Coppi Club 27/02/15 - Con Air

Era il mio turno, quindi me ne assumo la responsabilità. Ho volutamente proposta una serie di film, tutti capitanata da Nicholas Cage. Devo sentirmi in colpa? No davvero. Perché ormai Niccage è un eroe pulp, ha generato tutta una sottocultura in cui, tutto sommato, lui stesso sguazza, e allora va apprezzato per essere riuscito a mettersi in gioco. Che poi non è che sia lui un attore così mediocre, è che proprio lo mettono in delle storie che hanno la credibilità di una scia chimica... per forza ne esce con la reputazione devastata! I rari casi in cui a dirigerlo e sceneggiarlo c'era qualcuno di valido, ha svolto egregiamente il suo lavoro, vedi ad esempio Adaptation / Il ladro di orchidee, o anche il classico Via da Las Vegas. Insomma, un professionsita come ce ne vorrebbero sempre, in questi tempi di svalutazione del lavoro creativo.

Ma veniamo al film. Che in due parole si può definire "puttanata clamorosa". Un aereo su cui vengono caricati un gruppetto di galeotti, con curriculum che spaziano dal furto con scasso al genocidio. Un apparato di sicurezza che, se mai fosse esistito, avrebbe impedito qualunque 9/11 (dieci agenti con i mitra spianati per ogni detenuto trasferito), ma che consente comunque a un paio di reclusi di portarsi dietro gli accessori per liberarsi dalle manette e prendere possesso del mezzo. Tra tutti c'è il buon Nic, con una posticcia parrucca alla Lorenzo Lamas, che un po' finge di assecondare i cattivi ma poi gli rema contro e lascia  indizi per essere rintracciato, perché questi criminali hanno il devastante piano di... non ho capito bene, se ne vanno alle Bahamas ed en passant caricano un lotto di droga, comunque niente che mettà in pericolo la sicurezza nazionale. Però vanno fermati. Il leader dei cattivi è John Malkovich, con altre illustre presenze secondarie come Danny Trejo (all'epoca probabilmente non se lo cagava nessuno) e Steve Buscemi, mentre a terra è rimasto John Cusack a dirigere le operazioni di sicurezza. Insomma un sacco di aggressioni, morti, diabetici, battute badass, e badass Cage, e tanta comicità, in parte cercata in parte involontaria. È comicità evidente quella del detenuto-checca, che prende la parola solo per dimostrare la sua estrema femminilità, è comicidà meno voluta, ma forse ancora più efficace, quella dello scambio di lettere dalla prigione di Nic con la figlia che non ha mai visto (e che apparentemente si affeziona a un padre della cui esistenza non ha alcuna prova).

Le incoerenze e le assurdità si sprecano, ma elencarle sarebbe un terribile spoiler perché toglierebbe tutto il gusto di vedere questo film, che di proposito o meno si configura come una caccia alla stronzata più grande. Il tono è raramente serio, a volte vira addiritura sul semisplatter o il grottesco, per questo si riesce a seguire comunque bene. Non oso credere che chi ha realizzato questo film lo pensasse come un prodotto serio, dev'essere stata una goliardata. In ognic aso, di certo è molto più godibile dell'ultimo film in cui Niccage è prigioniero su un aereo, avete sentito parlare di Left Behind?

Rassegna stampa DTS

Siccome si avvicina il giorno della prima uscita pubblica di Dimenticami Trovami Sognami (sabato prossimo a Reggio Emilia, ve lo siete già segnato?), ho pensato che potesse essere interessante segnalare qualche recensione che ha avuto il tempo di apparire in questo primo quasi-mese dalla pubblicazione del libro. In realtà i lord di Zona42 sono molto più bravi di me a scovare le recensioni (io non ho mai capito come funziona il google alert), infatti se andate sulla scheda di DTS sul sito trovate a seguire la rassegna stampa completa.

Naturalmente ho piacere di condividere i commenti usciti finora perché, nella totalità dei casi, sono positivi, se non entusiasti. Quindi finché dura me la godo, e riporto qui qualche estratto significativo con il link per rintracciare la recensione completa. Perdonate la vanità.


Secondo me il vero punto focale del romanzo sta tutto nel concentrarsi su una invenzione metaletteraria (il «retcon») che aggrappa il lettore alle pagine fino alla fine. Anche se i richiami, gli omaggi e i nomi di tutto lo scritto riportano alla fantascienza tout-court, ed è davvero divertente scoprire chi si nasconde dietro a chi, io ci ho visto una sorta di «Danbrownismo» (scusate il termine) in cui sembra davvero che l’autore creda in quello che ha scritto, quindi ti spinge con una forza impensabile a ragionare e ad aprirti su un modo di vedere la realtà davvero bizzarro ma coerentissimo. Si possono estrarre una quantità di temi così grande da far accapponare la pelle: la religione, il paradiso e l’inferno, l’esistenza e la persistenza di Dio, il sogno, l’imperscrutabilità dell’amore, la vita, l’universo e tutto quanto.


Sorretto da una scrittura non banale e sempre sicura, Viscusi conduce il lettore con mano ferma dentro i suggestivi meandri di un'ipotesi circa la trama più nascosta della realtà, mostrandoci che è l'intelligenza pura ad avere il primato dell'esistenza e che i sogni potrebbero dire molto più di quanto vogliano rivelarci del nostro inconscio. Dimenticami Trovami Sognami, distante anni luce dalla fantascienza come si è per lo più abituati a intenderla (siamo più dalle parti de La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo della Niffenegger con influenze dickiane, che dalle parti di Scalzi, Stross, Sawyer o Silverberg), finisce così per rivelarsi un romanzo sulla (onni)potenza della narrazione, dunque quasi una metanarrazione, ove le citazioni letterarie esplicite, che vi invito a scoprire (già Dorian è una), stanno li a dimostrare che se una singola idea può cambiare il mondo, può farlo anche un libro.


L’originalità consiste nel fatto che pur appartenendo alla fantascienza, l’opera rimane italiana. Comincia a Lucca, prosegue in un centro d’addestramento abbastanza anonimo dove cioè non sono descritti razzi interstellari, né sale altamente tecnologiche e prosegue in ambienti domestici. Non siamo dentro navicelle spaziali, ma nel parco, sotto casa, dove Dorian incontra la sua ragazza o nello studio di un esperto di sogni a Roma. In questi luoghi assolutamente comuni si dipana l’infinito e il viaggio all’origine del tutto.


Racconta una storia che non è facile descrivere, e non soltanto per la complessità che svela verso la fine, ma per l'atmosfera. La cosa più bella di questo libro è l'atmosfera, e dubito fortemente che riuscirò a renderle giustizia. Incerta, nebbiosa, onirica. Un po' Eternal sunshine of a spotless mind (mi rifiuto di usare il titolo italiano) e un po' Inception, perché ogni volta che si parla di sogni non sai mai davvero dove ti trovi, cosa stai leggendo.


Sia ben chiaro - come lui stesso ricorda nei ringraziamenti finali del libro - oggi, con secoli di narrativa alle spalle e tonnellate di romanzi scritti è ben difficile inventare qualcosa di davvero nuovo e originale. Per certi versi impossibile. Ma l’autore creativo sa attingere a temi e idee consolidate e darne una chiave di lettura interessante o una coniugazione personale e credibile. In questo senso: nuova.



Ci sarebbero anche altri commenti ricevuti su gruppi e pagine facebook, tramite messaggi o di persona, ma insomma, non è che posso passare le giornate a fare selfgoogling (qualche mezz'ora al giorno gliela dedico comunque, in questo periodo). Insomma, penso di avervi dato qualche buona ragione per dare una chance a questo libro, e magari anche per venirmi a trovare, sabato o in una delle prossime occasioni.

E naturalmente grazie a tutti per il tempo speso a leggere e commentare il mio libro.

Coppi Night 15/02/15 - Denti

Non avrei mai pensato di dover scrivere questa recensione. Nel senso, non avrei mai pensato di vedere un film del genere. Ma nella lista di film dedicati al San Valentino, l'assemblea del Coppi Club lo ha scelto, e allora eccoci a parlare di Denti.

Probabilmente lo conoscete, o ne avete sentito parlare. Probabilmente avete visto il trailer, con questa ragazza dal ginecologo e lui che la guarda preoccupato dicendo "qui c'è qualcosa di strano". La trama essenzialmente è quella della filastrocca goliardica Osteria numero venti, che abbiate pazienza ma non starò a riproporre qui, con l'appunto che se non la conoscete dovreste iniziare a passare più tempo al bar. Comunque, ecco il punto: la ragazza protagonista ha la vagina dentata. Non è dato sapere bene dove di preciso i denti si trovino, ma sono simili a quelli di una lampreda, e pronti a serrarsi su ogni cosa si affacci da quelle parti.

È chiaro che da questa premessa non si può tirare fuori niente di estremamente serio. Avevo l'impressione che il film fosse spacciato per un horror (dal trailer l'impressione era quella), ma di certo non si può definire così, nonostante alcune valide scene porno-gore (membri maschili amputati, pubi sanguinanti, cani che mangiano glandi ecc). Infatti, il film a mio avviso dondola tra due intenti principali: la satira e la parodia. Non sono sicuro che fossero davvero queste le intenzioni di chi lo ha realizzato, ma tutta la prima parte, in cui la protagonista e alcuni suoi amici fanno promesse solenni sulla verginità (imposte a bambini di 8-9 anni), negano qualunque interesse e pulsione sessuale, mi è sembrata estremamente satirica, un'estremizzazione delle tendenze puritane (a quanto si dice molto forti in certe zone degli USA) che puntano ad annullare completamente ogni concetto di desiderio non solo sessuale, ma anche emotivo. Esemplare è la scena in cui i libri di scuola riportano l'immagine dell'organo genitale femminile censurato, cosa che impedisce alla ragazza di capire di avere un problema (facciamo finta che non esista internet, ok?). In questo senso la vagina dentata è una manifestazione materiale di questa tendenza, e la protagonista si trova così, anche quando riesce a lasciarsi andare, impossibilitata a commettere questo "atto impuro".

Dopo metà film però il registro cambia: una volta presa coscienza del proprio corpo, la ragazza non solo inizia a considerare il sesso qualcosa di possibile, ma acquisisce un controllo almeno parziale sui propri denti, e li usa di proposito per punire coloro che la sfruttano o hanno fatto del male. Sembra quasi che il film diventi una specie di Kill Bill, con lei che si fa appositamente penetrare per poter amputare peni malvagi.

Non voglio stare ad analizzare l'aspetto femminista, se pure c'è. E ripeto che non sono sicuro che chi ha realizzato il film pensasse davvero di dargli questo significato, anche se mi riesce difficile credere che sia stato pensato come qualcosa di serio e letterale. Certo rimane poco al di sopra del B-movie, gli attori non si possono definire bravi (e io ho pure avuto difficoltà a distinguere alcuni dei personaggi maschili), la storia è gestita in modo un po' confuso, alcune sequenze sembrano non avere uno scopo preciso e la regia non è di prima qualità. Ma insomma, è un film che riesce a divertire con la sua assurdità (una scena su tutte è quella del ginecologo amputato che urla "La vagina dentata! Esiste davvero!"), una buona dose di doppi sensi non troppo volgari, e suscita pure qualche riflessione sulla sessualità e la percezione del proprio corpo. Insomma, non è un'opera che rimarrà nella storia, ma la visione rimane piacevole e non del tutto vuota.

E quando all'inizio ho detto che non avrei mai pensato di scrivere questa recensione, intendevo dire che non avrei mai pensato di poter scrivere di questo film un commento sostanzialmente positivo. Sorpresa totale.

DTS live @ Miskatonic University - Reggio Emilia, 28 febbraio

La polvere non si è ancora posata dalla presentazione di Spore a Ciampino (o meglio: il tumbleweed non ha ancora smesso di rotolare), che siamo pronti per un nuovo evento live!

Stavolta sarà anche un debutto, perché si tratta della prima presentazione di Dimenticami Trovami Sognami, uscito meno di un mese fa e che sta suscitando già svariati e notevoli riscontri (a breve farò anche una cernita delle recensioni comparse in giro, ma se intanto volete dare per esempio un'occhiata su anobii vi fate un'idea).

La presentazione si svolgerà sabato 28 febbraio alle ore 17 alla Miskatonic University di Reggio Emilia, una libreria di recente apertura vocata alla narrativa fantastica in tutte le sue forme: fantasy, horror, fantascienza, e tutti i derivati. Sarebbe quindi il contesto ideale per presentare il mio nuovo libro, poiché il pubblico dovrebbe già essere avvezzo a questo genere di opere, ma le sorprese (in positivo o negativo) sono sempre possibili.

Ecco la locandina:




Naturalmente mi affiancheranno i miei tutori di Zona 42, con i quali ho condiviso fin dall'inizio i primi passi in questa impresa. C'è anche da considerare che mi troverò per la prima volta a parlare in pubblico di questo libro, e anche che parlerò per la prima volta di un romanzo, dato che finora tutte le mie presentazioni riguardavano singoli racconti. Insomma, ci sono buone probabilità che faccia una figura miserevole, una ragione in più per non perdervela! Potete seguire gli aggiornamenti sull'evento facebook, e invitare amici e limitrofi.

Se già non lo fate vi consiglio intanto di seguire le attività della Miskatonic tramite la pagina facebook, perché il loro progetto, nell'attuale contesto editoriale e librario italiano, è sicuramente lodevole (e probabilmente sconsiderato, ma ehi, dicevano la stessa cosa del mio libro!). E questo lo dico a prescindere la fatto che abbiano messo DTS in vetrina, sia chiaro.

Braid

(Post originariamente pubblicato su Il futuro è tornato e riproposto qui (con qualche modifica) dopo la chiusura della webzine)
I’m sorry, but the Princess is in another castle.
Questa frase è sicuramente nota a tutti quanto hanno mai giocato al classico Super Mario, e quindi a chiunque abbia mai avuto un rapporto anche fugace con i videogames. E questa stessa citazione viene utilizzata anche in Braid, che di Mario riprende la struttura fondamentale del platform, oltre a vari altri omaggi che chiariscono in modo evidente il debito di questo gioco del 2008 al suo precursore di trent’anni prima.

Ma procediamo con ordine, perché Braid è molto più di un Super Mario aggiornato. Innanzitutto, il gioco è stato interamente sviluppato da Jonathan Blow, programmatore indipendente che lavora nell’industria dei videogiochi da anni, ma ha voluto uscirne proprio per sviluppare un prodotto che seguisse solo le sue idee. Dopo alcuni anni di lavoro, il gioco è uscito inizialmente come scaricabile per X-Box, e in seguito anche per Playstation 3, PC e Mac. Il successo è stato subito notevole, in parte per il considerevole hype creatosi intorno al gioco, e in parte per l’effettiva originalità e profondità del gameplay, che fanno di Braid un’esperienza completa in tutti i sensi.

Come già detto, la struttura di base del gioco è quella del platform: il giocatore può muovere il suo personaggio (Tim, un omino con un bel completino e cravatta rossa) in un mondo in 2D, procedendo da sinistra verso destra, saltando, arrampicandosi, ed evitando i nemici, fino a raggiungere l’estremità opposta del livello. Ma c’è una caratteristica essenziale che differenzia questo gioco da tutti gli altri del genere: non ci sono “vite” e non c’è modo di “morire”. In Braid, quando si viene colpiti da un nemico, si fa un salto troppo corto o si commette un qualsiasi errore, possiamo tornare indietro nel tempo, muovendoci fino al momento in cui abbiamo sbagliato, e agire di nuovo. Non c’è alcun limite a questa facoltà, né per quanto riguarda l’estensione del “rewind” (si può in pratica arretrare fino all’inizio del livello) né per il numero di rewind concessi (virtualmente infiniti). Il gioco è diviso in 6 “mondi” (proprio come nella tradizione inaugurata da Super Mario), ognuno con ambientazione e caratteristiche diverse, ai quali si accede dalle stanze della casa di Tim, che costituisce il livello-base dal quale il gioco inizia. Tuttavia, definire Braid come un gioco di piattaforme con la possibilità di riavvolgere il tempo sarebbe estremamente riduttivo. Infatti, se la struttura è questa, l’obiettivo del gioco è più simile al puzzle-game: ogni livello infatti include letteralmente alcuni pezzi dei cinque puzzle che Tim deve collezionare per poter ricostruire la sua storia. Così, la difficoltà del gioco non sta tanto nel raggiungere la fine del livello, quanto nell'ottenere tutti i pezzi, ognuno dei quali richiede un’ingegnosa interpretazione delle meccaniche di gioco, dal salto all’interazione coi nemici, fino al rewind stesso. Ma questo non è tutto, perché ogni mondo presenta una variabile in più rispetto a quelle di partenza, sempre legata alla possibilità di manipolare il tempo in modi differenti. Si trovano così oggetti “immuni” al rewind, livelli in cui il tempo scorre parallelamente al movimento di Tim stesso, proiezioni di Tim che ripercorrono le sue azioni, anelli che rallentano il fluire del tempo. Il nucleo di ogni enigma è spesso quello di superare una porta protetta da una chiave, salvare un “nemico” che sarà utile in un'altra sezione del livello, trovare il punto giusto in cui trovarsi al momento giusto. Questi elementi si combinano per creare sfide sempre nuove, e pezzi che per essere raggiunti richiedono un notevole (ma non impossibile) sforzo di immaginazione da parte del giocatore. Braid è in grado quindi di riproporre i temi classici del platform in una forma accattivante e coinvolgente. La manipolazione del tempo, nei diversi modi in cui viene realizzata, infonde una dimensione fantascientifica al gioco, e apre la strada a diverse chiavi di interpretazione della storia stessa.

Un'altra componente essenziale di Braid, che contribuisce a farne un'opera curata sotto tutti i punti di vista, sono la grafica e la colonna sonora. Dopo i prototipi iniziali, lo sviluppo grafico è stato affidato a David Hellman, che ha realizzato tanto l'ambientazione quanto i personaggi e le animazioni. Il risultato è di un impatto sorprendente per un gioco del genere, con gli sfondi che ricordano dei ritratti ad acquerello, i colori vivaci e vitali, che introducono a un mondo che appare come un paesaggio incantato. Con il procedere del gioco tuttavia i toni iniziano a farsi più cupi, e negli ultimi mondi lo stesso stile riesce a produrre ambientazioni piuttosto inquietanti, dissonanti, che assumono sempre più i tratti di un incubo. Anche il design dei personaggi del gioco ha un suo peso: Tim con la sua giacca, gli avversari principali che assomigliano a pallette di pelo con le scarpe, gli assurdi coniglietti che inseguono Tim e sfoderano i denti miagolando... tutti dettagli che sulle prime stupiscono, e che in seguito assumono un significato particolare. Per quanto riguarda i citati riferimenti a Super Mario, il gioco ne è pieno: dalle piante-piranha che escono fuori dai tubi, al messaggio che Tim riceve alla fine di ogni mondo (“...the Princess is in another castle”), fino al livello in cui è riprodotta la stessa struttura a scale del classico Donkey Kong. L'omaggio è quindi evidente, e lo si può gustare ogni volta che si presenta. La colonna sonora invece è costituita di diversi pezzi strumentali, la maggior parte dei quali composti dalla violoncellista Jami Sieber. Anch'essi sono stati scelti con cura e assumono un loro ruolo nel fornire un'interpretazione del gioco, soprattutto negli ultimi livelli. Inoltre, la musica è soggetta alla stesse dinamiche di distorsione temporale del mondo in cui si muove Tim: procede al contrario durante il rewind, rallenta in prossimità dell'anello, si sdoppia quando viene generata la copia-ombra, e così via. Grafica e musica sono elementi apparentemente superficiali, ma che, quando si considera il gioco nel suo complesso, colpiscono per il loro potere di creare un legame emotivo con il giocatore.



Tutto questo per quanto riguarda il gameplay in senso stretto. Ma c’è anche una storia dietro Braid, che si rivela meno banale di come può sembrare all’inizio. All’ingresso di ogni stanza, Tim passa infatti in una specie di “limbo” dove sono presenti le porte per accedere ai diversi livelli, e in cui alcuni libri illustrano la storia e il tema del mondo. Così inizia il mondo 2 (non è un errore: il primo  è il numero 2): “Tim è alla ricerca della Principessa, rapita da un mostro orribile e malvagio. Questo è successo perché Tim ha commesso un errore.” Da qui deriva la tematica del rewind, che appunto consente di tornare indietro sui propri passi correggere gli errori. Dice ancora l’introduzione a questo mondo, intitolato Tempo e perdono: “Il nostro mondo, basato su rapporti di causa e d effetto, ci ha insegnato a essere avari di perdono, perché perdonare ci espone al rischio soffrire. Ma se abbiamo imparato dai nostri errori, se ci hanno fatti diventare migliori, non dovremmo essere premiati per questo, piuttosto che puniti?”. Nei mondi successivi, ulteriori brani concedono degli sprazzi del rapporto tra Tim e la sua Principessa, e lasciano intuire che le cose non siano lineari come appaiono in un primo tempo: probabilmente, il “mostro orribile” che ha rapito la Principessa è ben diverso dal Bowser che aveva rapito Peach. Il mondo 3 è Tempo e mistero, in cui compaiono i primi oggetti immuni al rewind operato da Tim; Tempo e spazio è un intero mondo che si muove di pari passo con Tim, scorrendo avanti nel tempo quando cammina verso destra, e tornando indietro quando lui fa lo stesso; in Tempo e decisione, Tim può proiettare un doppelganger che ripete le sue azioni, mentre lui si dedica ad altri compiti; nel mondo 6, Esitazione, Tim ha un anello che, quando viene posato a terra, proietta un’aura di rallentamento sempre più intenso man mano che ci si avvicina al nucleo. Alla fine di ogni mondo, Tim raggiunge un castello, e qui viene accolto da un simpatico dinosauro di pezza che gli annuncia, appunto, che la Principessa è in un altro castello, e il suo viaggio deve proseguire. Procedendo nel gioco, percorrendo mondi via via più tetri, i dinosauri sembrano sempre più confusi dalla presenza di Tim e dalla sua ricerca della Principessa. Solo una volta acquisiti tutti i pezzi dei cinque puzzle si potrà accedere infine al mondo 1 (che non ha nome), in cui il tempo scorre costantemente all’indietro, e qui raggiungere il livello finale del gioco, dove finalmente Tim troverà la Principessa e il mostro che l’ha rapita… ma la battaglia finale sarà tutt’altro che prevedibile. Una volta superato quest’ultimo ostacolo, si accede all’Epilogo, dove una serie di libri narrano la fine (ma lo è davvero?) della storia. Se già durante il viaggio dal mondo 2 al 6 le introduzioni avevano gettato alcuni dubbi sulla storia di Tim, dopo aver superato l’ultimo livello (che si intitola a sua volta Braid, ovvero “treccia”: la treccia della Principessa) e letto il lungo epilogo, si capisce che c’è qualcosa di più oscuro, e più profondo, nella ricerca della Principessa. Quella di Tim, si scopre, o almeno si arriva a sospettare, è una vera ossessione; la Principessa stessa forse non è una donna in carne e ossa, ma un simbolo, l’obiettivo finale a cui lui ha dedicato tutte le sue forze ma che continua a sfuggirgli. Alcune interpretazioni vedono in alcune citazioni inserite nell’epilogo dei riferimenti all’invenzione della bomba atomica, e la possibilità che Tim, coinvolto nella progettazione del supremo strumento di morte, stia cercando di tornare indietro per cancellare il suo senso di colpa. Non è facile trovare un significato univoco e coerente in ciò che accade in Braid, ma d’altra parte lo stesso autore afferma che tra le sue maggiori ispirazioni ci sono le opere di Calvino e Lynch: è chiaro quindi che esistono multipli livelli di lettura, sovrapposti e/o nidificati, e che lo stesso svolgimento del gioco sia a sua volta una metafora della ricerca di un obiettivo irraggiungibile, e che forse, anzi, non vuole essere raggiunto. Un’ulteriore conferma di questa interpretazione sono le stelle: nel gioco sono nascoste otto stelle, in posizioni estremamente difficili da raggiungere, che richiedono una manipolazione creativa delle regole del gioco e una grande abilità nei movimenti. Di queste stelle, una richiede un’attesa di oltre due ore per poter essere raggiunta, una può essere ottenuta solo prima di aver completato uno dei puzzle, l’ultima appare solo quando sono state prese le sette precedenti. Le stelle sono quindi obiettivi così remoti, così astrusi, che richiedono enormi sforzi di volontà e pazienza, e solo i giocatori più motivati (ossessionati?) riusciranno a trovarle tutte. Un'approfondita trattazione di come, secondo l'epilogo, deve essere interpretato Braid si può trovare qui, ma si sconsiglia assolutamente la lettura prima di aver finito il gioco (lo stesso vale per i video su youtube relativi all'ultimo livello: non guardateli!). Ma qualunque sia il significato che vorrete dare alla storia, vi accorgerete comunque di esserne stati toccati, e sarà difficile rimanere insensibili a quanto avete visto e appreso. Vi accorgerete che forse, alla fine, non è tanto l'obiettivo finale che ha importanza, quanto il percorso che vi ha condotti fin laggiù.

Braid non è un gioco facile, almeno non nel senso di “leggero”. Come può essere giocare una partita a scacchi, muoversi all'interno di Braid richiede presenza e concentrazione. Per stessa ammissione dell'autore, ogni puzzle è unico, e c'è un solo modo di risolverlo. Non esistono filler, cioè parti di gioco non necessarie che fanno da “riempimento”: tutte le situazioni che si presentano sono nuove e devono essere risolte studiando la giusta combinazione di movimenti e meccanica di gioco. Non c'è nessun dettaglio lasciato al caso: un nemico, una porta, una leva, si trovano sempre in un punto preciso per una ragione specifica, ed è penetrando la struttura di ogni livello che si può arrivare alla soluzione. Al tempo stesso però, questo non significa che si tratta di un gioco difficile e frustrante. Se anche alcuni pezzi possono sulle prime apparire irraggiungibili, la soluzione è sempre perfettamente ricavabile attraverso un ragionamento, tutto ciò che serve è solo una certa dose del cosiddetto pensiero laterale. In molti casi può capitare di lasciare un livello con alcuni pezzi ancora da conquistare (almeno in uno è in effetti necessario), passare al successivo, e ritornare in seguito su quelli abbandonati per accorgersi di aver trovato la giusta strategia. Personalmente, su 60 pezzi totali da collezionare, solo in due casi ho avuto bisogno di un piccolo “aiuto”, per poi scoprire che avrei potuto facilmente capire da solo la soluzione, con un semplice scatto in più di elasticità mentale. Jonathan Blow afferma con orgoglio di trattare i suoi giocatori con estremo rispetto, valorizzando il tempo da loro speso su Braid, e questo è maggiormente vero quanto più un giocatore si impegna con le sole proprie risorse. Solo allora si partecipa veramente alla storia di Tim, ci si lascia coinvolgere e si ottiene vera soddisfazione dai risultati raggiunti. È questo il senso del walkthrough ufficiale inserito sul sito del gioco.



Jonathan Blow, e la sua esperienza nella creazione e diffusione di Braid, è presente anche in Indie Game: The Movie, un docu-film che segue appunto la realizzazione di alcuni giochi indipendenti (oltre a Braid: Super Meat Boy e Fez). Qui l'autore esprime alcune idee interessanti sul processo creativo che sta dietro il gioco, e su come i videogiochi rappresentino un mezzo di comunicazione potente, a patto che siano progettati come opere vere e proprie, e non prodotti di consumo. Sono sue le parole che chiudono il film: “Le cose personali hanno imperfezioni, hanno vulnerabilità. Se non vediamo vulnerabilità in qualcuno, non possiamo rapportarci a lui a livello personale. Vale lo stesso nel progettare giochi: realizzarlo è stato come prendere tutte le mie imperfezioni e vulnerabilità, e mettercele dentro. E poi scoprire cosa viene fuori.” Blow sta attualmente lavorando con il suo team a un nuovo gioco, The Witness, un altro vastissimo e complesso puzzle game (oltre 700 enigmi) ambientato su un’isola deserta, la cui uscita è prevista nei prossimi mesi (dopo più di 6 anni di lavorazione).

In conclusione, Braid, pur nella sua semplicità strutturale, è più di un videogioco. È intrattenimento, certo, ma lo è nel senso in cui anche un romanzo o una sinfonia lo sono. Si tratta di un prodotto di grande valore, fatto per trasmettere e condividere emozioni. E questo, solitamente, è ciò che viene definito “arte”.

Coppi Night 08/02/15 - American Sniper

I casi sono due: o Clint Eastwood è così sottile che non sono riuscito a capire cosa volesse dire, o è così grezzo che ho capito cosa voleva dire fin dal primo minuto ma ho sperato con tutto me stesso di sbagliarmi. Non mi aspettavo da questo film niente di straordinario, magari un buon film "di guerra", che pure non è un genere che mi cattura più di tanto ma può avere i suoi buoni momenti, un attore protagonista che non mi dispiace e una storia che magari riserva qualche sorpresa, qualche livello di approfondimento, una prospettiva diversa dal solito.

In effetti la sorpresa c'è stata: American Sniper è il film che ridefinisce il concetto di americanata, roba che se la batte alla pari con Independence Day. Per due terzi di film ho pensato che stesse per venire fuori qualcosa, una rivelazione spettacolare o un sovvertimento totale del punto di vista che potesse dare un senso a quanto si era visto fino a quel momento, e invece nulla. Il protagonista è davvero un redneck cowboy texano militarista patriota che antepone il Bene del Paese a qualunque altra cosa, un buono a tutti i costi che nonostante abbia ucciso oltre 160 persone rimane comunque una persona di sani principi e di alta levatura morale, mentre il suo avversario dello schieramento opposto incarna ogni possibile nefandezza dell'umanità. E attenzione, non sto dicendo che questo sia sbagliato a priori, non voglio lanciare slogan pacifisti dicendo che un assassino (o soldato, chiamtelo come volete) non possa essere un personaggio positivo, ma in questo caso il protagonista è solo un soldato/assassino, non ha nessun'altra sfaccettatura oltre a questa, quindi non può essere giudicato per nient'altro. Ho anche pensato che potesse venire fuori qualcosa nella vita familiare dello sniper, ma anche lì niente che non ci si aspetti dal personaggio: nove mesi in missione, tre mesi a casa, il tempo di ingravidare la vacca, poi si riparte così al ritorno troviamo un figlio nuovo e la moglie che aspetta.

E mi si dirà, guarda che è tratto da una storia vera. Wow. Io ho un problema con le "storie vere": che solitamente mi fanno schifo. Il mondo è pieno di storie vere, andate a chiedere a qualcuno alla fermata del bus o al barbiere o all'omino che legge la gazzetta al bar di raccontarvi il loro primo giorno di scuola, ed ecco la vostra storia vera. Probabilmente sarà una cagata, ma il fatto che sia vera la rende forse migliore? Dover raccontare una storia implica necessariamente un atto di interpretazione e trasmissione di un messaggio, e in questo senso la "veridicità" non ha alcun valore. Il "tratto da una storia vera" è di solito una formula per dire "sappiamo che la storia fa schifo, ma è successo davvero quindi non colpa nostra". Questo film ne è un eccellente esempio.

Rapporto letture - Gennaio 2015

Il 2014 non si era concluso in modo troppo soddisfacente, dal punto di vista delle letture, perché ottobre, novembre e dicembre non mi avevano regalato grandi soddisfazioni: qualche buon libro, ma un paio di letture terribili che mi hanno fatto tappare più di una vena. Quindi ripartiamo, sperando di poter trovare qualcosa di meritevole (in effetti mi sono già messo in lista un paio di letture di alto livello nel caso non riuscissi a trovare altro).

A dire la verità infatti anche il primo titolo dell'anno mi ha convinto molto poco. Charles L. Harness è un autore della golden age della fantascienza in realtà non molto conosciuto, e un motivo ci dovrà pur essere. Il motivo probabilmente è che se questo è il tenore delle sue opere, non merita certo tantissima considerazione. Questo Paradosso cosmico è essenzialmente una vanvogtata: eroi con poteri eccezionali che corrono da una parte e dall'altra, rischiano la morte in più modi salvandosi all'ultimo momento, mettono in gioco il destino dell'umanità, sfidano il capo del mondo, inventano una serie di tecnologie di dubbia credibilità dalle quali dipende la soluzione dei misteri di fondo. Le storie di Van Vogt solitamente non sono particolarmente ricche di significato ma sono quantomeno divertenti e ottimamente ritmate. Harness invece non sa scrivere allo stesso modo, per cui il risultato è fiacco. La sua storia è quindi una succesisone di scene d'azione e rivelazioni (piuttosto prevedibili), technobabble e teorie scientifiche molto discubili, il tutto portato in scena da personaggi senza alcuna sfaccettatura e della cui sorte, in fin dei conti, non ci importa niente. Quindi si va avanti per inerzia, sperando di trovare qualcosa che davvero sovverta le premesse iniziali del romanzo, ma invece si ritorna al punto di partenza e tutto finisce lì. Voto: 4.5/10


Seconda lettura de mese è un ebook autoprodotto di Davide Cassia, autore italiano di cui ho già letto qualcosa in passato. Il santo dell'anno contiene due racconti: uno eponimo e Siamo figli delle stelle. Il primo racconta di una sorta di talent show in cui diversi "santi" (ecclesiastici, monaci ed eremiti di varia estrazione) si sfidano in gare di miracoli per eleggere, appunto, il "santo dell'anno". La storia è raccontata con piglio ironico e l'idea della sfida in diretta tv per la moltiplicazione dei pesci o il cammino sulle acque è divertente. Purtroppo il racconto, una volta stabilito questo, non porta in pratica ad altro, limitandosi a seguire dal punto di vista del protagonista tutta la competizione. Il finale è a sua volta dissacrante però non si può dire che sia imprevisto o concluda la vicenda in alcun modo. Il secondo racconto ha a che fare con incontri ravvicinati con alieni che si nascondono sotto sembianze umane, tema praticamente quotidiano della fantascienza, e anche questo purtroppo fallisce nell'offrire qualcosa di originale, con una storia che si limita a un inseguimento e la scoperta peraltro poco sconvolgente di questa invasione silenziosa. La scrittura è buona (anche se qualche refuso è scappato), e il tono leggero aiuta ad assorbire il tutto con facilità, ad entrambi i racconti però manca quel guizzo che possa portare a definirli come lavori completi. Voto: 6/10


Completiamo la mesata con un altro ebook autopubblicato, stavolta multiautore: Livio Gambarini, Marco Cardone e Polly Russell hanno unito le forze (sotto la guida di Marco Lomonaco) per questo racconto lungo ASAP: Tempi che corrono. Si tratta di una storia di fantascienza che parte con la premessa dell'invenzione di un campo di "sfasamento temporale" che consente di far scorrere il tempo a velocità diverse in una zona circoscritta. L'idea in sé non è del tutto originale, ricorda ad esempio un cortometraggio uscito qualche tempo fa, e che si intitola appunto Tempo, e per certi versi anche il mio racconto Natura morta, contenuto in Spore. Non sto accusando nessuno di plagio, anzi, volevo sottolinare queste somiglianze perché nonostante l'idea di base non sia di per sé innovativa, lo sviluppo che ne hanno tratto gli autori è molto interessante. L'ASAP, il sistema che consente questa accelerazione circoscritta, diventa infatti un'applicazione commerciale, e nel contesto del racconto il tempo è diventato in pratica una nuova merce di scambio. I guai iniziano quando uno degli scienziati a capo del progetto (compagni di studi del protagonista, che poi ha preso una strada (e una velocità) diversa) è vittima di un attentato e sua figlia viene rapita. Il protagonista è così costretto a intervenire, sfruttando le ultime applicazioni della tecnologia ASAP a suo vantaggio. Inizia così la parte "avventurosa" che trae il meglio dall'idea di far muovere l'eroe a velocità diverse rispetto al resto del mondo. La parte centrale è quindi interessante, soprattutto per la rigorosità scientifica adottata, ed è solo quando mancano poche (virtuali) pagine alla fine che si arriva alla rivelazione finale, forse un po' scontata. Il racconto rimane quasi in sospeso, perché parte con un'idea gustosa, porta a dei primi sviluppi eccellenti (la diffusione della tecnologia ASAP) ma poi prende una strada fin troppo battuta: voglio dire, l'eroe che corre a salvare la bella, che poi è pure la figlia dello scienziato... siamo dalle parti del Pianeta proibito! Secondo me gli autori, per quanto competenti, non hanno voluto osare abbastanza, avrebbero potuto sovvertire le stesse basi sulle quali la storia si basava per ottenere qualcosa di straordinario, invece si sono accontentati di premere sull'azione. Quindi una lettura coinvolgente, ma che avrebbe potuto riservare molto di più. Mi è stato comunque detto che ci sono già dei piani per estendere l'universo narrativo di ASAP, e sicuramente ne seguirò gli sviluppi, anche a velocità normale. Voto: 7/10

Coppi Night 25/01/2015 - Il seme della follia

Avete notato la data nel titolo di questo post? Ecco, in effetti questo è un resoconto del Coppi Club che sovverte il naturale ordine cronologico dei post. Niente di misterioso, semplicemente per una serie di circostanze (tra cui la partenza per Roma e la promozione di DTS) non ho avuto modo di inserire prima questo commento, e quando ho visto Lucy ho voluto parlarne subito finché la vena era scoperta. Se la settimana precedente avessi visto un filmaccio indegno di nota avrei lasciato perdere, ma credo che valga la pena parlare di Il seme della follia.

A posteriori so che è considerato un classico dell'horror, ma non avevo ancora avuto occasione di vederlo nonostante in genere apprezzi i lavori di Carpenter. In questo caso la storia è addirittura ispirata ad alcuni racconti di Lovecraft, in particolare Le montagne della follia ma con diversi richiami anche ad altri. Si inizia con il ricovero in un manicomio (piuttosto grottesco) di un agente assicurativo (un Sam Neill molto convincente nel suo ruolo), che racconta in un flashback come è arrivato a essere considerato pazzo. Scopriamo così la storia di uno scrittore horror così popolare che la gente letteralmente fa a botte per acquistare i suoi libri (e ci vuole una fortissia suspension of disbelief per crederci!) misteriosamente scomparso, sulle cui tracce viene messo Neill, in cerca di una potenziale frode assicurativa. Il discorso però è molto più complesso, perché lo scrittore non è semplicemente scomparso ma ha assunto il suo ruolo di evocatore degli esseri che popolavano il mondo prima dell'umanità, ed è proprio il richiamo di queste creature immonde a provocare gli sconvolgimenti nei suoi lettori e incidentalmente il suo successo (ah, ecco, così è più credibile...). La ricerca va avanti tra mostri e cittadine semistregate, fino a quando il protagonista incontra lo scrittore stesso che gli rivela l'uscita del suo ultimo e definitivo libro Nelle fauci della follia, che scatenerà in una parola la fine del mondo (e della sanità mentale).

Ci sono in realtà alcuni altri elementi interessanti, soprattutto riguardo il ruolo dell'agente, che se in certi momenti può sembrare agire senza criterio, a posteriori si rivela perfettamente coerente con le premesse della storia. La scena finale chiude poi il cerchio con una mise en abyme eccezionale, ed è allora che si capisce davvero il senso della follia evocata fin dall'inizio.

Mi è piaciuto molto come si svolge questo film, perché non capita spesso di vedere un horror che non si basa interamente su jumpscares e visioni mostruose ma cerca di costruire la tensione con una storia allo stesso tempo misteriosa e inquietante, che sviluppa le sue capacità su diversi livelli narrativi. Probabilmente questo è il risultato quando si mettono insieme personaggi di grande competenza come Carpenter e Lovecraft. Metaforicamente, dico, non mi venite a ricordare che Lovecraft era già morto da un po'...

Il ritrovamento di Majorana e la previsione del passato

È notizia di ieri che la procura di Roma ha finalmente chiuso il caso (per quanto questa espressione possa avere senso in un contesto del genere) della sparizione di Ettore Majorana, il brillante fisico italiano scomparso nel 1938, quando non aveva fatto ritorno come previsto al porto di Napoli su un piroscafo proveniente da Palermo. Secondo le analisi eseguite su alcune foto recentemente acquisite, Majorana era in Venezuela fino alla fine degli anni 50, sotto falso nome, e qui probabilmente è morto.

La notizia è di per sé straordinaria, perché risolve uno dei più misteriosi casi della storia e della scienza moderna. La scomparsa di Majorana aveva fin da subito suscitato un grande clamore, tant'è che Mussolini stesso aveva promesso una ricompensa per chi avesse fornito informazioni, e in seguito in molti immaginarono il destino del fisico: ritirato in convento, suicida in mare, rapito dai nazisti. Niente però era emerso fino a pochi anni fa, quando durante la trasmissione televisiva Chi l'ha visto un italiano emigrato in Venezuela dichiarò di aver conosciuto Majorana e fornì le foto che poi sarebbero state analizzate, e che hanno confermato l'effettiva presenza in Sudamerica dello scienziato vent'anni dopo la sua sparizione.

Ma se mi prendo il disturbo di segnalare la cosa qui, quando potrei semplicemente condividere un paio di link sui social, è perché anch'io mi sono dedicato al caso Majorana, in un racconto che avevo inizialmente intitolato Pace e morte e che è stato in seguito pubblicato con il titolo La conquista all'interno del libro Perché nulla vada perduto e altri racconti, volume che raccoglie i racconti selezionati del XIX Trofeo RiLL. La cosa interessante è che la teoria da ma proposta nel racconto è proprio quella che è stata confermata vera. Certo, io ci ho messo di mezzo anche diversi altri personaggi di rilievo storico: Tesla, Marconi, Rachele Mussolini. Ritengo però che la storia costruita intorno a questi non abbia nessun elemento eccessivamente fantastorico, e che insolite coincidenze ben documentate potrebbero renderla come minimo possibile.

Ecco quindi che mi trovo di nuovo ad aver azzeccato una previsione in una delle mie storie. In effetti in questo caso non ho indovinato qualcosa di futuro, ma un evento passato, su cui sono già stati condotti studi e ricerche, quindi non si può dire che io abbia trovato una soluzione innovativa. Ma è comunque curioso che una storia messa insieme senza pretese si confermi poi come vera. Una cosa simile è avventa per un altro mio racconto, Cattivi genitori (incluso in Spore): in questo racconto scritto nel 2011 mi lancio in un'inusitata (per me) analisi della situazione politica italiana, affermando che l'apice del declino (scusate l'ossimoro) si è ottenuto durante le elezioni del Presidente della Repubblica del 2013: ed effettivamente proprio in quell'anno l'impossibilità di individuare un nuovo Presidente portò alla secona elezione di Napolitano. È ovvio che non avevo nessuna idea che potesse succedere qualcosa del genere, eppure col senno di poi, qualcosa avevo azzeccato.

Si può quindi dire che la fantascienza può davvero prevedere il futuro (anche prossimo), o in certi casi, il passato? Nell'articolo pubblicato un paio di settimane fa sul magazine TuttoMondo affermavo quasi il contrario: la fantascienza non cerca di prevedere, non nel senso di profetizzare. D'altra parte sia in Pace e morte che in Cattivi genitori il particolare che si è "avverato" non era certo il nucleo della narrazione, ma un dettaglio marginale, quindi la storia non avrebbe perso in alcun modo il suo valore se quel particolare non fosse stato confermato in seguito. Il fatto che invece la storia abbia avvalorato la mia versione aggiunge alcune sfaccettature alla speculazione svolta nei racconti.

Si tratta solo di una casualità? Sì, ok, è probabile. Anche l'oroscopo ogni tanto ci chiappa, no? Però mi piace pensare che possa esserci dell'altro, e non lo dico per autocelebrazione, ma ancora per far capire il meccanismo che sta alla base della fantascienza: partendo da una serie di dati e cercando di estrapolarne l'evoluzione più plausibile, si può davvero ottenere qualcosa, anche se lo si sta facendo solo per divertimento, perché non sono mica un futurologo, io. Succede così che la fantascienza non cerca la previsione, ma quando è ben sviluppata la ottiene comunque.

Con buona pace di Sciascia, che invece aveva creduto al convento.

Coppi Night 01/02/15 - Lucy

Ellapeppa, è una settimana che non scrivo qui sopra! Ci sarà gente che ha già pensato alla tragedia, invece semplicemente ho voluto lasciare più spazio al post che segnala l'uscita di Dimenticami Trovami Sognami, e poi sono stato via qualche giorno per la presentazione di Spore. Torniamo quindi alla normale programmazione con una nuova recensione del Coppi Club.

Quello che ha passato la fase di votazione è un film che volevo vedere da un po', perché aveva suscitato un certo clamore nell'ambito del cinema di fantascienza qualche mese fa. In realtà non mi aspettavo niente di che, perché Luc Besson non mi è mai sembrato un autore di riferimento del genere. Anche Il quinto elemento, per quanto si consideri ormai un classico, non credo certo si possa indicare come uno dei più fulgidi esempi del genere. Comunque, dicevano, Lucy è altra cosa, Lucy è un film drammatico e profondo. Ora, basterebbe l'assunto di partenza per far crollare tutta l'idea alla base della vicenda: la favoletta secondo cui gli uomini usano solo il 20% delle loro capacità cerebrali. Non è ben chiaro come questa storiella si sia diffusa, ma si sa che non è affatto vero. Comunque, diamo pure per buono il fatto che le cose stiano così: sospendiamo l'incredulità e crediamoci davvero, come avevamo fatto con Limitless. Crediamo anche che esista such thing as CPH4, un non meglio specificato enzima che durante la gravidanza dà l'origine a tutti i processi cognitivi.

Allora, dovremmo anche capire quali conseguenze possa avere il funzionamento a pieno regime del cervello. La piccola Lucy, dopo un attacco epiletticco antigravitazionale (si appende al soffitto), inizia ad acquisire una serie di poteri sempre più elevati: dapprima il controllo del proprio corpo (tanto che una pallottola alla spalla non le provoca nessuna difficoltà), poi il controllo dei corpi altrui, dei ricordi, della materia, delle onde elettromagnetiche, della gravità, del tempo. Insomma, in poche ore diventa un super X-Man con i poteri di tutti gli altri. Ci sarebbe molto da discutere su questo aspetto, perché va bene ottenere un completo controllo delle proprie funzioni, dei sensi superaffinati e pure anche il controllo mentale, ma abbattere le leggi fisiche, diavolo, è un'altra cosa. Ma per assurdo, neanche questo sarebbe di per sé un problema: voglio dire, se lo fanno gli X-Men lo può fare anche lei.

Il problema è che le manifestazioni del suo potere sono poco coerenti con quanto lei stessa o Morgan Freeman (che fa lo scienziato che sa le cose) affermano nel corso del film. Ovvero, la storia contraddice il suo stesso universo narrativo, e questo non va bene. Per essere diventata superintelligente e in grado di manipolare la materia e l'energia, Lucy si comporta in maniera estremamente stupida: non elimina i suoi nemici (mentre invece non si fa problemi a sterminare milioni di innocenti durante inseguimenti vari), non fa in modo di protrarre il suo stato di iperintelligenza più a lungo possibile, non elabora una soluzione che le consenta di ottenere il suo obiettivo nell'arco di pochi secondi. Quindi alla fine non appare così badass come vorrebbe, anzi, risulta piuttosto irritante. La sua trascendenza è molto simile a quella vista in Transcendence, cioè tutt'altro che trascendente, ma ben ancorata al retaggio e agli schemi mentali umani.

Ciò che è ancora peggio dal punto di vista strettamente narrativo è che non c'è nessuno sviluppo dei personaggi. Lucy prima di tutto: non sappiamo chi è, non sappiamo cosa cerca, cosa ci fa in Taiwan, che rapporto ha con la mamma che chiama nel tentativo di suscitare empatia al pubblico, se è innamorata di qualcuno. Quindi la sua storia di vendetta rimane fine a se stessa, perché non sappiamo per cosa sta combattendo. Per la sopravvivenza, forse? Ma se ha trasceso i limiti dell'umanità, perché dovrebbe importarle? C'è più intensità da questo punto di vista in Commando o Taken, dove almeno c'era una figlia da portare in salvo. Se poi si pensa ai personaggi di contorno, beh, siamo messi ancora peggio (il poliziotto non ha proprio senso di esistere).

Assurdi e fuori luogo poi i paralleli con la vita animale, nella prima sequenza in particolare, ma anche in seguito. Estremamente repellenti le lezioni del professor Freeman, che coltiva (da più di vent'anni) teorie evoluzionistiche così antropocentriste che troverebbero l'appoggio di Pio IX: pensare che l'evoluzione sia un processo dagli organismi unicellulari all'uomo non è solo errato, ma anche arrogante. E affermare che i delfini sfruttano il cervello meglio degli uomini solo perché hanno un senso ulteriore è di una ottusità immensa. Considerando che il film non è certo impostato con leggerezza, ma con drammaticità e supposto rigore scientifico, il risultato è davvero pessimo. Anche come mero mezzo d'intrattenimento funziona male, perché non ci si può effettivamente divertire seguendo la storia. Mi dispiace per Scarlett, che pure ce la mette tutta, ma qui abbiamo toppato in pieno; e Luc, da parte tua, la prossima volta torna a fare qualche pastiche con mostri vari, che almeno nessuno ti prende sul serio.