vandermeer (Annihilation in origine). Storia di produzione e distribuzione travagliata, di cui si è parlato tanto, fino a farne un esempio del basso livello di considerazione in cui è tenuto il grande pubblico dei cinema. Annientamento è un film troppo intelligente per il quoziente medio di chi va al cinema, hanno detto, e forse non era proprio così la storia, ma forso sotto sotto un pochino sì, e comunque qui non parleremo di questo.

Personalmente ho gradito molto Annientamento, quando invece avevo trovato poco entusiasmante il precedente lavoro di Garland Ex Machina, che mi era sembrato interessante nella concezione ma scontato nell'esecuzione. In questo caso invece siamo di fronte a qualcosa di diverso, un completo mindfuck che già poco dopo le scene iniziali lascia lo spettatore privo di punti di riferimento, in un viaggio senza cinture di sicurezza verso una destinazione ignota. Sarò più stupido del pubblico medio del cinema, ma io adoro quando un film mi tratta così.

La cosa interessante è che mi sembra che negli ultimi anni ci sia una certa tendenza verso questo tipo produzioni, un'attenzione particolare per quei film per i quali la reazione standard è WTF did i just see?!. Penso ad esempio a Under the Skin, oppure le ahimè scarse opere di Shane Carruth come Primer e Upstream Color, ma anche in misura minore Arrival. Ammetto che la mia conoscenza dell'ambiente cinematografico è piuttosto lacunosa, per cui potrei essere in errore a notare solo ora un fenomeno che è sempre esistito, d'altra parte Solaris e 2001 Odissea nello Spazio sono usciti diversi decenni fa. Eppure la mia impressione è che in tempi recenti l'attenzione verso il WTF su schermo sia incrementata, e mediata nella maggior parte dei casi dal linguaggio della fantascienza. Forse perché il modo più semplice per introdurre qualcosa di alieno, che trascende i limiti dell'umana comprensione, è di metterci dentro proprio un alieno.

Se questa tendenza esiste davvero, ci dice qualcosa? È solo un ciclico movimento della moda e sensibilità collettiva, come lo sono i cinecomics, o implica qualcosa di più profondo? La mia umile interpretazione è che questo desiderio di avvicinarci a qualcosa di complesso per comprenderlo, e venirne rimbalzati, riflessi, annientati (nella mente quanto nel corpo), è un'espressione di quel diffuso senso di disagio implicito che buona parte della popolazione mondiale avverte, quel germe di solida incertezza, la consapevolezza sopita di non essere in grado di comprendere un mondo/ambiente/società/ecosistema oggi diventato troppo grande e interconnesso per essere recepito da una sola mente, almeno con gli strumenti della ragione.

E quindi cerchiamoaltro: l'autodistruzione, che sembra essere uno dei temi portanti di Annientamento (almeno del film, non ho letto il romanzo), è l'ultima fase di questo smarrimento, quella in cui l'unico modo per rispondere alla domanda è disinnescarla, esplodere in un annienta-mente che ci permette non solo di non trovare la risposta ma di cancellare anche la domanda. Uno zen cosmico che non viene più tramandato dai maestri ma di cui forse abbiamo bisogno come mai nella storia.

Come dicevo quando parlavo della fantascienza contemporanea italiana, mi pare che questo desiderio di mindfuck (che almeno io e Garland e Carruth proviamo, non so voi) sia alla fine dei conti una manifestazione di qualcosa che c'è sotto, e che può essere espressa solo in termini che sfuggono all'interpretazione. Non rimane quindi che annichilirsi, e ripartire. Se qualcosa è rimasto.

Coppi Night 11/03/2018 - I don't feel at home in this world anymore

Che poi un titolo del genere non ci sarebbe niente di male a tradurlo, a volte si sprecano per tradurre un'unica parola comprensibilissima, e invece una frase intera che non tutti potrebbero capire te la lasciano intera. Ma vabbè.

Mi aspettavo forse qualcosa di un po' diverso, ma com'è noto le descrizioni di Netflix non aiutano. Una storia che comincia come il riscatto del bravo cittadino che comincia a rispondere alle ingiustizie della vita (prendine quanti ne vuoi, a partire da Io me e Irene), con la protagonista abituata ad abbassare la testa che dopo aver subito un furto in casa decide di reagire, e trova un improbabile alleato in un vicino di casa un po' stravagante (un Elijah Wood che sembra aver assorbito la personalità del Dirk Gently a cui fa l'assistente nella serie accanto). La cosa sfugge un po' di mano e i due si ritrovano invischiati in affari ben più loschi, fino a una conclusione piuttosto sanguinosa.

La cosa che ho gradito maggiormente in questo film è l'imprevedibilità, che forse (forse) può essere anche il tema di fondo dell'intera storia. Vediamo le cose anche da altri punti di vista oltre a quello dei due eroi, e così sappiamo anche qualcosa dei "cattivi", che alla fine dei conti sono dei disperati arruffoni tanto quanto gli altri. L'imprevedibilità è quella cosa che ti manda all'aria i piani, perché una macchina ti passa davanti nel momento sbagliato o perché pesti una merda nel vialetto di casa, e allora devi pensare veloce e cambiare le cose in corsa ma non è detto che tu ne sia capace, anche perché un altro ingranaggio del tuo infallibile nuovo piano potrebbe incepparsi e allora devi pensare di nuovo, ancora più in fretta.

Questo elemento sembra essere la forza motrice dell'intera vicenda, anche se in certi casi si avvicina fin troppo alla coincidenza estrema, come una pallottola che rimbalza e guarda caso ti colpisce proprio in testa. Scorporata la Legge di Murphy dalla storia però abbiamo però un percorso incompleto nell'evoluzione della protagonista: si parte appunto dal proposito di riprendere il controllo della propria vita, si muovno i primi passi, qualcuno un po' esagerato, ma dopo la tragicommedia finale tutto sembra come prima. Non basta la scena di un barbecue in giardino con gli amici a far capire se qualcosa è cambiato, e anzi, l'impressione è che in effetti tutto sia tornato come prima, e la lezione imparata sia "stai con la testa bassa ché sennò succede un casino".

Un film quindi passabile, facile da assorbire ma non così sfaccettato come vorrebbe far credere, che nella parte finale si arrota su se stesso e non riesce a sciogliere i nodi che ha creato. Da questo punto di vista, Jim Carrey aveva fatto di meglio.

Fringe vs me

So bene che arrivo dopo i botti, e che parlare di Fringe nel 2018 è come parlare del telegrafo nel 1988. È passato abbastanza tempo dalla sua fine perché si sia potuto dire tutto della serie tv ideata e prodotta da J.J. Abrams, sull'onda del successo di Lost, che riprende e aggiorna la formula di X-Files, con la sua struttura di procedural investigativo con un arco narrativo che emerge e si concretizza nel corso delle stagioni.

Ma sta di fatto che, a causa della mia stringente policy di fruizione delle serie tv, ho visto Fringe solo di recente, pressappocco a partire da settembre dell'anno scorso, e l'ho finito solo da qualche settimana. Questo post in ogni caso non vuole essere una recensione della serie, quanto una constatazione di come, ancora una volta, viene fuori che le idee non sono di nessuno e l'originalità è un valore molto aleatorio per chi inventa storie.

È successo infatti che, man mano che procedevo nella visione di Fringe, mi sono trovato di fronte a decine di spunti e idee che io stesso ho usato o ho pensato di usare in qualche racconto. La cosa mi è sembrata inizialmente curiosa, poi si è fatta frustrante e infine mi sono arreso all'evidenza che non c'è più niente da inventare.

Uno dei temi portanti della serie (si, vabbè, spoiler alert, ma vi devo anche spiegare come funziona il telegrafo?) è l'esistenza di più universi paralleli, anche se in particolare ne vengono mostrati due e non è mai specificato se, come in genere si intende, ne esistano in realtà infiniti. L'interazione tra questi universi è possibile, a volte in modo fisico e altre solo come un collegamento tra gli stessi individui delle due dimensioni. Più avanti si assiste anche alla rimozione di una persona dall'esistenza, con la conseguente alterazione della timeline vista fino a quel momento, se non che, in particolari circostanze, questa persona può tornare a farsi presente. La più semplice di queste circostanze è il sogno: le persone coinvolte sognano una versione diversa della storia, un universo che è stato, come potrei dire... retconizzato, ecco. È curioso anche notare come gli Osservatori, le entità post-umane che compaiono per raccogliere la storia, si chiamino con i nomi dei mesi, per cui abbiamo Settembre, Agosto, Dicembre... e presumibilmente, da qualche parte, anche un Novembre.

Naturalmente so di non aver inventato la retcon come meccanismo narrativo, ma il punto è che questo non è l'unico spunto che Fringe mi ha messo in scena sotto il naso, mentre io ero impegnato a fare altro per una decina d'anni prima di scoprirlo. Senza entrare troppo nello specifico delle varie trame, ecco una carrellata delle idee che ho trovato nella serie dopo averle già sfruttate in alcune mie storie:
  • Colone di funghi che formano una rete neurale capaci di entrare in contatto con gli umani.
  • L'accesso a un universo parallelo che provoca una "falla" dalla quale si estende un'anomalia in grado di destabilizzare la struttura di entrambi gli universi.
  • Lo stato di sogno utilizzato per accedere a universi diversi o versioni precedenti dell'universo.
  • Umani del futuro che possono viaggiare nel tempo e tornano nel passato per pilotare l'evoluzione della specie in modo da poter raggiungere il punto in cui si trovano loro.
  • Crescita accelerata che fa nascere un bambino già semiadulto.
  • La probabilità come forza primaria da cui si origina l'universo.
  • Musica/suoni e vibrazioni che permettono di sincronizzare menti diverse.
  • Un astronauta che durante una missione entra in contatto con una qualche entità che gli rimane poi "attaccata".
Di nuovo, non voglio dire che Fringe mi abbia rubato le idee (ma nemmeno il contrario, considerato che l'ho visto solo ora!), né che le mie siano idee tanto geniali che ci avrei potuto scrivere io una serie del genere e JJ avrebbe dovuto pagare me invece dei suoi sceneggiatori. Mi piace però notare come certi spunti probabilmente sono "nell'aria" e possono essere colti in momenti e da persone diverse, dato un contesto comune di partenza. Con ogni probabilità, tra altri vent'anni le suggestioni mie e di Fringe saranno superate, e a nessuno verrà in mente di costruire storie basate su queste stesse idee, ma in questo momento e in questo tempo, temi del genere continuano a emergere anche da fonti indipendenti, in una sorta di convergenza evolutiva memetica.

Insomma, alla fine dei conti non si inventa mai nulla, o quanto meno, io non invento nulla, e ciò che conta è soprattutto il modo in cui la stessa storia viene raccontata, ancora e ancora.

Rapporto letture - Febbraio 2018

Nonostante la brevità, febbraio è stato un mese di letture abbondanti, a cominciare dal primo consistente volume di cui avevo già accennato nel rapporto letture precedente.

Il libro in questione è The Rise and Fall of D.O.D.O., lavoro a quattro mani di Neal Stephenson e Nicole Galland. Chi sia questa Galland onestamente non lo sapevo, ma mi è bastato leggere il primo nome in copertina per spingermi a spendere quei venti euro e rotti. Certo per chi come me è avvezzo e soddisfatto dai romanzi di Stephenson, complessi, profondi, multisfaccettati, ponderosi, infodumpici (vedi Seveneves o Anathem), qui siamo su ben altri livelli; ma d'altra parte, chi non riesce a sostenere Stephenson per quelle stesse ragioni, potrebbe trovare in questo libro qualcosa di più facile da digerire. Il "dodo" del titolo e della copertina sta per Department of Diachronic Operations: sostanzialmente si tratta di viaggio nel tempo praticato tramite la magia operata dalle streghe. Un bel minestrone in apparenza, e anche nella sostanza, ma gli autori riescono a dare consistenza e credibilità a questo stato delle cose. La magia è sempre esistita, a quanto ci raccontano, ed è solo in tempi recenti, dalla metà dell'Ottocento in poi, che ha iniziato a perdere efficacia fino a sparire del tutto. Ma il D.O.D.O. è a conoscenza delle cose e intende ripristinare la magia, per guadagnare un notevole vantaggio sui nemici della Nazione. Viene così messa insieme una prima squadra, una manciata di coraggiosi e condotte le prime operazioni diacroniche. Poi il progetto si ingrandisce, fino a comprendere centinaia di operatori e decine di specializzazioni, e poi inevitabilmente, crolla sotto tutto questo (nessun spoiler che non possiate ricavare già dal titolo, eh). La scrittura come dicevo all'inizio è più leggera del solito, forse grazie al contributo della Galland, ma la portata delle idee sotto la superfici è comunque grandiosa: il funzionamento della magia e la sua scomparsa, il viaggio nel tempo, gli universi paralleli, il calcolo quantistico... e la gestione delle risorse umane, certo. Il tutto è raccontato per lo più tramite stralci di diario di alcuni protagonisti e report, chat, slide di presentazioni power point e così via. Forse parlerò più nel dettaglio di questo libro, ma la lettura è comunque consigliata per il modo in cui mescola la storia come la conosciamo a quello che invece non abbiamo mai saputo ma potrebbe benissimo essere vero. Voto: 8/10


Per riprendere fiato sono passato poi a qualcosa di molto più immediato: To self or not to self, un racconto medio-breve di Alessandro Forlani pubblicaot nella collana "Futuro Presente" della Delos. Una storia poco oltre il contemporaneo, come si propone appunto la collana, su un giornalista che cerca di ottenere l'incarico in una società ormai dominata dall'apparenza e dall'autocelebrazione, in cui il selfie è il principale metodo di affermazione. Forlani è abile nel cogliere le tendenze attuali ed esasperarle, creando una distopia tanto sottile che si fatica a riconoscerla come tale, troppo affine a quello che già stiamo vivendo ogni giorno. È tutto sommato una storia leggera, che evita il catastrofismo e la nostalgia dei bei tempi andati, ma riesce a delinare un quadro abbastanza chiaro della direzione in cui ci stiamo muovendo. Voto: 7/10


Ancora autori italiani e ancora testi fortemente politici: Nero italiano è uno dei romanzi più noti di Giampietro Stocco, considerato tra i più esperti autori di ucronie. È una storia dell'Italia degli anni 70, in una linea temporale in cui il fascismo non è crollato. Il punto di divergenza è quello che tanto spesso si sente ipotizzare quando si parla degli "errori" del fascimo: Mussolini non si è alleato con la Germania e non è entrato in guerra al fianco di Hitler. Questo non significa che abbia regnato ancora a lungo, perché è comunque morto nel 1945 e a lui è succeduto Galeazzo Ciano come capo del partito fascista. L'Italia è diventata un paese moderno, in grado di assumere un ruolo in Europa pur soffrendo ancora di censura e insoddisfazione di una parte della popolazione, soprattutto nei movimenti studenteschi. La direzione del fascismo capisce che è il momento di riaprire alla democrazia, ma qualcun altro vuole approfittare di questo momento di debolezza per riprendere il controllo assoluto. Qualcuno ha ritenuto questo romanzo come propaganda filofascista, ma si tratta di un'interpretazione superficiale: le contraddizioni del regime sono ben chiare, e d'altra parte cercare di ricavare come si sarebbe evoluta la situazione politica e sociale da quel punto di partenza non significa promuovere la restaurazione della dittatura. Ciò che forse mi ha convinto meno è l'assenza di un vero protagonista: ci sono una serie di personaggi principali e punti di vista, schierati da più parti, ma nessuno di questi sembra davvero primaio e compie una sua parabola di crescita. Il romanzo spesso indugia nella descrizione degli eventi storici passati e quindi lascia meno spazio allo sviluppo dei personaggi. Questo penalizza la fruizione, perché per quanto il worldbuilding sia interessante, non sapendo per chi fare il tifo si rimane sempre un po' distaccati dalla storia. Voto: 6.5/10

Infine un'ultima antologia: Le piscine terminali, prima opera letteraria di Enrico Gabrielli (curato dagli stessi tipi di Parallàxis, ve li ricordate?). Si tratta di una raccolta di racconti che si può associare in prima battuta a Fredric Brown: storie brevi, fulminanti, a volte assurde. Siamo nei territori della fantascienza e del weird, ma la definizione dei confini è approssimativa e comunque poco utile. Per il lettore abituato al ribaltamento di prospettiva e alle tematiche più ricorrenti della sf, alcuni racconti possono risultare prevedibili, mentre altri sono imprevedibili per definizione, perché prendono direzioni del tutto inaspettate, quasi ai limiti dell'allegoria. Non sono sicuro di aver capito fino in fondo tutti i testi, ma nel complesso direi che si tratta comunque di una raccolta interessante, con qualche pizzico di genialità grezza che forse avrebbe bisogno di una limatura per poter emergere con più sicurezza. Voto: 7/10