Coppi Night 26/06/2016 - Quo vado?

È risaputo che non sono appassionato di cinepanettoni (se ancora questo termine è in uso), ma nemmeno li considero come il male primario della società. Se uno vuole pagare il biglietto del cinema per vedersi due ore di gaffe e battute in dialetto e muatnde di pizzo, bon, faccia pure. Certo bisogna avere il buon senso di riconoscere che si sta guardando una stronzata, e chi fa questi i film dovrebbe avere il buon gusto di ammettere che sta facendo soltanto una stronzata, senza presentarsi qua e là con le varie marchette come se il suo fosse un cinema sperimentale.

Da qualche anno però al cinepanettone si oppone il fenomeno Checco Zalone, coi suoi filmetti meno beceri e più profondi, il new black che mette d'accordo critica e pubblico. Ecco la rivoluzione del cinema italiano, le buone idee sviluppate come solo i leali apprendisti della commedia dell'arte possono fare!

Ma anche no. Degli altri film di Zalone ho visto solo il primo (molto distrattamente, era qualcosa come il 26 agosto e stavo cercando di addormentarmi sul divano prima di squagliarmi del tutto), e l'avevo trovato scialbo a banalotto, ma potenzialmente gradevole per chi apprezza questo genere di comicità. Quo vado? però mi sembra tutt'altra storia.

Prima di tutto perché è appunto una storia sconclusionata, squilibrata, strutturalmente sgraziata, che inizia con il protagonista che narra la propria storia, segue prima un tema, se ne dimentica e ne acchiappa un altro, torna a quello precedente, ne sovrappone un altro, lo lascia in sospeso, contraddice quanto detto prima, riparte da quello iniziale, contraddice pure quello, e a quel punto non ti sforzi nemmeno più di capire cosa vorrebbe dire. Quindi, se uno ti chiede "di che parla questo film?" non puoi rispondere davvero dicendo "è la storia di questo tizio col posto statale", perché buona parte della storia non è questo, ma nemmeno "è la storia di questo tizio che va a vivere in Norvegia", perché anche questo è meno di metà film, anche se sembra la parte centrale e più importante della storia, e così via.

Ma la cosa più irritante, è che questo film cerca così forzatamente di introdurre "temi importanti" da risultare stucchevole e indigesto. Come quando hai un amico che fa yoga e cerca di infilare in tutti i discorsi qualche riferimento allo yoga anche quando non c'entra nulla per farti capire quanto lui è illuminato e spingerti a chiedergli di parlarne ancora e illuminare anche te. Questa iniezione forzata di mulculturalità, autodeterminazione sessuale, senso di civiltà, fino anche all'ambientalismo Melevisione level (sapevate che il krill è la base dell'ecosistema artico????). Santiddio, ma si pensa davvero di potersi atteggiare così da furbetti, con quel distacco radical chic che finge di sporcarsi le mani ma mantiene in realtà le distanze da tutto questo, perché queste sono cose che voi popolo bove dovete capire, sono importanti, e io ora ve lo insegno così perché non sapreste seguire le slide in power point.

Ma a quanto pare funziona davvero così, perché questo film è stato salutato come la novità, la freschezza, il nuovo corso, e ha fatto anche uno sbotto di soldi. Tre-quattro risate le ho pure fatto, lo ammetto, per qualche battuta piazzata al momento giusto, ma tutto il resto è così leziosamente ipocrita che mi fa quasi rimpiangere l'onestà intellettuale di quei cinepanettoni che dicevamo all'inizio. E se arrivo a parlare di onestà intellettuale parlando di Carlo Vanzina e similari, capite la misura della mia disperazione.

Coppi Night 19/06/2016 - Beetlejuice

A: non mi piace commentare i film che hanno una qualche rilevanza storica o hanno raggiunto col tempo lo status di cult, perché tanto non avrei niente da dire in più rispetto a quanto milioni di persone hanno già detto prima di me.
B: non mi piacciono in generale i lavori di Tim Burton, trovo le tematiche ripetitive e l'estetica non mi convince.
A + B = questo post avrà contenuti davvero scarsi.

Avevo già visto Beetlejuice diversi anni fa (decenni, probabilmente), e se non altro ho potuto constatare che tutto sommato il film non è invecchiato male. La moda può essere cambiata (ma in fondo nemmeno tanto, per i personaggi stereotipati che compaiono), ma per il resto la struttura del film è ancora abbastanza moderna. Anche gli effetti speciali, basati su modellini e trucchi prospettici, non sono da buttare, e questo conferma l'impressione che questo tipo di effetti rimane valido, al di là della CGI che una volta superata appare ridicola.

Alcune scene e sequenze rimangono simpatiche, come gli uffici dell'aldilà e il ballo durante la cena, ma nel complesso non posso dire di adorare questo film come sembra invece essere sentimento comune. Ma ricordando gli assiomi A e B, si capisce come mai non ho questo stesso amore viscerale.

Una cosa che però non è mai capita è il piano di Betelgeuse. Cioè, a quali regole/leggi universali risponde? Perché durante lo spot in tv può dire il suo nome, invitando a ripeterlo, e in seguito no? E perché è intrappolato nel plastico? E perché può intervenire solo quando lo chiamano ma si manifesta lo stesso nella casa e attacca i vivi? E perché inizialmente pronunciare il suo nome serve a evocarlo e nella scena finale invece quando lo chiamano invece di guadagnare ulteriore forza viene distratto? Insomma, mi pare che il personaggio a cui film deve il suo nome sia impossibile da comprendere, o che semplicemente si astato scritto senza una coerenza precisa (vedi assioma B).

Ma forse a tutte queste domande rimaste taciute per trent'anni risponderà il sequel attualmente in produzione. Il che non è comunque una motivazione sufficiente a invogliarmi a vederlo.

The Witness, o epiphany porn

Tempo fa ho parlato sul blog di Braid, il videogioco puzzle-platform di manipolazione temporale sviluppato da Jonathan Blow e uscito nel 2008. Nonostante un'accoglienza fredda, col tempo Braid si è affermato come uno dei giochi "indie" di maggior successo, abbastanza da poter permettere a Blow di dedicarsi alla creazione di un nuovo gioco. Quel gioco è The Witness, annunciato inizialmente per il 2011 ma uscito alla fine a gennaio 2016. Sette anni di lavoro durante i quali Blow ha messo su un piccolo team di collaboratori e investito circa cinque milioni di dollari (in pratica tutto quanto ricavato da Braid) per poter dichiarere il nuovo gioco pronto. Dopo l'esperienza straordinaria di Braid sapevo già che avrei provato anche questo, e a distanza di qualche mese dall'uscita e dopo settimane di permanenza sull'isola, sono pronto.

The Witness è anch'esso un puzzle game. L'obiettivo del gioco è quello di risolvere una serie di enigmi, tutti basati sulla stessa meccanica: tracciare una linea da un punto di partenza a un punto di uscita su un pannello, soddisfacendo di volta in volta tutti i requisiti del puzzle. Il giocatore si muove con una visuale in prima persona all'interno di una vasta isola in 3D, passando da un ambiente all'altro e imbattendosi nei pannelli da risolvere. Tutto qui. Così semplice che la tagline del gioco è soltanto "Explore an abandoned island". The Witness si può considerare affine certi giochi puzzle-avventura come The Myst e il più recente The Talos Principle. Ma è anche molto di più.

La prima cosa che salta agli occhi giocando The Witness è la cura e ricchezza dell'ambientazione. L'isola è vasta e variegata, suddivisa in aree tra loro contigue ma caratterizzate da diversi biomi: spiaggia, roccia, deserto, giardino, foresta, giungla, palude, montagna, caverne. Ma non tutto è naturale, perché edifici e strutture si trovano praticamente ovunque: ci sono la città, il tempio, il castello, il monastero, il laboratorio, il porto. L'isola è davvero abbandonata, perché non ci sono altri personaggi, non ci sono in effetti tracce di vita esclusa l'abbondante e lussureggiante flora. Ma le costruzioni in cui ci si imbatte di continuo (molte delle quali in rovina) sembrano narrare la soria di un posto abitato per molto tempo e da culture diverse. Gli stessi pannelli su cui compaiono i puzzle sono inseriti coerentemente nell'ambiente, sempre installati sui supporti adeguati, con cavi di alimentazione che corrono da uno all'altro, in modo da far capire che non si tratta di elementi astratti ma concrete costruzioni che qualcuno ha posto lì. A tutto questo si aggiungono le statue: personaggi diversi tra loro, dal re seduto sul trono all'artista che dipinge, dall'agente della security al giocoliere. Se quindi ci troviamo in un'isola abbandonata, c'è anche la netta impressione che molta storia sia passata in questo luogo, e forse siamo arrivati troppo tardi per poterla vedere di persona. Il paragone con Lost viene quasi spontaneo, ma lo scopo di The Witness non è quello di nutrire i misteri. Anzi, è proprio l'opposto: lo scopo ultimo di tutto questo è la conoscenza.

Uno degli aspetti più importanti di questo gioco è che non include nessun tipo di tutorial. Contrariamente a come siamo abituati, a parte un breve flash iniziale che illustra i tasti da usare per muoversi nell'ambiente, al giocatore non viene data nessuna indicazione. Questo può sembrare paradossale per un gioco che si basa sulla soluzione di puzzle, in cui ci si aspetterebbe che, almeno all'inizio, venisse insegnato quali sono le regole da seguire. The Witness non fa nessuno sforzo di questo tipo, limitandosi a fornire alcune sequenze di pannelli "illustrative", che il giocatore può completare in sequenza per cercare di determinare con le sue risorse le leggi da rispettare. Se all'inizio questo meccanismo può sembrare frustrante, soprattutto quando ci si accorge di aver interpretato male gli insegnamenti dei pannelli, col procedere del gioco ci si accorge che questo tipo di comunicazione è più efficace di qualunque istruzione fornita a parole. Nelle fasi più avanzate infatti si riesce quasi a riconoscere in modo subconscio quello che un pannello vuole dire, si capisce quando una regola deve essere applicata in maniera creativa, si intuisce già dal primo sguardo il modo in cui la soluzione deve essere cercata. Si tratta di un accumulo di conoscenze graduale e all'inizio impercettibile, ma che alla fine del gioco cambia completamente la prospettiva con cui si affronta l'esperienza, e la cosa diventa evidente se si inizia una nuova partita.

Una delle critiche più spesso mosse a The Witness è che si tratta di un enorme mondo 3D in cui muoversi solo per risolvere dei puzzle in 2D. Insomma, tanto valeva far comparire i pannelli in sequenza uno dopo l'altro, no?

Beh, no. Perché l'ambiente svolge un ruolo fondamentale nella soluzione di molti enigmi. È vero che tutto quello che si può fare è tracciare linee (in effetti questo è l'unico modo in cui il giocatore può intergaire col mondo), ma ciò che circonda il pannello è spesso determinante per capire non solo come risolvere il puzzle, ma anche che effetto questo comporta. L'esempio più immediato è quello dei cavi di alimentazione, che si accendono una volta risolto un pannello. Seguendoli (in un senso o nell'altro) si può capire dove bisogna dirigersi per procedere, oppure cosa è richiesto per poter avanzare. In realtà l'esplorazione dell'isola è molto libera, e sono poche le zone davvero inaccessibili, anche se può capitare di imbattersi troppo presto in un'area che non si è ancora pronti a risolvere, perché contiene puzzle che non abbiamo ancora imparato a risolvere. Oltre a questo, il mondo che circonda il giocatore è anche una continua fonte di sorprese, dagli ingegnosi trucchi prospettici per cui una macchia di arbusti può assumere forma umana, fino a quella cosa di cui non posso parlare perché è uno spoiler troppo forte e costituisce la più grande rivelazione di tutto il gioco. Ma credetemi, guardarsi intorno, ammirare la bellezza e la complessità dell'isola è parte integrante dell'esperienza di gioco, e anzi è la parte che ha richiesto la maggior parte dei sette anni di sviluppo.

Ok, ma di cosa parla questo gioco? Qual è la "storia" di The Witness? E chi è questo "testimone"?

Ecco, questo è un altro aspetto che è aperto ad interpretazione e che ha deluso molti giocatori. In termini molto generici un plot esiste, ma è davvero molto vago e anche difficile da raggiungere, perché si trova proprio in una di quelle parti dell'isola accessibile solo con un estremo sforzo di attenzione, che molti potrebbero non trovare mai. Ma anche con questi elementi alla mano, la storia risulta davvero effimera e non lineare, con forti componenti metanarrative, qualcosa che non si può raccontare in modo chiaro. E che, in ultima analisi, non riveste un'importanza determinante. Quindi non dovete imbarcarvi in The Witness in cerca della risoluzione dei misteri dell'isola, non dovete aspettarvi di scoprire cosa ci fanno quelle statue, e chi è che ha installato i pannelli e perché c'è un laser che esce fuori da un tempio sotterraneo e punta alla cima di una montagna.

Quello che abbonda in The Witness sono invece gli spunti di riflessione. All'interno del gioco sono infatti sparse diverse decine di registrazioni audio, che raccolgono citazioni di scienziati, filosofi, poeti, mistici, oltre a sei filmati (proiettati in un'apposita sala cinematografica) anch'essi tratti da documentari o conferenze di personaggi come Richard Feynman e Gangaji. Alcuni sono molto lunghi (anche un'ora di durata), ma sono essenziali per trasmettere chiave interpretativa del gioco. Forse il più rivelatore è la clip tratta dal film Nostalghia di Trakovskij, in cui il protagonista cerca di attraversare uno stagno (la piscina di Santa Caterina) con una candela accesa in mano. I suoi sforzi per compiere nel modo giusto un'azione di per sé completamente inutile sono perfettamente in linea con quelli compiuti dal giocatore, e, come viene detto da Feynman in uno degli altri filmati, veicola un perfetto esempio di come un'opera d'arte (Jonathan Blow è convinto che i videogiochi dovrebbero essere equiparati a una forma d'arte) dica molto più su chi l'ha creata che sul mondo esterno. A questo proposito consiglio di guardare questo ottimo video che spiega in modo eccellente la questione, ma attenzione, fatelo solo dopo aver completato e ricominciato il gioco almeno una volta per non incorrere in spoiler. Queste citazioni sembrano illustrare approcci tra loro opposti e in alcuni casi sono in aperta contraddizione: scienza contro religione, ragione contro misticismo, ricerca contro inuito. Eppure, trovarsi con questi spunti nel corso di un gioco che, per sua natura, invita proprio a cercare risposte in modo sempre diverso, si viene colpiti più in profondità, e si arriva a comprendere che forse la strada che si percorre non è poi così importante, purché se ne possa trarre un insegnamento.

Quindi, considerando tutto questo, che cos'è The Witness? Volendo sintetizzare al massimo, si tratta di epiphany porn. Blow voleva qualcosa che mettesse il giocatore nelle condizioni di ottenere una serie quasi programmata di epifanie, termine con il quale si intende il momento in cui qualcosa di precedentemente oscuro si rivela in modo spontaneo come conosciuto e naturale. Questo avviene in primo luogo con i puzzle, ma non solo, e ci sono almeno tre-quattro epifanie davvero eccezionali che valgono da sole tutto il tempo trascorso sull'isola. È anche un gioco che insegna e incoraggia a cambiare prospettiva, in senso letterale e metaforico, e a osservare con attezione ciò che ci circonda. Questo effetto è così forte che straripa al di fuori del gioco, e come tutti affermano, porta a guardare anche il "mondo reale" in modo diverso, alla ricerca di schemi e connessioni che abbiamo imparato a riconoscere o intuire a colpo d'occhio. Infine, come già valeva per Braid è anche un gioco sull'ossessione, sulla necessità di trovare un senso e uno scopo a qualunque cosa. Sembra paradossale, per un gioco che spinge a osservare attentamente ogni particolare al limite della pareidolia, ma questa autoironia non è casuale e non è la prima volta che viene espressa da Blow. In effetti non c'è nemmeno modo di sapere se il gioco è stato finito al 100%, perché non ci sono indizi che rivelano se tutto quello che c'era da trovare è stato trovato, cosa che ha fatto imbestialire i gamer completazionisti.

The Witness comunque non è un gioco per tutti. Non per una questione di intelligenza: molto banalmente, se non siete portati ai puzzle, o se vi annoiano, allora lasciate perdere, perché non troverete soddisfazione. Non potrebbe essere altrimenti per una raccolta di più di 600 puzzle, con un tempo medio di gioco di 80 ore... e si parla solo del tempo effettivo in-game, perché state sicuri che passarete molte altre ore a fare schemi, note, ritagliare pezzetti di carta, disegnare e cancellare linee con la matita. È un gioco che può essere molto frustrante, ma enormemente più soddisfacente. A volte ci si può trovare nel vicolo cieco di un puzzle di cui abbiamo capito male il concetto di base (mi è capitato due volte, ed è davvero terribile), ma anche in quel caso non bisogna disperare. Con il suo ambiente aperto, The Witness invita ad andare altrove, godersi i colori saturi dell'isola e provare altro, o smettere del tutto di cercare, come dice uno dei guru dei filmati. Tutti i puzzle sono risolvibili, con le sole regole fornite all'interno del gioco, senza bisogno di ricorrere ad aiuti esterni di nessun tipo. Con pazienza, tempo e serenità, si può arrivare alla fine (o alle fini) da soli, e godere di tutte le epifanie che Blow ha voluto mettere a disposizione.


The Witness per ora è disponibile solo su PC e PS4 (è previsto che venga rilasciato in seguito anche per altre piattaforme, ma ci vorrà ancora tempo) acquistabile su Steam e Humble Store. Non costa poco, per essere un gioco indipendente, ma vista la durata e intensità dell'esperienza, merita la spesa. Soprattutto sapendo che quei 36 € saranno usati per la realizzazione del prossimo gioco di Jonathan Blow.

Coppi Night 12/06/2016 - The Lobster

Sapevo che mi sarei trovato davanti a un film strano, ma non avevo bene la percezione di quanto "strano" potesse essere. The Lobster, preso molto alla lontana, si potrebbe considerare una distopia: un mondo in cui tutte le persone (o almeno gli adulti) sono obbligati ad avere un partner, e se non riescono a trovarlo, sono condannati a essere trasformati in animali. In un mondo del genere, venire lasciati dal compagno può comportare guai seri, perché chi è da solo può essere arrestato e diventare una bestia.

È da questa situazione che parte il protagonista, che dopo essere stato abbandonato dalla moglie viene forzatamente invitato in uno speciale centro per single, dove appunto chi è solo può cercare un partner con cui formare una coppia stabile, il tutto nel tempo massimo di qualche settimana, dopodiché scatta la trasformazione. Questa specie di resort è un posto bizzarro con regole assurde, che cerca di indottrinare al meglio i suoi occupanti sui vantaggi della vita di coppia, ed è solo trovando un compagno che se ne può uscire in forma umana.

Ma il protagonisa (la cui storia viene inizialmente narrata in terza persona da una voce femminile di cui si scoprirà l'identità solo in seguito) riesce invece a fuggire, e dal centro per coppie finisce nel gruppo di rivoluzionari che perseguono invece la vita solitaria. Qui le regole sono opposte: ogni tentativo di approccio è punito, e l'obiettivo del gruppo è proprio quello di sferrare un attacco all'albergo per single.

The Lobster è un film che procede lentamente, si prende tutto il tempo per le sue scene, ma risulta comunque scorrevole. Le situazioni surreali che si presentano di volta in volta suscitano più di un sorriso, ma al tempo stesso non si può dire che si tratti di una commedia o una parodia. In realtà, sotto il livello superficiale di assurdo, si può scorgere un messaggio piuttosto forte, qualcosa che ha a che fare con l'autodeterminazione e l'affermazione di se stessi. È embleatico infatti che il gruppo ribelle che si oppone all'ordine costituito sia a sua volta incasellato in regole precise e inderogabili, che rendono la vita dei solitari tanto schematica quanto quella delle coppie. Viene allora da pensare che il tentativo di imporre una visione, qualunque essa sia, di attribuire cateogire ed etichette alle persone (ma soprattutto, a se stessi) sia uno sforzo vano e in ultima analisi comunque limitante.

Alla luce di questa interpretazione (che è la mia, e può benissimo essere contestata) assume un senso agrodolce anche la scena finale, in cui vediamo di nuovo il protagonista in procinto di compiere l'ennesima assurdità per potersi sentire "parte di qualcosa". E allora ci si può chiedere se è davvero l'amore quello che cerchiamo, o soltanto l'affermazione la propria identità attraverso ciò che gli altri percepiscono di noi.

Forse ci ho voluto leggere fin troppo, ma penso che The Lobster sia volutamente ambiguo e aperto a interpretazioni diverse, e quando un film, pur non dicendo qualcosa di esplicito e univoco, riesce comunque a evocare certe riflessioni nello spettatore, allora è un'opera compiuta.

Coppi Night 05/06/2016 - Zombeavers

Questa settimana presentiamo un altro eminente membro del club "b-movie con creature random zombificate che attaccano ragazzi arrapati". Non voglio essere frainteso, io apprezzo una puttanata con mostri animati peggio di Dodò dell'Albero Azzurro come chiunque altro, però credo che qualcuno si sia fatto trascinare un filino oltre in questa corsa alle armi del ridicolo.

Non c'è molto da dire sulla trama di questo film, solito gruppo di ragazzi (tre uomini, tre donne, accoppiati tra loro) che se ne va a passare il weekend nella casa nel bosco, si preoccupa principalmente di bere e copulare, fino a quando non si presenta la minaccia, nello specifico castori zombie che devono la loro condizione di non-morti assetati di sange a una contaminazione con non specificate sostanze tossiche riversate nel loro habitat. Mezz'ora di battute sul sesso, primo topless e presentazione di personaggi di contorno, e poi via al macello. Tutto come da libro di testo di Splatterologia 101.

Il fatto è che visto un castoro zombie aperto a metà che cerca di azzannarti la vagina, visti tutti. La continua riproposizione di situazioni di pericolo non alza di un minio la tensione, e per quanto è chiaro che l'obiettivo di un film del genere non sia spaventare ma divertire, nemmeno questo funziona, se non in un paio di occasioni, perché appunto le situazioni che si presentano sono sempre le solite. C'è poi il problema di focus piuttosto frequente in questo tipo di film, per cui non si capisce chi sia il protagonista della storia. L'ultimo sopravvissuto della mattanza infatti risulta abbastanza imprevedibile, ma non nell'acceione di "sorprendente", quanto "non ha senso che sia questo ad arrivare alla fine". Sappiamo tutti che Game of Thrones ci ha abituati al valar morghulis, tutti devono morire e non è detto che chi sembra il protagonista riesca davvero a sopravvivere. Ma in una storia del genere c'è bisogno di un punto di riferimento, un protagonista con cui lo spettatore possa identificarsi anche in maniera minima, e che rappresenti quindi il centro della vicenda. Altrimenti, si parla di una sceneggiatura scritta seguendo il lancio di dadi, cosa che non mi sento di escludere.

Nemmeno la parte umoristica riesce a reggere il resto, e vorrei sapere chi è che nel 2016 ride ancora per la ragazza che parla di sesso con la signora anziana, soprattutto se non ci sono sotto le risate registrate a suggerirti "oh, guarda che questo era divertente!!!" C'è anche qualche conflitto tra i ragazzi per via di tradimenti e promiscuità varia, per cui almeno una mezz'ora di film è spesa in discussioni tra di loro su chi ha scopato chi e perché, ma seriamente, chissenfrega!?

Insomma, se anche qualche scena è gradevole, decisamente non è un film che possa sostenere l'interesse per 80 minuti, fosse stato un corto di metà della durata ne avrebbe guadagnato sensibilmente.

Rapporto letture - Maggio 2016

Prima di iniziare il rapporto letture vero e proprio devo fare una rettifica. Anzi, devo proprio ammettere di essere un cretino: infatti nel rapporto di aprile elencavo la lettura di 3 libri, glissando completamente sul fatto che pochi giorni prima avevo ampiamente commentato Real Mars di Alessandro Vietti, e quindi ho evidentemente letto anche questo nel corso dle mese. Si tratta di una banale dimenticanza, certo, in realtà c'è anche una ragione più profonda per questa svista, ovvero il fatto che non riesco più a usare stabilmente anobii per tenere traccia delle mie letture, un po' perché il portale funziona così di merda che mi leva di sentimento, un po' perché molte delle cose che leggo (soprattutto in digitale) non sono lì indicizzate e non posso stare a inserire le schede ogni volta. Quindi sta capitando, ultimamente, che quando devo riprendere i testi letti nel mese precedente devo praticamente afidarmi alla memoria. E no, non è per niente affidabile.

A questo putno, avendo parlato del romanzo in un post dedicato, non mi metto ad aggiungere il minicommento al libro di Vietti, e rimando direttamente a quel post. Chiarito questo, passiamo alle letture completate a maggio. Almeno per quel che mi ricordo.


Il primo è il numero 76 di Robot, come sempre letto con qualche mese di ritardo. Il volume contiene un paio di racconti interessanti, dal primo di Thomas Olde Heuvelt, il primo non-anglofono vincitore del Premio Hugo per la categoria racconti, con una storia più surreale che di fantascienza, ma con un sottotesto profondamente umano. Anche il romanzo breve di Robert Silverberg in chiusura, un'ucronia piuttosto complessa, delinea un contesto affascinante, nonostante l'intera storia sia una serie di intrighi politici. Buono anche il racconto di Massimo Soumaré, anche se trovo un po' penalizzante la scelta piuttosto ricorrente negli ultimi numeri della rivista di dare così tanto spazio a reinterpetazioni degli universi narrativi di altri autori: Kareena infatti è ambientato sullo stesso Mondo9 di Dario Tonani, così come molti altri racconti presentati in precedenza su Robot, così come sempre sul numero 76 si trovano una ventina di brevi racconti ambientati nel mondo di Trainvile di Alain Voudì, che ho dovuto saltare visto che finora ho letto solo la prima parte e non voglio spoilerarmi. Insomma, capisco la volontà di puntare sulle saghe di successo degli autori di casa nostra, ma in questo modo chi segue Robot si trova un po' la mano forzata a riprendere questi testi. Comunque la qualtià complessiva è buona, alcuni articoli interessanti altri non dicono niente di nuovo, ma ci si può stare. Voto: 7/10
 

Altro romanzo breve della collana Future Fiction (da cui ormai attingo con frequenza) è La guerra di Johnny Appledrone, di Lee Konstantinou. Una storia di un futuro vicinissimo, dove un giovane disoccupato il cui migliore amico è l'assistente animato nel portale di ricerca lavoro (che lo incoraggia ad accettare qualunque tipo di occupazione anche non retribuita) finisce a lavorare per le pubbliche relazioni del mitologico personaggio del titolo. Johnny Appledrone è un guru dronepunk, che si occupa di costruire e programmare droni liberi dal sistema di controllo governativo, cercando così di avviare la sua piccola rivoluzione. Il protagonista non condivide né comprende in pieno le sue motivazioni, ma nella sua posizione si trova a dover sostenere e promuovere la sua battaglia, e finisce per essere uno degli ultimi testimoni della sua opera. Il racconto è leggero, ma riesce a toccare una serie di temi estremamente attuali, di cui forse dovremmo davvero iniziare a preoccuparci. Voto: 7.5/10


Infine, come avevo promesso un paio di mesi fa, ho recuperato il resto dei racconti di Avery Cates pubblicati nei mesi scorsi da Jeff Somers. Ho adorato la serie di Avery Cates, e scoprendo che l'autore aveva ripreso a scrivere in quell'ambientazione mi ha esaltato. Somers ha pubblicato 6 racconti in digitale, in seguito raccolti in The Shattered Gears Omnibus. La storia procede direttamente dopo l'ultimo romanzo The Final Evolution, anche se a distanza di qualche anno (non si sa quanto), nel mondo postapocalittico in cui gli ultimi rimasugli di umanità cercando di darsi un ordine per il poco che gli rimane da vivere prima dell'estinzione. In tutto questo, Avery Cates si trova di nuovo a essere coinvolto in giochi di potere che per qualche ragione vedono in lui un elemento chiave. E siame alle solite fughe, sparatorie, evasioni, e fucking fuck fucker ogni tre parole. Le storie di questa serie sono terribilmente divertenti da leggere, cariche di umorismo pulp, nichilismo, e tanta sana violenza. Il tutto in un mondo popolato di androidi, monaci elettrici, telecinetici, precog e ogni altra sorta di pacchianata vi possa venire in mente. Chiaramente, l'omnibus non conclude la storia, anzi si chiude con una (prevedibile) sorpresa finale, quindi non rimane che aspettare il seguito. Voto: 7/10

Coppi Night 29/05/2016 - Castaway on the Moon

Scorrete velocemente la pagina delle recensioni e troverete pochi titoli del cinema orientale. C'è un abbastanza recente Battle Royale ma a parte questo non me ne vengono proprio altri in mente. In effetti come mi è capitato di affermare altre volte, è un tipo di cinema che non riesco a comprendere a pieno, sicuramente per lacune mie. Infatti anche il film qui presente credo che lo avrei difficilmente visto, se non mi fosse stato volutamente regalato per avvicinarmi al settore. Quindi mi ci sono avvicinato con tutto lo scetticismo del caso, pensando che sì, può darsi sia un ottimo film, ma è pur sempre un film coreano e io non è che li capisca del tutto, quindi magari rimarrò insoddisfatto. Invece, mi sono dovuto ricredere un po' su tutta la linea.

Il film inizia come una sorta di parodia del più famoso Castaway, con la sottile differenza che il naufrago è rimasto intrappolato su un piccolo isolotto sul fiume che scorre nel mezzo della città (una qualche megalopoli coreana, non so bene quale sia). L'incidente occorre in seguito a un tentativo di suicidio, che si conclude con il tragicomico naufragio sull'isola a poche centinaia di metri dalla civiltà ma completamente isolata da essa. Inizialmente seguiamo i tentativi di sopravvivenza del protagonista, che sulle prime cerca il modo di ritornare al punto di partenza (solo per tornare a suicidarsi), ma poi viene a pace con la situazione e con se stesso, e comincia a provare piacere per quella noia totalizzante che lo assale.

Interviene poi una svolta piuttosto brusca, con l'introduzione di un nuovo personaggio: una ragazza che vive isolata per sua scelta, conducendo decine di vite virtuali ma senza mai uscire di casa, o anche dalla sua stanza. La ragazza scopre per caso il naufrago sull'isolotto, avvistabile col telescopio dalla sua finestra, e inizia a seguirne le avventure, fino a decidere di volerlo contattare. Inizia così una lenta e scarna corrispondenza tra i due, che pure li porta a sviluppare un legame profondo.

Può sembrare una storia simpatica ma banalotta, i due amici di penna che si scrivono e si innamorano, ma non è questo. Non c'è mai traccia di un interesse romantico tra i due, tanto più che il naufrago fino alla fine non sa chi sia chi gli sta scrivendo. In realtà quella che vediamo svilupparsi è una relazione più istintiva, è la ricerca di un appiglio presso qualcuno di affine, qualcuno che condivide i tuoi stessi demoni (come ho letto da qualche parte). E quando il mondo irrompe a distruggere il precario equilibrio che si era creato in questa situazione paradossale, perché il mondo fa così, irrompe e distrugge sempre, allora è in quel momento che questo appiglio si rivela essenziale, e sono quegli ultimi tre secondi di film, quell'immagine semplice ma esplicita, a renderlo chiaro.

C'è anche una chiara componente satirica, una critica alla spersonalizzante società capitalistica contemporanea, che ti riempie di jingles che ti tornano in testa quando stai affogando o ti permette di creare un'identità completamente inventata sui social network. In effetti entrami i protagonisti vivono alle estreme conseguenze la disumanizzazione imposta da questo livello di civiltà, tuttavia la questa critica non è presentata in modo didascalico e pesante, e anche la contrapposizione città-natura non è così sbilanciata verso la seconda, perché in più di un'occasione il naufrago ha modo di approfittare delle opportunità che derivano dall'ambiente urbano.

Non so se Castaway on the Moon sia un film più "occidentale" rispetto agli standard del cinema asiatico, e quindi se è questo che mi ha permesso di capirlo e apprezzarlo di più, oppure se semplicemente affronti temi così universali da infrangere le barrire culturali. Per di più, nonostante la profondità di questi temi, è anche un film che riesce a essere leggero, alternando sequenze comiche e drammatiche, un film che riesce a farti affezionare a un'anatra che galleggia e farti commuovere per un piatto di noodles.