Avviandomi a parlare dell'ultimo album di Johannes Heil, devo fare una premessa: il mio giudizio su quest'uomo non sarà affatto imparziale. Questo perché, detta in due parole: lo adoro. Fin da quando ho sentito, su una vecchia compilation, il suo pezzo The Chains of Babylon, ogni sua nuova uscita è stata per me un momento di estasi.
È per questo che, quando quattro anni dopo Freaks R Us mi sono trovato in mano il nuovo cd, ho provato un brivido paragonabile a quando ci si lancia per la prima volta col paracadute. Cosa che non ho mai fatto, in realtà, ma immagino non possa essere tanto differente. Devo ammettere che ho saputo dell'uscita con un certo ritardo, ovvero solo quando me lo sono visto davanti, e anzi, nemmeno allora. Sulle prime infatti non mi ero reso conto che quello che stavo guardando nell'espositore del Disco Mastelloni era l'album di Heil, forse perché la copertina mi era risultata pressoché incomprensibile.
Col senno di poi riesco a individuare benissimo le parole, ma lipperlì ho capito con cosa avevo a che fare solo esaminando più da vicino la custodia e leggendo sulla costola il titolo scritto in caratteri normali. Ed è stato allora che mi sono lanciato col paracadute.
Per chi non lo conoscesse, inquadriamo un attimo il personaggio. Johannes Heil è tedesco, ed è attivo dagli anni '90, quando è stato scoperto da Heiko Laux e ha realizzato i suoi primi dischi con la Kanzleramt, con la quale ha lavorato per parecchio tempo. Appartiene a quella minoranza di Dj che non suonano selezionando e mixando dischi, ma si esibiscono in performance "live". Ovvero, suonano i propri pezzi (e solo quelli) inserendo uno per uno loop ed effetti, con improvvisazioni e versioni diverse ogni volta. Si tratta quindi dell'equivalente elettronico di un "concerto" suonato con strumenti convenzionali. Io l'ho visto, e credetemi, Johannes Heil che suona è qualcosa di impressionante, quando si muove frenetico toccando tasti e girando manopole, con il piede destro che batte continuamente il tallone allo stesso ritmo con cui i colibrì battono le ali, su una console come questa (è proprio la sua, a cui ho fatto una foto):
Ma soprattutto, Johannes Heil è un hippy. Uno che vede gli spiriti della luce e ottiene da loro rivelazioni (come dichiara nell'album Future Primitive), che crea pezzi a partire dai discorsi di predicatori e maestri. A dimostrarlo anche la dedica riportata in quest'ultimo album:
There is nothing greater in life than the power of love and to share it wit all living beings in eacha and every moment. I thank god i am lover.
Ma quindi, in cosa consiste questo nuovo album? Dopo le esperienze con Datapunk e Klang, Heil è tornato alla Cocoon, con la quale aveva già prodotto alcuni singoli ma nessun LP. Loving, come lui stesso racconta nel podcast che ha accompagnato l'uscita, è un album più emotivo rispetto ai precedenti. Se infatti il sound electro di Freaks R Us era del tutto nuovo, e la collaborazione con Marcelus Nealy ha reso The World un album unico, la nuova raccolta si attesta su sonorità techno/house abbastanza ordinarie, ma non per questo banali. La produzione di Heil, sempre varia (al punto che ogni album si può inquadrare in un particolare genere e stile), si stava già spostando da alcuni anni verso questo tipo di sonorità, con le uscite sulle sue nuove etichette Metatron e in seguito Shit Happens. Loving è quindi l'espressione finale di questa evoluzione, con una considerevole componente house (ma house vera, non quella che sentite al tg e vi spacciano come tale).
Si parte quindi con Hallelujah, un pezzo break-beat che se all'inizio può sembrare We Will Rock You, si rivela poco dopo un omaggio alla savana africana, con canzoni tribali e qualche cameo di bestie esotiche. Decisamente più techno sono All Is One, Seeded e The Ace, che ricordano lo stile di album precedenti come Illuminate the Planet, mentre Twentythree (secondo me la migliore tre le dodici tracce) pur conservando un kick serrato riprende alcune atmosfere morbide di 20000 Leagues Under the Skin. Il filone electro è degnamente rappresentato da A Holo Static, e a chiudere ci sono i due pezzi prettamente house Could this Be e Loving. Qui ecco un sample dell'album, tanto per dare un'idea delle cazzate che vado raccontando:
In definitiva, un album che a differenza di alcuni precedenti lavori di Johannes Heil non si presenta come rivoluzionario, ma che nel complesso contribuisce ad affermare quello che è il percorso di un artista (in questo caso la parola non è utilizzata a sproposito) che ha sempre avuto qualcosa da dire. E che spero continuerà a farlo.
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