Doctor Who Christmas Special 2017 - Twice Upon a Time

Sapevamo che sarebbe arrivato ma questo non lo ha reso più facile. Il momento in cui il Dodicesimo Dottore di Peter Capaldi ha ceduto il passo alla successiva incarnazione del personaggio a Jodie Whittaker, la prima donna a interpretare il ruolo. In più, questo era l'ultimo epsiodio sotto il controllo di Steven Moffat come showrunner, che ha indirizzato la serie per le ultime sei stagioni. Twice Upon a Time è quindi un episodio cruciale sotto molti punti di vista, non solo perché è un episodio che contiene la rigenerazione del Dottore, ma anche perché è un momento di svolta importante per la serie nel suo complesso.

E chi ha scritto l'episodio (Moffat stesso) deve aver sentito il peso di questa imminente chiusura di un lungo capitolo. Infatti questa puntata è stata insolita per essere una "regeneration story", perché non c'è stato nessun confronto epico tra il Dottore (anzi, due Dottori) e avversari formidabili e spietati. Al contrario di tutte le rigenerazioni della serie moderna, e di quasi tutte quelle della serie classica, il Dottore non arriva allo stremo delle sue forze dopo una lunga battaglia che mette in pericolo la sopravvivenza dell'universo. Certo, si può considerare che a portarlo vicino alla morte siano state le ferite durante la battaglia contro i cybermen di The Doctor Falls, ma anche qui come abbiamo visto qualche mese fa non stavamo combattendo una minaccia incombente sul mondo, l'umanità o la realtà, ma qualcosa di molto più contenuto, quasi trascurabile. Ed è proprio questo il punto.

Si sono fatte molte speculazioni su come questa storia di compresenza tra il Primo e il Dodicesimo Dottore (entrambi reduci da un combattimento con i cybermen, entrambi al polo sud, entrambi in procinto di rigenerarsi) si sarebbe svolta. Uno dei punti chiave della vicenda è stato colto pressoché da chiunque, anche perché dalle ultime battute del finale di stagione si poteva anticipare: entrambi i Dottori rifiutano di rigenerarsi, e cambieranno idea dopo gli eventi di questo episodio, una volta compreso che è importante cambiare. Anche un'altra teoria ricorrente si è rivelata corretta, quella che il soldato della Prima Guerra Mondiale (Mark Gatiss) che affianca i due fosse un antenato del brigadiere Lethbridge-Stewart, ma questo era quasi un easter egg, non un punto essenziale della trama: fosse stato chiunque altro, non sarebbe cambiato niente. Una delle ipotesi più gettonate era che i due Dottori avrebbero preso parte al salvataggio di Gallifrey visto in The Day of the Doctor, ma questo non è successo. Di fatto, non c'è stato nessun combattimento e nessun nemico da combattere, anzi: quella che sembrava inizialmente la minaccia si è rivelata poi una fazione con un obiettivo quanto meno condivisibile. Abbiamo quindi un episodio lento, riflessivo, portato avanti dai numerosi dialoghi tra i vari personaggi piuttosto che dall'azione. E per quanto anomalo, viste le cirocstazione eccezionali di questa puntata, si riesce ad accettarlo.

Non tutto però funziona come dovrebbe. Forse quello che sulla carta appariva intenso e profondo non è venuto fuori come previsto. La mancanza di scene di azione (a parte qualche breve fuga) fa incespicare lo svolgersi della trama, di cui non si capisce quando si arriva al climax. Il Primo Dottore è interpretato con cura magistrale da David Bradley, che riesce a renderne in modo quasi perfetto la parlata e l'atteggiamento, ma il personaggio è scritto al limite del macchiettistico, e la gag del suo sessismo da anni 60 si trascina un po' troppo. La comparsa di Bill (vera o simulata che sia) appare un po' forzata e in ultima analisi non così necessaria... sembra che l'abbiano voluta inserire perché ormai l'avevano pagata per tutta la stagione, e allora tanto vale mettercela, quando la sua chiusura in The Doctor Falls era più che sufficiente. Tra tutti, è sicuramente il personaggio di Mark Gatiss (sempre più apprezzabile come interprete che come autore, vedi Sleep No More): un soldato nobile, altruista, pronto al sacrificio ma anche alla compassione, uno spiraglio di umanità davvero rincuorante. Anche se il modo in cui compare nella storia è piuttosto artificioso, concede l'occasione per una commovente cronaca della tregua di Natale durante la prima guerra mondiale. Infine, il percorso che porta il Dodicesimo Dottore ad accettare la rigenerazione non è così esplicito. Sembra anzi che gli eventi vissuti abbiano convinto più il Primo, mentre non si riconosce il momento in cui anche il Dodicesimo capisce che è giusto cambiare e andare avanti. Quando saluta per l'ultima volta i suoi companion (Bill, Nardole e Clara, di cui ha riacquisito i ricordi dopo averli persi alla fine della nona stagione) vediamo ancora un uomo sofferente e stanco.

Molto probabilmente questo episodio è stato costruito intorno a Peter Capaldi, infatti gli sono concesse diverse occasioni per i suoi monologhi. Anche il discorso finale, rivolto alla sua prossima incarnazione, è estremamente teatrale nei tempi e nella scelta delle parole, un'ultima occasione per l'attore di dimostrare le sue capacità. Per questo l'enfasi maggiore è data ai suoi momenti di intimità e riflessione, che sono sempre stati quelli in cui Capaldi si è distinto e, diciamo la verità, ha spiccato rispetto a tutti gli altri Dottori dell'era moderna.

Twice Upon a Time è anche farcito di easter egg, citazioni che attingono dal passato recente e remoto della serie. Dai più ovvi richiami al Primo Dottore, con quello che è sicuramente il "previously on" più lungo della storie della televisione, a riferimenti anche più sottili al Nono, Decimo e Undicesimo, suggeriti anche dall'utilizzo di temi musicali che non si sentivano da tempo. E come in molti altri casi, la scrittura di Moffat è anche metatestuale e indugia non solo sul Dottore in-universe ma anche sulla serie in quanto tale. Quando Bill dice che la cosa più difficile da fare dopo aver conosciuto il Dottore è lasciarlo andare, la sua frase ha almeno tre diversi livelli di lettura.

Ed è proprio questo lasciarsi andare, o meglio, lasciar andare il Dottore, come se fosse un ruolo che altri dovranno ricoprire (cosa che, out-universe, è vera) che giunge infine come consapevolezza e permette al Dottore (di ora) di rigenerarsi nel Dottore (di dopo), non senza qualche raccomandazione essenziale. Laugh hard. Run fast. Be kind.

Forse non è la rigenerazione più spettacolare che si sia vista, ma è perfetta per il personaggio che abbiamo conosciuto negli ultimi anni, serio, riflessivo. Quello del Dodicesimo Dottore è stato un arco di crescita personale, molto più dei precedenti, e magari su questo tornerò con un post più specifico per esaminare qual è stato il suo percorso. È stato un bel viaggio, e anche se non è finito col botto, ha raggiunto la conclusione più appropriata.

Ho sempre affrontato il cambio di Dottore con spirito positivo e curiosità, ma so già che Capaldi mi mancherà molto, e che sarà difficile trovare un altro interprete così valido per un personaggio tanto sfaccettato.

Mr. Robot, avatar dei Millennials

Si è da poco conclusa la terza stagione di Mr. Robot, la serie ideata da Sam Esmail che a partire dal 2015 segue le vicende di Elliot Alderson (Rami Malek), un giovane hacker coinvolto in un piano per sovvertire in pratica il Nuovo Ordine Mondiale. Le cose sono abbastanza più articolate e complesse di così, anche per la molteplicità di personaggi collaterali a cui la storia si allarga, ma posso proseguire solo dopo un'allerta spoiler, che in realtà riguardano solo l'idea generale della serie e non eventi specifici. Meglio comunque aver visto almeno la prima stagione prima di continuare a leggere questo post, che comunque non è una recensione alla serie in sé.

Questa terza stagione è stata a mio avviso la migliore vista finora, perché la serie è davvero esplosa (no pun intended) in tutto il suo potenziale, mostrando quanto profondo e vasto sia il bacino di tematiche a cui attinge. Ed è forse solo dopo aver visto questa stagione (in particolare un paio di episodi: Runtime Error e Don't Delete Me) che sono riuscito ad afferrare cosa mi affascina davvero della serie, e forse anche cosa Mr. Robot tratta davvero. Per quanto la premessa, il protagonista e i comprimari appartengano tutti al mondo dell'informatica e dell'hacking, l'argomento centrale della serie non è questo. D'altra parte sarebbe piuttosto noioso e inaccessibile per chi non è familiare con tecnologia e lessico specifico. Certo, diversi snodi della vicenda hanno a che fare con operazioni di questo tipo, ma vengono in genere illustrate velocemente e in termini generici e comprensibili anche a chi non capisce nulla di programmazione (come me). Quindi non è di questo che parla Mr. Robot.

Mr. Robot parla di una generazione. Parla dei Millennials, con i quali si intende grosso modo i nati tra la metà degli anni 80 e i primi 2000 (non, come spesso viene dato da intendere, i nati dopo il 2000): la generazione successiva ai Baby Boomers e alla Generazione X, quelli che si sono trovati adulti negli anni in cui il mondo occidentale è più o meno andato a puttane. I Millennials, come concordano pressoché tutte le fonti, sono la prima generazione dall'inizio del Novecento che si troverà più povera di quella che l'ha preceduta. Non è intenzione di questo post analizzare il fenomeno, ma un resoconto abbastanza esaustivo della situazione si può trovare in questo articolo di Michael Hobbes (focalizzato sugli USA, ma di base applicabile anche nel resto del mondo civilizzato).

Tutti i protagonisti di Mr. Robot sono millennials: Elliot e sua sorella Darlene (così come soci e sostenitori della FSociety), Angela e Tyrell Wellick, l'agente FBI Dominique DiPierro. Anche lo stesso Mr. Robot, essendo una parte dissociata della personalità di Elliot, è in un certo senso suo coetaneo, nonostante appaia con le sembianze del padre. Tutti questi personaggi, anche se moralmente ambigui, sono di fatto gli eroi della storia, mentre gli antagonisti sono tutti delle generazioni precedenti: Colby, Price, Whiterose/Zhang, Irving, Santiago.

Ed ecco che lo scontro tra le generazioni diventa una guerra. Da una parte quelli che hanno il potere, l'un per cento dell'un per cento capaci di decidere il futuro del mondo, che giocano senza rimorsi con le vite e il Sistema stesso (nazioni, economia, media) per piegarle ai loro scopi relativamente futili: troppo grandi per fallire, troppo forti per cedere; dall'altra, elementi isolati di una Generazione Y che si è vista sbriciolare sotto i piedi il terreno su cui stava cercando di costruire quello stesso futuro, e che quindi cerca senso e compimento in obiettivi e direzioni diverse da quelle che gli sono state insegnate: quando ogni meccanismo del sistema sembra studiato per impedirti di ottenere una qualunque forma di stabilità, l'unica soluzione è distruggere il meccanismo.

Esmail non fa mistero delle sue ideologie anti-sistema e anti-capitalismo, e attinge da un ampio bacino di opere precedenti per mettere in scena il suo dramma contemporaneo. Una delle influenze più evidenti è Fight Club (più il film che il libro, in effetti), con cui si possono trovare diversi tratti in comune. Dal piano per abbattare la EvilCorp molto affine al Progetto Mayhem, alla stessa patologia dissociativa di cui soffre il protagonista, con un alter ego spietato e determinato che non è in grado di controllare. I dialoghi (o forse è più appropriato parlare di soliloqui) tra Elliot e Mr. Robot contengono spesso echi molto familiari rispetto al discorso motivazionale di Tyler Durden, il famoso "siamo i figli di mezzo della storia". Il tutto aggiornato di una ventina d'anni, con l'inasprirsi di quelle stesse condizioni sottolineate da Palahniuk e Fincher alla fin degli anni 90. Per esempio:


Quello che parla, pur avendo l'aspetto di un uomo di mezza età, è in realtà una parte di Elliot stesso, quella che gli continua a ripetere che tutto questo non è accettabile, non è giusto, e va combattuto. Quella parte che sentiamo, ogni tanto, tutti quanti, nel profondo delle nostre coscienze, ma che cerchiamo di sopire perché, tutto sommato, non ci va così male, e comunque potrebbe solo andare peggio se decidessimo di fare qualcosa... come puntualmente accade proprio in Mr. Robot.

Mr. Robot (il personaggio) rappresenta questo: l'avatar di una generazione costretta a confrontarsi con un mondo che non gli concede spazio. È il nostro grillo parlante, che ci mette in guardia di fronte a quello che ci aspetta, il futuro che è già presente per cui non disponiamo di strumenti adatti ad affrontarlo. Non a caso qualche settimana fa quando parlavo dei temi della fantascienza italiana di oggi citavo questa serie. Mr. Robot non è una serie di fantascienza, non in senso stretto, ma è sicuramente un'estrapolazione sociale che mostra un presente alternativo ma credibilissimo e anzi, per quanto ne sappiamo, molto vicino a ciò che sta accadendo davvero nel mondo.

Tutto questo, unito a una realizzazione eccellente (dalla regia alla colonna sonora, dal linguaggio alle interpretazioni magistrali soprattutti di Rami Malek, Christian Slater e Martin Wallstrom), fa di Mr. Robot una serie fondamentale per comprendere il mondo di oggi. Non è una visione sempre facile, ed è tutt'altro che leggera, ma riesce a raggiungere apici di profondità grazie al coinvolgimento emotivo per personaggi ben costruiti e coerenti. Sappiamo già che ci sarà una quarta stagione, e per come le cose si concludono nella terza, sarà interessante vedere in quale direzione si svilupperà. Avete tutto il tempo per recuperare le stagioni precedenti se ancora vi mancano.



...e se invece siete già in pari, parte di queste tematiche si ritrovano in qualche modo anche nel mio racconto Memehunter, come la copertina già suggerisce, ma con un approccio meno apologetico e qualche elemento di evoluzionismo dell'informazione in più.

Yoda si sbagliava, o l'apologia del fallimento in Star Wars VIII


Con queste parole quasi quarant'anni fa Yoda insegnava al giovane Luke Skywalker che rimuginare sulle proprie capacità, valutare la difficoltà di un'impresa, analizzare i pro e i contro non servono a niente se non si decide di agire.

Quello che all'epoca era un mantra, in un universo narrativo che stava appena accennando a espandersi oltre un singolo film dal successo inaspettato (e opportunamente dimentico del Holiday Special), oggi sembra essere sovvertito, all'interno della sterminata e complessa vastità che questo universo ha assunto (dentro e fuori dalla narrazione). Anche se questo post non è propriamente una recensione dell'ultimo film, seguiranno spoiler.

Di The Last Jedi si sta parlando molto, com'era inevitabile che fosse, e mi pare di notare una generale tendenza alla delusione e scoraggiamento: Star Wars è morto, la Disney lo ha assassinato, JJ Abrams ha piantato il primo chiodo nella cassa, e ora Rian Johnson gli ha spalato addosso un cumulo di terriccio. Partendo dal fatto che non sono un fan oltranzista di SW, nel senso che non ho mai sentito lo stimolo di comprare una maglietta con Darth Vader e mi sono pure concesso il lusso di non guardare Rogue One e ancora non ne sento la mancanza, da parte mia la vedo in modo diverso. Star Wars non è morto, è cresciuto. E forse gli zii affettuosi che lo avevano visto nascere e muovere i primi passi non sono in grado di accettarlo.

Quando parlo di "crescita" non intendo necessariamente maturazione. Star Wars rimane lo stesso tipo di prodotto che era quando è nato (e no, non è fantascienza e non mi farete mai dire il contrario), e se cambia la sensibilità e il gusto del pubblico nel corso dei decenni è normale che lo si segua. E questo Episodio VIII riesce finalmente a raccogliere il coraggio necessario da fare un passo importante: accettare il fallimento come possibile risultato.

In The Last Jedi, tutti falliscono. Da una parte e dall'altra, buoni e cattivi (per quanto già queste categorie si fanno meno distinte), vecchi e giovani, meccanici e generali:

- Poe Dameron porta a compimento il suo attacco all'incrociatore ma con perdite devastanti, e viene degradato.
- Finn e Rose non riescono a disattivare il radiofaro.
- Il piano di evacuazione della viceammiraglio viene scoperto.
- Snoke viene ucciso senza cerimonie dal suo apprendista.
- Il generale Hax non riesce a mantenere il controllo del suo esercito e si ritrova sotto il controllo di Kylo Ren.
- Rey non riesce a "convertire" Kylo nonostante il loro legame appaia forte e combattano insieme contro i soldati di Snoke.
- Kylo Ren non riesce a distruggere la resistenza e si fa ingannare da Luke Skywalker.
- Luke è costretto a sacrificarsi e soprattutto rivela il suo momento di debolezza durante l'addestramento di Ben Solo, che è stato l'origine vera e propria di Kylo Ren.

Non c'è un solo personaggio il cui piano abbia funzionato e che si possa dire soddisfatto di come le cose sono andate. A confronto anche con L'impero colpisce ancora, notoriamente il capitolo più cupo della saga, in cui i protagonisti si trovano alla fine in una brutta situazione, qui le cose sono anche peggio, perché nemmeno i cattivi hanno guadagnato qualcosa.

E quindi anche Yoda è costretto ad ammettere, parlando con Luke: il fallimento è il maestro migliore. Forse anche lui ha finalmente capito i suoi errori, quegli errori compiuti dalla casta Jedi che Luke stesso ammette, in un dialogo che serve a dare una maggiore consistenza anche ai prequel, il cui senso adesso si può considerare proprio l'idea di mostrare un clero decadente che non è stato in grado di proteggere la Repubblica. Forse provare è proprio quello che bisogna fare.

Con tutto questo non voglio dire che The Last Jedi sia un capolavoro. Come qualunque film ha delle imperfezioni, qualche buco di trama, tempi comici non sempre azzeccati, qualche punta di pandering troppo marcata. Ma nel complesso, riesce a mostrare finalmente qualcosa di diverso e tasmettere un messaggio chiaro: lascia indietro il passato, uccidilo se necessario. O almeno provaci...

Coppi Night 03/12/2017 - Hush / Il terrore del silenzio

Qualche settimana fa lodavo la consistenza di un film che si basa su un'unica protagonista, una donna chiusa in casa da sola e costretta a difendersi da un nemico che la assale dall'esterno. La stessa tagline de Il gioco di Gerald si potrebbe in linea di massima applicare anche a questo Hush. Con risultati però sul disastroso andante.

In questo film troviamo per protagonista una scrittrice muta che vive in una casa isolata nel bosco (abbastanza anomalo che una persona incapacitata nel comunicare con il mondo esterno decida di isolarsi del tutto, ma vabbè, la gente è strana) e viene attaccata da un killer che ha tutta l'intenzione di fare fuori lei e tutti quelli che si avvicinano, senza una ragione precisa (abbastanza anomalo che un killer "casuale", metta tutto questo impegno per un omicidio qualsiasi, ma vabbè, la gente è strana).

La quasi totalità del film mostra una serie di tentativi del killer di raggiungerla e di lei di fuggire o isolarsi, e davvero è difficile schierarsi con vittima o carnefice, perché entrambi ce la mettono tutta per dimostrarsi completamente inadatti al loro ruolo. In un certo senso si può sire che le loro incapacità sono complementari e quindi alla fine lo scontro risulta bilanciato. Ora, per continuare il paragone di prima, nemmeno ne Il gioco di Gerald avevamo una protagonista con particolari doti o capacità, eppure il suo percorso la rendeva tridimensionale, viva, autentica. Qui invece non è così: l'autrice muta non è caratterizzata nemmeno dalla sua afasia, che nel corso della storia non assume in nessun caso una rilevanza a livello narrativo.

La caccia si sviluppa per l'estenuante durata del film (meno di un'ora e mezzo, ma pare la seconda prova della maturità), in cui a parte lui fa questo-lei fa quello-non ci riesce-ci riprova e un continuo dentro-fuori-dentro-fuori dalla casa, non succede niente. O meglio, succedono un sacco di cose, ma nessuna muove di un centimetro la storia e i protagonisti al loro interno. Il livello di tensione è costantemente quello di una minestrina col formaggino.

Da aggiungere anche un altro dettaglio particolarmente frustrante, per quel che mi riguarda: quelle due-tre frasi che la inquadrano come scrittrice, con i discorsi sull'ispirazione e sulle vocine nella testa che sono quelli che tipicamente chi non ha mai scritto nulla pensa di coloro che scrivono.

Rapporto letture - Novembre 2017

Una discreta variazione di generi e temi nei libri letti il mese scorso, qualità altalenante.

La lettura principale di novembre è stata The Subtle Knife, il secondo volume della trilogia di Philip Pullman His Dark Materials. Il mese scorso avevo parlato di come avessi trovato affascinante The Golden Compass ma non ero riuscito a entrare completamente in sintonia con la protagonista. In questo libro, a Lyra si affianca un altro personaggio principale: Will, un ragazzino del nostro mondo (quindi senza deamon). E Will è il personaggio che aspettavo e che sono arrivato a considerare fin da subito un vero eroe: abbandonato dal padre (che a sua volta ricoprirà un ruolo centrale nella storia), cresciuto presto per prendersi cura di una madre non in salute, costretto a difendersi e uccidere per proteggere la sua famiglia, abbastanza forte da poter maneggiare il coltello del titolo, artefatto dal potere immenso. Ma The Subtle Knife si prende anche il tempo di espandere la storia che nel primo libro si era vista solo da un punto di vista limitato, e si scopre così che sta per scoppiare una guerra, un conflitto totale che coinvolge tutti i mondi, quello di Lyra quanto il nostro e ogni altro. Gli eserciti si stanno formando, e i due protagonisti sono tenuti a schierarsi, in un continuo salto tra mondi in cui troviamo spettri, angeli, zombie e così via. Apprendiamo anche che l'alethiometro di Lyra non è l'unico strumento che permette di conoscere la verità, ma ce ne sono anche altri a noi noti, come l'I Ching e un software molto specifico. Tra i nuovi personaggi secondari introdotti infatti il più interessante è forse Mary Malone, ex suora del nostro modno passata alla ricerca astrofisica, che lavora a un progetto di studio sulla materia oscura (notare l'assonanza con il titolo della serie). Questa commistione tra ciò che consideriamo scienza e quella che nel libro precedente sembrava solo magia aggiunge un livello di complessità ulteriore che rende il tutto più convinvente e vicino a noi. Il libro si conclude con un cliffhanger e avevo tanta voglia di passare subito al successivo, ma ho voluto inframezzare con qualcosa di più disimpegnato. Voto: 8/10
 

Sono passato a leggere Aibofobia, un thriller di Mariachiara Moscoloni il cui titolo mi aveva stuzzicato fin dall'inizio (e di cui ho rimandato la lettura fin troppo). La storia si svolge intorno a una serie di omicidi che sembrano avere un collegamento con qualche disciplina esoterica, visto che si scopre presto che sembrano avvenire tutti in prossimità di luoghi "speciali" e contrassegnati dal quadrato magico (sator-arepo-tenet-opera-rotas). La trama viene seguita da più punti di vista, un avvocato, la sua segretaria e un libraio indagato per uno degli omicidi. Gli indizi si accumulano e alla fine si scopre il collegamento con i palindromi, così come l'origine remota di tutta la vicenda. Devo ammettere però che nonostante l'enigma sia costruito in modo da suscitare curiosità, la sua soluzione non è altrettanto soddisfacente. O meglio, anche se si capisce cosa è successo, non è del tutto chiaro perché, ovvero la ragione per cui l'assassino ha ucciso chi ha ucciso. Inoltre un paio di sottotrame collegate ai personaggi secondari non hanno una chiusura completa, quindi forse qualche approfondimento in più soprattutto nella parte finale avrebbe fatto comodo. Voto: 6.5/10


E infine passiamo alla sf action di quella schietta: Abaddon è un romanzo che si può sostanzialmente inquadrare (per stessa ammissione dell'autore Giuseppe Menconi) come l'equivalente letterario di un videogioco fps: team di soldati speciali che fa irruzione in un'astronave aliena e si fa strada tra i mostri a mitragliate. Questo non significa che sia una storia banale ammazza-il-mostro-e-scappa. Il protagonista che narra in prima persona è un decorato veterano di guerra meno coraggioso di quello che tutti si aspettano da lui, e quando si trova chiuso con la sua squadra dentro l'astronave (che staziona da decenni immobile nel cielo), è costretto a dimostrare chi è davvero e prendere decisioni che sperava di non dover mai più affrontare. La storia dietro l'astronave, che si svela man mano tra un raid di mutanti e l'altro, è lunga e complessa, abbraccia molte dimensioni ed epoche. Alla fine dei conti niente di sconvolgente o particolarmente originale, e forse qualche richiamo di troppo a immaginari già conosciuti (un paio di sequenze mi sembrano pari-pari scene di Stargate), ma l'attenzione è tenuta sempre viva e si rimane con un dubbio abbastanza pesant riguardo al finale, non è affatto certo che le cose si siano concluse nel modo migliore. Voto: 7/10

Coppi Night 26/11/2017 - It Follows

Quando qualche settimana è uscito al cinema It, mi è capitato di leggere numerose recensioni e commenti che riconoscevano il valore dell'opera al di là del semplice horror, per la presenza di tutta una serie di tematiche direttamente derivanti dal libro: la paura di crescere, il distacco tra le generazioni, il terrore indefinito che assume forme riconoscibili e per questo ancora più efficaci. Tutto questo, personalmente, non sono riuscito a ritrovarlo nel film di Muschietti, che mi ha lasciato l'impressione di un horror piuttosto ordinario, peraltro con pesante affidamento su jumpscare.

Per trovare davvero queste tematiche, basta aggiungere una parola al titolo del film e guardarsi It Follows invece di It. Lo avevo già visto poco dopo l'uscita e rivederlo a distanza di un paio di anni mi ha permesso di approfondire ancora di più, notando i particolari che possono sfuggire alla prima visione.

La premessa del film è già inquietante di suo: una creatura/entità/maledizione che ti cammina incontro, assumendo l'aspetto di una persona qualunque (nota o sconosciuta) e da cui puoi scappare solo morendo o passandola a qualcun altro. E il passaggio avviene con un rapporto sessuale: fai sesso con una persona, e l'essere inizierà a seguire questa. Se non che, nel caso riesca ad ucciderlo com'è il suo obiettivo, allora tornerà da te. Ogni "contagiato" tende quindi ad allontanare il più possibile la maledizione, facendo in modo che anche le sue vittime la passino a loro volta.

Puzza di metafora, vero? Il mostro del film non riceve nessuna origin story, non sappiamo da dove arriva, cosa lo motiva, quale siano la sua natura e i suoi poteri. Ma non è questo il punto. È evidente già dalle prime battute del film, che la creatura che segue è la rappresentazione di qualcosa. Ma di cosa?

Una delle teorie più in voga, e piuttosto facile da individuare è quella delle malattie sessuali, in particolare le più terribili come ovviamente l'AIDS. A sostegno di questa ipotesi il fatto che l'ambientazione del film sia pressappoco negli anni 80, come suggeriscono alcuni particolari sul set (le televisioni, le biciclette, l'assenza di cellulari) e anche la musica. Eppure anche senza squalificare del tutto tale ipotesi, credo che fermarsi a questo livello sia una lettura poco più che superficiale, che gratta appena la patina superficiale sotto cui si nasconde il messaggio del film.

Perché l'angoscia di It Follows non deriva soltanto da quel tizio che ti guarda e ti cammina incontro, vuole ucciderti e solo tu lo vedi. E nemmeno dal pensiero che la persona con cui hai fatto sesso potrebbe morire e allora il tizio tornerà da te. C'è un senso diffuso, più effimero ma anche più potente, che è in ultima analisi un'ansia di crescita. Il desiderio di sentirsi adulti, che viene di fatto espresso in una delle prime battute della protagonista. L'idea che se sei grande abbastanza per scopare allora sei cresciuto, ma dopo averlo fatto ti rendi conto che non è cambiato niente, anzi, non solo quel legame speciale che ti dicevano avresti sentito non c'è, ma forse hai perso anche qualche pezzo di quello che esisteva prima. Mi è parso di sentire questo tema rappresentato più volte, in molti dei rapporti in cui vediamo coinvolta la protagonista e anche in quelli solo suggeriti. Anche l'ultimo, quello che nelle intenzioni dovrebbe liberarla del tutto, non ha niente di coinvolgente o catartico. È quasi routine, solo qualcosa da ripetere perché è così che va fatto, come lavarsi i denti tre votle al giorno.

Questo abbandono dei ragazzi si percepisce anche nell'assenza di figure adulte. A parte qualche breve comparsa, quello di If Follows sembra un mondo quasi privo di genitori, tutori, anziani. I ragazzi per quanto giovani (presumo intorno ai sedici anni visto che guidano) si occupano da soli del problema, non hanno l'idea né il bisogno di avvertire nessuno che possa aiutarli. Nelle loro case sono sempre da soli, quando urlano e fuggono nessuno si interessa di quanto sta succedendo.

Ed è qui che interviene anche quell'ambientazione pressappoco anni 80, perché nonostante i dettagli che richiamano quest'epoca, vediamo anche tecnologia più recente, primo su tutti il lettore ebook di una delle ragazze. Si avverte una stranda dissonanza tra il livello tecnologico possibile e quello percepito, come se ci trovassimo in una comune luddista, ma nessuno dei personaggi lo nota, per cui si capisce che è normale così. È un effetto strano, artificioso, che contribuisce a quel generale senso di spaesamento che pervade tutto il film.

Per questo dico che It Follows è ciò che It dovrebbe (o avrebbe dovuto) essere, perché riprende molte delle stesse tematiche e le mostra in modo efficace, opprimente, disturbante. Il tutto senza un solo jumpscare.