Coppi Night 26/03/2017 - Los ùltimos dìas

Mi permetto di mantenere il titolo originale perché non vedo la ragione per cui dovrei trasporto come The Last Days, in una lingua terza, piuttosto che un semplice Gli ultimi giorni. E anche per rendere evidente che si tratta di una produzione spagnola.

Scovato su Netflix, è un film del 2013 la cui premessa mi ha affascinato subito. In tutto il mondo si diffonde una "epidemia" di agorafobia. Le persone non sono più capaci di sopportare gli spazi aperti, e sono costrette a vivere continuamente all'interno degli edifici. La patologia è abbastanza grave da provocare la morte per shock a chi si avventura al di fuori della porta. La crisi colpisce tutti, gradualmente: l'intera umanità si ripara nelle sue costruzioni: abitazioni, uffici, stazioni, fogne. Qualunque cosa non sia direttamente sotto il cielo aperto. A mesi di distanza dall'inizio della psicosi collettiva, della civiltà contemporanea rimane molto poco.

In questo contesto apocalittico il protagonista della storia è Marc, un giovane impiegato rimasto imprigionato nel suo ufficio insieme ai colleghi. Marc vuole trornare dalla sua ragazza nella loro casa, ma non potendo uscire, decide di raggiungerla attraverso un percorso sotterraneo passando dai binari della metropolitana alle fogne. Suo compagno di viaggio sarà Enrique, un consulente del personale dal fare minaccioso che era stato assunto dall'azienda per eseguire tagli all'organico (e che aveva messo gli occhi proprio su Marc). Entrambi diffidenti dell'altro all'inizio, andando avanti imparano a conoscersi e collaborare, constatando che è inutile mantenere i propri ruoli quando la società non esiste più.

Ma il viaggio lungo la metro di Barcellona è anche l'occasione per mostrare le varie soluzioni adottate dall'umanità per adattarsi alle nuove condizioni di vita. Chi può è rimasto in casa, ma ha dovuto comunque trovare il modo di rifornirsi di cibo, acqua ed energia. Nei luoghi di passaggio affollati come stazioni e supermercati si sono invece create delle comunità complesse, con fazioni in lotta tra loro. I due protagonisti devono quindi cercare di passare indenni attraverso la serie di pericoli dovuti alla disperazione di chi è costretto a convivere con migliaia di sconosciuti in uno spazio chiuso e limitato.

Il film riesce innanzitutto a tasmettere bene l'ansia e l'oppressione a cui tutti si trovano sottoposti (mi ha ricordato in qusto sensto Blindness). Inoltre gestisce con padronanza le storie personali dei due protagonisti, inserendo anche alcuni flashback che mostrano le ultime settimane prima della catastrofe. Come sempre nelle storie in cui la società si è disgregata, la moralità si fa più indefinita, e i protagonisti stessi compiono delle azioni non proprio encomiabili che tuttavia sono in parte giustificate dalla situazione. Dal punto di vista tecnico il film è ben realizzato, e trae il meglio dalle valide interpretazioni degli attori (devo dire che anche il doppiaggio è di buon livello). L'unico scivolone è la scena dell'orso, dove forse per una eccessiva voglia di azione si pecca un po' di credibilita e brutta CGI, ma anche quella sequenza si rivela poi importante nello svolgimento della trama.

Tutto questo fa di Los ùltimos dìas una piacevole sorpresa, il film su cui non punteresti nulla e invece riesce ad appassionare, stimolare e commuovere. E a questo punto, credo che dovrò iniziare a guardare con più attenzione a un certo tipo di cinema spagnolo, perché mi rendo conto che ultimamente tutti i film spagnoli che ho visto mi hanno quanto meno convinto, e in diversi casi anche lasciato qualcosa. Penso a Mientras duermes, Automata, Cella 211 e ora questo. Potrebbe anche essere un caso, ma comincia a farsi abbastanza sospetto da meritare maggiore approfondimento.

Neal Stephenson - Seveneves

Neal Stephenson è quell'autore che può iniziare un romanzo con:
La luna esplose all'improvviso e senza una ragione apparente
e farne seguire 860 pagine di hard sf traboccante di infodump che scorrono con la piacevolezza di un'acqua tonica ghiaccio e limone il 28 luglio. Stephenson si è costruito dagli anni novanta in poi una posizione quasi di culto nell'ambito della fantascienza contemporanea, grazie a una produzione non troppo vasta ma sempre azzeccata. Dall'iconico Snow Crash a Cryptonomicon, dal Ciclo Barocco al capolavoro di Anathem, ogni romanzo di questo atuore è un viaggio completo in una dimensione diversa, sia essa storia alternativa, universo parallelo, futuro, o soltanto il presente che ancora non siamo capaci di riconoscere. Seveneves, pubblicato nel 2015 e colpevolmente ancora inedito in Italia, è solo l'ultimo dei suoi viaggi epici, e in questo caso il termine ha una connotazione quasi letterale.

Seveneves è una storia della fine del mondo, che comincia con quella frase riportata sopra. La luna si frammenta di punto in bianco in sette pezzi, senza che nessun potesse prevederlo o possa capire perché è successo (e mettetevi l'animo in pace: non verrà mai data una spiegazione di come e perché è successo). Dalla iniziale curiosità si passa al terrore quando il calcolo delle meccaniche orbitali degli iniziali sette frammenti porta a concludere che nell'arco di due anni circa la massa di detriti raggiungerà un livello critico di caos tale da iniziare a piovere sulla Terra, sottoponendo il pianeta a una caduta continua di bolidi in grado di devastare la superficie e incendiare l'atmosfera. Inizia allora la corsa contro il tempo per salvare l'umanità e fare in modo che una parte sufficiente della popolazione sopravvivere all'imminente apocalisse. Da qui in poi ci sarà qualche spoiler, ma niente di più di quello che si scopre leggendo la quarta di copertina.

Il romanzo è diviso in tre parti: nella prima si verifica la distruzione della luna e vengono elaborati i piani di emergenza messi in atto per mettere in salvo la maggior parte possibile della popolazione. La soluzione che viene adottata e condivisa da tutte le nazioni è quella di ampliare la Stazione Spaziale Internazionale (ISS o Izzy per i suoi abitanti) e portare in orbita, al riparo dalla tempesta di fuoco, un numero selezionato di persone che possano poi ripopolare il pianeta, quando a distanza di qualche migliaio di anni la superficie tornerà abitabile. Nella seconda parte viene abbandonata la prospettiva terrestre, e tutta l'azione si svolge in orbita, tra Izzy e le arklet che formano lo sciame di arche su cui è stata trasferita la popolazione. Da qui si assiste all'inizio della Hard Rain che mette fine alla civiltà umana sulla Terra, per poi passare al difficile compito di sopravvivere alle condizioni estreme, mancanza di spazio ed esaurimento delle risorse. Le poche migliaia di occupanti di Izzy e delle arklet sopportano una sequenza di momenti terribili, e l'estinzione dell'umanità si fa pericolosamente vicina. Infine, nella terza parte, si salta di cinquemila anni nel futuro, quando l'umanità si è più o meno ricostituita e ha stabilito la sua vita in una moltitudine di habitat che circondano tutta l'orbita terrestre, e si sta preparando a tornare finalmente sul pianeta.

Il livello di speculazione verso cui si spinge Stephenson è estremo ma sempre coerente. La storia parte da un'epoca tecnologicamente affine a quella attuale. Gli unici due elementi non ancora presenti "nel mondo reale" rispetto a quanto narrato nel romanzo sono la presenza di un asteroide catturato e agganciato alla ISS, e la disponibilità di piccoli robot da lavoro più avanzati di quelli attualmente in uso. Si tratta di due elementi che si rivelano determinanti nel dipanarsi nella storia, le uniche concessioni alla sospensione dell'incredulità richieste dall'autore. Per il resto il mondo è perfettamente riconoscibile: dai social media alla politica internazionale fino a personaggi che sembrano di fatto gli alter ego di personaggi reali, come Neil DeGrasse Tyson ed Elon Musk. A paritre da questo Stephenson si permettere però di sollevare problemi e proporre soluzioni, da questioni apparentemente banali del tipo "come funziona una frusta a gravità zero" ad altre più complesse come "dove trovare la massa di reazione per far cambiare orbita alla ISS in assenza di rifornimenti dalla Tera". Come già successo in molti dei suoi lavori precedenti, l'autore non ha paura di lanciarsi in lunge digressioni, usando terminologia precisa ma non strettamente tecnica, e prendendosi il tempo di illustrare tutte le nozioni di base per comprendere le questioni affrontate. In qualche modo, Neal Stephenson sembra totalmente immune dall'intolleranza all'infodump che affligge la maggior parte degli autori e lettori di oggi, e anzi ha con sé gli anticorpi necessari per debellare questa epidemia contemporanea, perché non si avverte nemmeno per una pagina il fastidio delle informazioni rigurgitate in modo gratuito e anticlimatico. I temi affrontati nel corso delle quasi 900 pagine sono davvero vasti, afferenti a numerose discipline, dalla meccanica dei corpi celesti alla balistica, dalla genetica alla programmazione, dalle arti marziali alla sociologia.

Volendo ricercare un difetto in Seveneves, forse la sproporzione tra le prime due parti e la terza è quello più evidente. Per le prime 570 pagine la storia segue l'umanità come la conosciamo, con il focus su un gruppo di personaggi principali, che si impara a conoscere e apprezzare. Nella terza parte ci si trova sbalzati di 5000 anni, e per quanto sia stimolante vedere come la società e gli uomini si sono evoluti durante la loro permanzenza nell'habitat orbitale, si perdono tutti i punti di riferimento accumulati fino a quel momento e al tempo stesso non si ha modo di acquisirne di altri, perché le rimanenti trecento pagine hanno così tanto da dover raccontare del presente e dei cinquemila anni trascorsi che non c'è spazio per approfondire a dovere personaggi e dinamiche. A lettura ultimata mi è venuto da chiedermi se non avrebbe potuto avere senso raccontare prima la parte ambientata nel futuro, e in seguito riferire come è avvenuta la fine del mondo. Dato che nella terza parte le riprese di alcuni momenti storici dell'epoca della crisi sono continuamente riprodotte e formano un'Epica a cui tutta l'umanità si ispira, forse sarebbe stato giustificato. Peraltro c'è anche chi teorizza che l'intero libro sia una sorta di documento di propaganda in-universe, la storia come viene raccontata da una delle due fazioni in cui l'umanità si è divisa nel futuro.

Nonostante la storia cominci con una catastrofe totale e arrivi vicinissima all'annientamento completo dell'umanità, Seveneves è in un'ultima analisi un'opera ottimista, anzi, quasi positivista. Gli eroi del romanzo sono le persone che si impegnano, quelli che affrontano i problemi e trovano le soluzioni, che pensano e agiscono. Si può avvertire anche una certa contrapposizione tra tecnica e politica, laddove i professionisti (ingegneri, astronomi, medici, programmatori) sono costretti a seguire le decisioni dei burocrati (presidenti, uffici stampa, avvocati, ambasciatori), spesso abbandonando la strategia più efficace a favore di quella più opportuna. Questo contrasto in alcune occasioni si fa esplicito, e culmina a un certo punto in una vera e propria guerra sui social media con conseguenze devastanti.

In definitiva, Seveneves è un'opera totalizzante. Se qualche pecca minore si può individuare, non toglie nulla all'immensità del quadro complessivo. È uno di quei libri che, una volta chiuso, richiede qualche giorno di assestamento, perché la sola idea di poter metterlo da parte e aprire un libro che non parli di quello sembra inconcepibile. Per questo sono anche un po' preoccupato che il film tratto dal romanzo a cui sta lavorando Ron Howard si riveli alla fine solo un disaster movie che poco ha a che spartire con la profondità della narrazione e la speculazione selvaggia del libro.

E in tutto questo, sono riuscito a non rivelare che cosa significa il titolo palindromo. Il che costituisce da sé il momento più wtf di tutto il libro, se si esclude l'incipit.


Piccola nota personale: Seveneves contiene nella sua vastissima trama almeno tre spunti che avevo messo da parte e avrei voluto usare per dei racconti, cosa che a questo punto eviterò di fare. Ma sono ben contento che Neal Stephenson si sia occupato di raccontare le mie storie meglio di quanto avrei mai potuto farlo io!

Coppi Night 19/03/2017 - L'acchiappasogni

Non mi sono preso la briga di googlarlo, ma credo che Stephen King abbia un qualche record relativo al numero di opere tradotte in film. È vero che si parte da una produzione già di per sé sostanziosa, ma di questi lavori la porzione che avuto un adattamento a schermo è sicuramente notevole. Non è sempre garantita la corrispondenza qualitativa tra materiale iniziale e adattamento, così racconti o romanzi mediocri hanno avuto film spettacolari e viceversa. Uno dei problemi di base è che la produzione di King si inquadra in un genere che è facile obiettivo di b-movies splatter, e se ne sono visti parecchi negli anni.

L'acchiappasogni è uscito nel 2003, basato sul romanzo che King ha scritto durante la sua convalescenza dopo essere stato investito da un'auto e avere rischiato la vita. Per sua stessa ammissione, non è un gran romanzo. Non l'ho letto quindi non posso valutare il libro, ma se dovessi fornire un giudizio coplessivo sul film che ne è stato tratto, userei la comune formula "poche idee ma confuse". Non ci sono spunti particolarmente innovativi in questa storia: l'invasione aliena, la telepatia, i bambini speciali, il gruppo di amici che si ritova ogni anno, i corpi militari segreti. Ma ok, l'originalità non è un requisito essenziale, ne possiamo benissimo fare a meno se lo svolgimento è coinvolgente. Purtroppo, anche qui si arranca.

La parte più interessante del film è quella iniziale, in cui conosciamo i quattro protagonisti e si intuisce che hanno qualcosa di "speciale" che li unisce, li sentiamo parlare di qualcosa successo anni prima e di un altro personaggio che ha avuto un ruolo fondamentale nella loro storia. Anche i primi indizi anomali formano inizialmente un mistero interessante: gli animali in fuga, le macchie rosse, le prime vittime. Quando però i primi mostri si rivelano crolla tutta l'impalcatura, perché le situazioni perdono tutto il pathos: un uomo seduto sul cesso che non può fare a meno di raccogliere uno stuzzicadenti da terra merita di morire, per capirsi. Allo stesso modo gli alieni dalla forma indefinita che a quanto pare possono leggere la mente e infilrarsi nel corpo di un umano mantenendo però la sua mente attiva e poi uscirne fuori all'improvviso... boh, è tutto molto controintuitivo. Quando poi, oltre metà film, viene introdotto il personaggo di Morgan Freeman (senza spiegare quelle sopracciglia ridicole) e tutta la sottotrama della caccia agli alieni, ormai si sta già andando avanti per inerzia. Il colpo finale è la scoperta che il diabolico piano degli alieni è infestare l'acquedotto di Boston di vermi assassini, azione che a loro giudizio porta alla dominazione del mondo. Senza contare il deus ex machina finale da parte di un personaggio di cui tutto faceva pensare che fosse morto molti anni prima. Vederlo ricomparire da adulto con tutta la naturalezza, quando fino ad allora ne avevano tutti parlato con timore reverenziale, è stata la cosa più straniante di tutte.

A mio avviso il film ha sofferto nel concentrare in due ore una storia mooolto lunga, di quelle storie di Stephen King che si svolgono metà nel passato e metà nel presente, un po' la stessa formula di It. Nel film ci sono un paio di flashback del gruppetto di ragazzini, ma sono pochi e mal distribuiti, e più che aggiungere contesto alla loro storia sembrano un'inutile interruzione del filone principale. Altra cosa sarebbe stato appunto dividere equamente il film tra le due epoche, ma proabilmente non c'era tempo a sufficienza.

Un film a mio avviso mal concepito e mal riuscito, forse una produzione frettolosa per agganciarsi al treno in corsa del "basato sull'ultimo romanzo di Stepehn King". Con mezzi ben inferiori si sono realizzate invasioni aliene ben più credibili e tese, penso ad esempio a Attack the Block ma anche un semplice L'arrivo di Wang. A questo punto non mi resta che sperare che lo stesso trattamento non sia stato riservato a La Torre Nera, perché a quello ci tengo.

Vale & The Varlet - Believer

Nella mia continua ricerca di proposte musicali che possano suscitare interesse per lo spettatore casuale, ho pensato di dedicare un post a questo insolito duo, che ho avuto l'occasione di vedere esibirsi live poche settimane fa. Vale & The Varlet è un gruppo composto da due "Vale": Valeria Sturba e Valentina Paggio. Se qualcosa vi suona familiare, forse è perché Valeria Sturba è già stata citata su questo blog, quando ho recensito l'album OoopopoiooO di cui è autrice con Vincenzo Vasi. È proprio da questo collegamento tramite theremin che sono arrivato ad ascoltare acquistare Believer l'album autoprodotto nel 2016 da Vale & The Varlet.

La musica delle due Vale è qualcosa che non risulta facile da classificare secondo le usuali definizioni a cui siamo abituati. Gli strumenti principali sono tastiera, violino elettrico, drum machine, theremin e voce, oltre alle rispettive campionature di tutti questi. Da questi ingredienti risultano brani electro-soul, in cui la voce dal timbro blues della Paggio (occasionalmente accompagnata dalla collega) è la componente intorno a cui viene strutturata la musica, con frequenti cambi di ritmo e registro. La parte musicale è comunque tutt'altro che secondaria, e nonostante si basi su pochi strumenti tra loro non complementari, riesce comunque a riempire il contesto, dando una caratterizzazione completa alle tracce.

Si spazia da stornelli surreali come I Forogt Belgium e Alejandro a pezzi più d'atmosfera come la title track Believer, dall'electro effettata di TechOMG alle incursioni soul di Sunday Morning e Only a Man. Non mancano le citazioni, come le melodie riprese dal Bolero e dalla Carmen, e sicuramente tante altre che non so cogliere perché non conosco abbastanza la storia della musica da notarle. Ma la cosa più soddisfacente dell'album rimane la possibilità di accorgersi come i singoli elementi sono rimescolati per creare registri e mood diversi. Il violino e la voce sono le due componenti principali: in un certo senso, il violino è la voce di Valeria contrapposta a quella di Valentina: entrambe infatti si piegano e modellano a seconda delle necessità. Il violino può essere suonato, pizzicato, percosso, la voce estesa e modulata: queste creano il percorso a cui segue il resto degli strumenti. Come nella miglior tradizione della techno minimal che spesso passa su questo blog, a volte basta solo un clic in più per dare corpo e profondità al pezzo e raggiungere il climax. Non che, a dire la verità, i pezzi seguano la struttura base della musica pop con intro, corpo, refrain e outro, anzi in molti casi non si capisce subito quando un pezzo sta arrivando alla fine. Per i miei gusti avrei inserito tanto tanto più theremin, che in questo album non è uno strumento princpale ma un supporto, ma so bene di essere monomaniaco in questo senso.

Come dicevo parlando di OoopopoiooO, per quanto l'ascolto dell'album sia piacevole, la vera esperienza è quella di seguire un live delle Varlet, durante il quale l'improvvisazione e la campionatura in tempo reale e l'effettistica portano a versioni sempre diverse e a volte difficilmente riconoscbili dei pezzi. Durante l'esibizione non è soltanto la musica a catturare, ma anche l'esibizione, con le intense interpretazioni vocali di Valentina e il continuo affanno di Valeria, costantemente impegnata a premere pulsanti e girare manopole, un'attività febbrile da pilota di astronave.

Quindi visto che le due sono tuttora in giro a portare la loro improponibile musica in giro per locali d'Italia, date un'occhiata al calendario delle prossime serate e se avete l'occasione fate un salto ad ascoltarle.

Coppi Night 12/03/2017 - The Zero Theorem

In genere ho un buon rapporto con Terry Gilliam. Non sono mai stato a cena a casa sua, questo è vero, però in linea di massima ce la intendiamo, già dai tempi dei Monty Python. Per quanto molte sue produzioni da regista si muovano ai confini del surreale, riesco a entrare in sintonia con quello che cerca di trasmettere, e ne rimango infine soddisfatto.

Con The Zero Theorem questa affinità non è scattata del tutto. Il film ha molti lati positivi, principalmente per l'ambientazione e la caratterizzazione dei personaggi (quasi tutti). Quando arriva però a lasciare il suo messaggio finale mi è sembrato più incerto, incapace di colpire davvero come lo schieramento di idee e attori a disposizione avrebbe permesso di fare. La storia di Qohen (Christoph Waltz) sulle prime cattura per la sua stranezza: un genio matematico, che lavora pedalando e maneggiando un joypad, in attesa di una telefonata da dio o chi ne fa le veci, a cui viene assegnato il lavoro ultimo, dimostrare che l'universo equivale a zero, che tutto è nulla e viceversa. Come punto di partenza ha enormi potenzialità, ma la trama poi sembra incepparsi troppo su alcuni aspetti che forse sono i più banali, nel senso di più facili da ritrovare in centinaia di altri filmetti da domenica pomeriggio. Quante volte si è visto il nerd che si innamora della spogliarellista che gli è stata mandata apposta dagli amici per metterlo in difficoltà? E c'è davvero bisogno di dedicare metà film al suo interesse per quella che è di base una videochat erotica? Anche la spiegazione definitiva di cosa lui sta cercando di dimostrare arriva quando ormai non ha quasi più importanza, né per i personaggi né per lo spettatore, perché la situazione si è protratta abbastanza in altre direzioni da far dimenticare lo spunto iniziale.

Ma soprattutto, per tutto il film aleggia un'atmosfera di già visto che da Terry Gilliam non ci si dovrebbe aspettare: l'ambientazione ricorda Il quinto elemento, lo svolgimento per molti versi riprende invece elementi di Brazil dello stesso Gilliam, che però ha il pregio di strutturare la distopia in maniera molto più efficace. Per un regista/autore che ha fatto sempre dell'imprevedibilità uno dei suoi caratteri distintivi, questo rappresenta la giustificazione scritta dei genitori "mio figlio non ha potuto fare i compiti perché impegnato ad accudire il fratellino".

Peccato perché quando vuole, con pochi dettagli il film riesce a riguadagnare parecchi punti (penso ad esempio ai cartelli di divieto che si trovano sulla strada). Ma un film intero non si può reggere sui particolari, se la struttura non sta in piedi da sé. In fin dei conti non mi sento di dire che The Zero Theorem sia un brutto film, ma non è il prodotto fresco e innovativo che mi sarei aspettato. Questo passo falso non basterà certo ad affossare la mia fiducia in Gilliam, ma forse la prossima volta qualcuno tra me e lui dovrà pensarci meglio prima di dedicare tempo a un nuovo film.

Coppi Night 05/03/2017 - I figli degli uomini

Film che avevo già visto anni fa e che ho ripreso volentieri, ricordando che mi aveva lasciato una buona impressione. Intendo "buona" non nel senso di soddisfacente, visto che è un film che difficilmente si può considerare piacevole, per tema e svolgimento.

La premessa su cui si basa è abbastanza semplice, e per la verità non particolarmente originale nell'ambito della fantascienza apocalittica: per qualche ragione sconosciuta, l'umanità non sono più in grado di concepire. Le donne non fanno più figli, e quando la cosa diventa evidente ormai è troppo tardi per trovare una soluzione, il mondo si sta già avviando al collasso. Senza una prospettiva per il futuro, la società sta vacillando, gran parte delle nazioni sono cadute a causa delle ribellioni e sono poche le isole di civiltà ancora abitabili. Tra queste spicca il Regno Unito, che come in V per Vendetta è riuscito a mantenersi calmo and carry on. Questo fa dell'UK la meta preferita dei profughi, in fuga dalle devastazioni in corso nel resto del mondo, pertanto il governo inglese ha dovuto mettere in atto forti misure restrittive nei confronti dell'immigrazione. Seguiamo la storia di un burocrate qualsiasi, che si trova a dover accompagnare una ragazza incinta (profuga anche lei), forse l'unica al mondo e possibile via di salvezza/sopravvivenza per tutta l'umanità. Ma proprio per questo, sono in molti a volersi impossessare di lei e del nascituro, e la bontà delle intenzioni di ognuno è difficile da valutare.

I figli degli uomini è un film crudo, con una regia frenetica, simile a un reportage di guerra, e non a caso. Attentati, posti di blocco e sparatorie sono la norma in questo mondo preapocalittico. Le città sono posti relativamente sicuri ma sottoposti a severi controlli, al tempo stesso la deportazione degli immigrati irregolari è una costante. Il film è uscito nel 2006, e rivedendolo a dieci anni di distanza, in piena "emergenza migranti" fa un certo effetto. Le cause del fenomeno sono diverse, ma sembra quasi che in Europa ci stiamo avviando su una strada simile, a dimostrazione di come alla fine dei conti l'odio ha bisogno solo di un pretesto per potersi esprimere. Le riflessioni che il film suscita sono parecchie, ma tutte confluiscono nella domanda finale: cosa vogliamo lasciare ai nostri figli? In questo caso, figli non ce ne sono, ma questo è sufficiente a scoraggiare qualsiasi parvenza di costrutto sociale? La consapevolezza di un futuro, l'idea che qualcuno continuerà a occupare il mondo dopo di noi è l'unica cosa su cui si regge la civiltà?

Interessante anche notare come questo scenario appaia come l'opposto di quello auspicato dal VHEMT. Il Movimento per l'Estinzione Umana Volontaria promuove una lenta e serena eutanasia della nostra specie, senza clamore e costrzioni. Se l'assenza di nuove nascite fosse una scelta ragionata e profonda dell'umanità, potremmo davvero pensare di andarcene senza rendere infernali le vite degli ultimi umani? Pensiamoci, seriamente.

Come nota finale, devo rilevare che il doppiaggio finale è davvero insostenibile per il personaggio (tutt'altro che secondario) della ragazza madre. Forse nel tentativo di farla percepire come un'immigrata, la parlata inespressiva da vucumprà rovina completamente l'immersione. Si sarebbero potute trovare soluzioni molto più eleganti.

Rapporto letture - Febbraio 2017

Letture piuttosto variegate a febbraio, sia per genere che per provenienza. Tutte comunque riconducibili a meritevoli editori italiani, il che è un buon segno.

Iniziamo con Guiscardi senza gloria, secondo romanzo di Mauro Longo ambientato nel setting GDR Ultima Forsan. Personalmente non sono un giocatore di ruolo quindi non ho seguito il progetto, a quanto ne so si tratta di un'ambientazione a tema zombie, in cui fondamentalmente al posto dell'epidemia di peste che ha investito l'Europa nel 1300 c'è stata la diffusione del morbo che ha risvegliato i morti. La devastazione delle città e il bilancio delle vittime è stato pesante, ma nonostante questo la società si è ripresa. Questo romanzo è ambientato infatti alcuni secoli dopo, quando si è più o meno ritrovato un equilibrio se pur a condizioni diverse, e la minaccia dell'infezione è sempre presente. La storia segue una banda di avventurieri sulle tracce di un leggendario tesoro lasciato da Marco Polo, braccati da un cavaliere francese in disgrazia che ha lo stesso obiettivo. La trama è un pretesto per spostarsi da una città italiana all'altra (Venezia, Otranto, Salerno) e inscenare qualche combattimento tra le due fazioni e i sempre presenti trapassati redivivi (che possono attraversare diversi "stadi" di attività). La componente forse più interessante, al di là dell'azione arricchita di elementi clockpunk, è il modo in cui la società si è ristabilita, e come nelle diverse città vengono trattati i Corrotti, ovvero gli umani contaminati dall'atramento (il sangue nero che veicola il morbo) ma ancora "normali", destinati a trasformarsi in zombie una volta morti. In molte città esistono ghetti appositi e i Corrotti sono discriminati, mentre altrove sono trattati come cittadini degni di rispetto. A fare la differenza è di solito il fanatismo religioso e la presenza di Corrotti nelle famiglie ricche e nobili che governano le città. Ho trovato un po' debole la motivazione iniziale che spinge il cavaliere francese a intraprendere la sua caccia (e quindi innescare tutta la vicenda), e forse anche la rivelazione finale riguardo il tesoro dei Polo, ma lo svolgimento rimane comunque godibile. Soprattutto, il romanzo funziona come standalone, e non serve aver letto o giocato altre opere dello stesso setting per poterlo seguire, anche se è probabile che in questo modo si perda qualche riferimento inserito qua e là. Voto: 7/10


Come intermezzo tra un romanzo e il successivo ho letto il numero 0 di Parallàxis, la rivista che è giunta fino al numero 4 prima di doversi arrendere e concludere il suo percorso (e che ho avuto l'occasione di intervistare). In questo numero si trovano racconti di Valerio Evangelisti, Lisa Tuttle, Neil Gaiman e Max Barry, tutti piuttosto inquietanti anche se non credo di possa parlare di horror, siamo più sul thriller psicologico, se questa definizione esiste. Di certo qualche moto di repulsione viene a leggere della morbosità delle relazioni reali o unilaterali dei vari personaggi, dal Cicci di Scandicci di Evangelisti alla statua umana di Gaiman. A chiudere il volume c'è un saggio sull'aggressività espressa nella letteratura, che parte dall'esempio iconico della dualità Jekyll/Hyde.


Infine ho voluto leggere Elysium, l'ultimo titolo di Zona 42 da cui ero rimasto parecchio incuriosito dopo la prima presentazione a Firenze. Il romanzo di Jennifer Marie Brissett è senza dubbio classificabile come fantascienza, ma questa è un'etichetta che forse si riesce a dare solo a posteriori. Per una buona parte (forse più di metà), tutto quello a cui si assiste è una successione di sequenze con personaggi diversi che portano gli stessi nomi, in episodi collocati in punti diversi dello spazio e del tempo che però mantengono sempre tra loro un collegamento forte: Adrian/Adrianne e Antione/Antoinette sono sempre in qualche modo legati da un rapporto di amore di varia natura (ora sono una coppia, ora padre/figlio, ora fratelli), ma in questo rapporto c'è sempre qualcosa che li porta ad allontanarsi e perdersi spesso a causa di fattori estremi: la guerra, la malattia, la morte. Si capisce abbastanza presto che quello che si sta leggendo in un certo senso non è "reale" e fa parte di una sorta di simuazione (alcuni capitoli sono inframezzati o interroti da linee di codice macchina che fanno subito pensare a qualcosa del genere), ma lo scopo e la natura di questo ripetersi di episodi simili diventa appunto l'interesse princpale procedendo nella lettura. Arrivati alla fine si riesce in qualche modo a comporre la storia di cosa è "successo davvero", ma rimane comunque un margine di incertezza, dato che molti degli episodi riprendono alcuni elementi del filone principale reinterpetandoli in maniera diversa, quasi un'espressione metaforica del senso originale (ad esempio le parti nell'ucronia romana, e quelle con il virus che provoca mutazioni). È difficile quindi poter affermare con sicurezza quale sia la storia princpale, perché in realtà ognuno degli episodi ha un suo contesto e un significato autonomo. Una volta chiuso il libro viene voglia di andare a riprendere le parti precedenti, e rileggerle alla luce di quanto si è appreso alla fine. Nel suo complesso, Elysium è un romanzo sulla perdita, sull'inevitabilità del dolore e il suo posto all'interno di ognuno, come traccia indelebile di quello che in precedenza era amore. È una storia che cerca di mettere in risalto ciò che è importante, quello che resta quando tutto ciò che conosciamo crolla e smette di sorreggerci. Probabilmente bisogna trovarsi nel mood adatto per poterlo seguire e apprezzare, soprattutto nella parte iniziale quando non è chiaro dove la storia vuole andare, ma vale la pena dare fiducia all'autrice e lasciarsi accompagnare in questo viaggio struggente. Voto: 8/10