Il tempo di una canzone

Come già avevo ripreso a fare il mese scorso, proseguo a ripubblicare nelle storie di questo blog i brevi racconti scritti in occasione del concorso mensile "Minuti Contati". Oggi propongo il mio racconto dell'edizione di novembre 2010, organizzata in collaborazione con Nero Cafè.

Il tema dell'edizione era riflessivamente "minuti contati", con una restrizione ai generi utilizzabili ma un ampio limite di caratteri a disposizione. Il mio (scadente, stando alla classifica) risultato è stato il seguente.



Il tempo di una canzone

– Tenente, possiamo...
– Ssss! – interruppe Dorsi. Portò il dito sul tasto VOL+ dell'autoradio e lo lasciò schiacciato finché il display non segnò il livello MAX. – Fammi finire questa, prima.
Dalle casse della volante gracchiava la voce di Steven Tyler, e il tenente si univa a quelle parole: – I don't want to close my eyes...
Fuori dall'auto i due ragazzi che lo accompagnavano si guardarono scrollando le spalle. In caserma era nota la passione del tenente per la musica, e tutti sapevano che non era in grado di interrompere una canzone che stava ascoltando. Dovevano solo attendere un paio di minuti, e Dorsi sarebbe uscito per dirigere l'operazione.
Da una palazzina in periferia avevano ricevuto la segnalazione di una possibile detenzione illegale di armi, ed erano stati mandati a controllare la soffiata. L'operazione era considerata a medio rischio, perché chi contrabbandava armi era probabilmente in grado di usarle, e per questo il tenente seguiva i due più giovani.
L'edificio era in pessime condizioni, la facciata chiazzata da numerose macchie scure in prossimità delle finestre.
– Devono avere qualche problema di umidità – constatò uno dei ragazzi.
– Non è umido, è bruciato – spiegò l'altro. – Un paio di anni fa in questo palazzo è scoppiato un incendio. Probabilmente non hanno mai...
Siamo pronti?intervenne la voce di Dorsi, che aveva appena terminato la sua performance nell'abitacolo. Sbatté con forza la portiera e fissò a turno i suoi compagni. – Stiamo calmi ragazzi, sennò qui ci scappa il dito sul grilletto, chiaro?
Annuirono.
– Tu vai avanti, suoni e ti fai aprire, seguo io e tu mi copri. Ci siamo?
Annuirono ancora.
– Bene, andiamo.
Salirono al quinto piano, e si fermarono alla porta dell'interno 12. Il primo della fila fece un cenno di assenso al tenente e suonò il campanello.
– Chi è? – rispose la voce dall'interno, ovattata e scontrosa.
– Carabinieri. Potrebbe aprire?
Una pausa. – Che volete?
– Solo alcune domande.
Si sentì il clicchettio della serratura, e ad aprire la porta apparve un ometto sui sessanta, basso e quasi calvo, con indosso un maglioncino a collo alto. – Prego, entrate – li invitò, e chiuse la porta dopo che furono dentro.
Che un uomo del genere custodisse un arsenale clandestino era improbabile, ma non si poteva mai essere sicuri.
– Ci dispiace disturbarla, signore, ma dovremmo fare un controllo – spiegò Dorsi.
– A che proposito?
– Potrebbe intanto fornirci un documento?
L'uomo apparve perplesso, ma si diresse in un'altra stanza, borbottando: – Un minuto...
Un improvviso clangore attirò l'attenzione degli agenti: il suono di un barattolo di metallo che rimbalza a terra. Dalla stanza in cui era sparito l'inquilino rotolò fuori una bomboletta, spargendo una nuvola bianca che si espandeva avvicinandosi a loro.
Il tenente capì subito cosa stava succedendo: – È gas, presto, coprit...
Non riuscì a finire la frase, con la gola che iniziava a bruciargli e colpi di tosse che gli strozzavano il respiro.
Cercò di avvicinarsi al portone per uscire, ma urtò in uno dei ragazzi disteso a terra e cadde a sua volta. Riuscì a rialzarsi, ma i conati lo costrinsero presto a lasciarsi andare ancora.
Vide l'ometto che gli andava incontro, una maschera sul viso per proteggerlo dal gas. Poi la nebbia che lo circondava gli prese anche la testa, e non sentì più nulla.

– ...rsi?
Non capiva. Era una domanda, ma non capiva.
– È sveglio?
Era una domanda, era per lui. Sì, era sveglio.
– Mi sente, Dorsi? È sveglio?
Il tenente annuì per istinto, prima di realizzare quello che era successo. Quell'uomo apparentemente innocuo li aveva incastrati. Adesso erano probabilmente suoi ostaggi. Lui sicuramente lo era: si trovava seduto a terra, in mutande, legato con i polsi a un calorifero e con un pezzo di nastro da pacchi che gli copriva la bocca. Poteva sentire il sapore plastico della colla sulle labbra.
– I suoi colleghi stanno bene – riprese l'uomo dopo essersi assicurato di avere la sua attenzione. – Si riprenderanno tra poco, e sranno liberi di andare. A loro non succederà nulla. A lei, invece...
Dorsi provò a chiedere qualcosa, ma si rese conto che gli era del tutto impossibile parlare e desistette.
– Non sa chi sono, tenente? Non mi riconosce?
Scosse la testa, ancor prima di pensare al volto che aveva davanti. Ma era vero, non gli ricordava nessuno.
– Certo, come potrebbe ricordarsi. È passato tanto tempo. E forse nemmeno allora mi avrebbe riconosciuto. Forse non si è nemmeno accorto di me. Ma Livia, si ricorda di lei?
Deglutì.
– Non le dice niente questo nome?
Negò di nuovo, accompagnando il gesto con un significativo: – Hmmuh.
– Le do una mano. Quattro anni fa, in questo palazzo, c'è stato un incendio, ricorda? È iniziato al piano di sotto, ma si è propagato velocemente fino a qui. Lei si trovava in questo quadrante quando la chiamata di soccorso è partita. I pompieri avrebbero impiegato del tempo ad arrivare, e le è stato chiesto di intervenire. Adesso ricorda?
Dorsi ricordava quell'episodio. Un brutto incendio, c'erano state un paio di vittime e alcuni feriti gravi. Ma la situazione era stata sistemata dai vigili del fuoco, quando lui era arrivato sul posto ormai non c'era niente che potesse fare.
– No, non ha capito – constatò l'uomo, scuotendo la testa deluso. Si allontanò alcuni secondi, e ricomparve con una cassetta degli attrezzi. La aprì davanti agli occhi del tenente, ed estrasse uno per uno vari attrezzi: martello, tenaglie, avvitatore.
– Lei sa che una persona coinvolta in un incendio ha poco tempo a disposizione, vero? Il fumo raggiunge presto i polmoni e fa perdere i sensi, e poi... glielo hanno insegnato all'accademia, vero?
Dorsi annuì, iniziando ad avvertire un forte calore alla schiena, dove il termosifone era a contatto con la sua pelle.
– E allora – proseguì il rapitore, ora con la voce spezzata – perché non è arrivato subito? Perché non si è precipitato qui per aiutare chi ne aveva bisogno?
Il silenzio fu rotto dall'urlo smorzato del tenente, nel momento in cui, usando le tenaglie, l'uomo gli mozzò il mignolo del piede destro.
Livia era mia figlia. Era qui dentro quando è scoppiato l'incendio. Avrebbe potuto essere salvata, era solo una questione di minuti... ma morì soffocata. E lo sa perché è successo questo? Sa perché mia figlia è morta? Perché lei doveva finire di ascoltare una canzone, alla radio.
Dorsi non avrebbe saputo cosa dire nemmeno se avesse potuto parlare.
– Lei deve morire, tenente. Io sto per ucciderla. Ma prima la farò soffrire.
Un altro dito del piede gli venne strappato via, questa volta con meno precisione, e rimase penzoloni, attaccato da un lembo di pelle.
– Ma non si preoccupi – aggiunse l'omino – prima le farò finire di sentire una cosa che ho scelto per lei. La sua tortura durerà giusto il tempo di un canzone. Un pezzo che ritengo particolarmente adatto alla situazione.
Il padre di Livia schiacciò un tasto sul telecomando che teneva in tasca, e dallo stereo fluirono gli accordi e le prime parole: – This is the end, beautiful friend...

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Per inciso, segnalo che se pure a novembre mi è andata male, il mese scorso ho invece vinto la XVII edizione del concorso. Per cui, sarò io a scegliere il tema per l'edizione di aprile, che si terrà tra pochi giorni. Partecipate, se vi ritenete all'altezza della sfida.

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