Il prezzo delle parole

Intervengo per dire la mia su un dibattito che sta animando in queste settimane la blogsfera e i social network, almeno quella parte che frequento io. La cosa è nata dalla disavventura di un'autrice self americana (una delle poche che campa davvero di selfpublishing), che si è vista restituire un libro pagato pochi dollari da un lettore inferocito che lamentava che fosse troppo costoso, nonostante a suo stesso dire il migliore mai letto (non ho voglia di mettervi link, cercatevelo). Poi (forse collegato a questo fatto, forse no) è esplosa una feroce polemica su un gruppo facebook dedicato ad e-book e self publishing, nato da l'osservazione di un membro che faceva notare che se un romanzo su Amazon si paga 0.99, allora un racconto dovrebbe costare al più la metà.

La questione che ne emerge può essere interessante. Il discorso sarebbe molto lungo, e bisognerebbe partire dalla percezione generalmente condivisa del "lavoro creativo", ma in questa sede concentriamoci solo sulla scrittura, e sul rapporto prettamente monetario tra autori e lettori. Buona parte degli interventi su questo argomento da parte degli autori aveva come punto centrale il fatto che la qualità non si misura con la quantità, che scrivere un buon racconto non è più facile di scrivere un romanzo, e che il tempo e l'impegno profuso nella scrittura devono pur trovare un loro corrispettivo, altrimenti sarebbe meglio regalare. Come io mi collochi su questi aspetti è evidente, se si considerano alcuni miei post precedenti, in particolare in merito alla dignità del racconto e al prezzo di copertina del libro di un esordiente. Questo però è il punto di vista dal lato dell'autore, che posso esprimere pur essendo l'ultimo dei bischeri in questo senso.

Ma il lettore, da parte sua, che cosa vuole? Il lettore per cosa paga?

Mi pare che questo lato della faccenda non sia stato affrontato da nessuno. E poiché tutti sono (o dovrebbero essere) lettori prima che scrittori, io credo che sia il punto di partenza per qualunque argomentazione.

Se dico, come lettore, che per me un libro di 100 pagine vale il doppio di un libro di 50, allora sto semplicemente valutando le parole al peso: potrei spingermi fino a calcolare il valore di una singola lettera, e quindi per me risulterebbe facile determinare quanto sono disposto a pagare per qualunque opera, mi basta sapere quanto è lunga. Ma questa impostazione nasconde un sottinteso: ovvero che quello per cui io sto pagando è il tempo che impiego a leggere l'opera stessa. Di conseguenza, la lettura per me è semplicemente un modo per trascorrere il tempo, come potrebbero essere una sigaretta o uno yo-yo.

Ma i lettori cercano davvero questo? Indubbiamente c'è qualcuno che non vuole altro, perché buona parte della produzione editoriale è composta di libri che non richiedono alcun "investimento mentale". Ma i lettori attenti, quelli buoni, quelli insomma che ogni autore vorrebbe avere per sé, chiaramente vogliono altro.

Un lettore autentico vuole essere coinvolto, stupito, intrigato, portato a riflettere, sconvolto, preso a sberle. È questo che si cerca in un libro, e non certo la mera sequenza di parole su cui far scorrere gli occhi. Certo la lettura si definisce sempre "passatempo", ma solo nel senso che è un'attività a cui si dedica in genere il tempo "che avanza". Un buon lettore non vuole soltanto leggere qualcosa, ma pretende che questo qualcosa lo smuova, in un modo o nell'altro.

Ecco perché un lettore può essere disposto a pagare un prezzo più alto per un'opera più breve. Ecco perché l'equivalenza tra numero di pagine e prezzo del libro non ha senso: perché non sono le parole che stiamo pagando, ma il loro potere di evocare qualcosa, suscitare emozioni e riflessioni. E questa capacità è ovviamente inquantificabile: non si può determinare il potere di un'opera (di qualsiasi genere, letterario, musicale, visivo) di provocare reazioni intellettive... anche se è evidente che alcune hanno questo potere, altre no.

Questa quindi è la sfida che un autore si trova ad affrontare: convincere i suoi potenziali lettori che il loro tempo è bene investito, e che un'ora spesa a leggerlo abbia più valore dello stesso tempo impiegato a leggere altro.

Film che non vedrete mai: Upstream Color

Intanto vi rassicuro, questo non è diventato un blog a tema vermi, ed è solo una coincidenza se queste bestie sono tema ricorrente di due post consecutivi. In realtà a differenza di quello, il film in questione è piuttosto recente, e di tutt'altro livello. Rientra nella categoria dei film che non vedrete mai perché è improbabile che qualcuno decida mai di doppiarlo, anche se devo riconoscere che finora ho portato fortuna, poiché The Man from Earth ha in effetti avuto una sua traduzione e anche Synecdoche New York è finalmente arrivato in Italia a pochi mesi dal mio post. Quindi potrebbe esserci qualche possibilità che vediate anche questo in futuro, e ve lo auguro.

Iniziamo col contestualizzare: Upstream Color è un film del 2013 scritto e diretto da Shane Carruth. Il nome probabilmente non vi dice niente, a meno che non seguiate le produzioni cinematografiche collocate al di fuori dal mainstream, opere di autori misconosciuti ma con grande potenziale. Carruth ha raggiunto un certo livello di fama con il suo primo film Primer, una storia decisamente atipica di viaggio nel tempo. In realtà anche definirlo in questi termini è superficiale, perché Primer è un film complesso, a molteplici livelli di interpretazione, e se anche il viaggio nel tempo è presente in una forma diversa da quella con cui viene di solito presentato, il tema centrale del film è un altro. Devo anche ammettere che Primer è un film che mi ha richiesto più di una visione per riuscire a comprenderlo, e ancora non sono sicuro di esserci riuscito completamente.

Upstream Color è per certi versi affine al suo primo lavoro. Carruth, che oltre a scrivere e dirigere, interpreta anche un ruolo principale in entrambi, costruisce film fatti di pochi dialoghi ma di molti messaggi non verbali, e se questo già si vedeva in Primer, qui è ancora più accentuato. La cura tecnica del film è evidente e impeccabile, e in questo in particolare c'è un'attenzione elevatissima per la componente sonora, ma di questo parleremo tra poco.

La storia di Upstream Color non è facile da riassumere. Quanto segue è potenzialmente uno spoiler, ma in effetti credo che questo sia uno di quei film che non viene rovinato dal conoscerne lo svolgimento, perché la sequenza degli eventi non è la parte determinante. Pertanto mi sento di dire che potete leggere senza perdere nulla, ma se non volete saltate al prossimo paragrafo, o tornate dopo averlo visto. A parte alcune sequenze iniziali che assumeranno significato solo in seguito, il film inizia con un'aggressione alla protagonista Kris (Amy Seimetz), durante la quale le viene spinto in gola un piccolo verme. La creatura le si annida dentro, e la presenza del parassita la rende estremamente passiva e suggestionabile. L'aggressore ne approfitta per manipolarla in modo da farsi intestare tutti i suoi beni, dopodiché la abbandona così com'è. A questo punto entra in scena un personaggio enigmatico ma fondamentale, chiamato nei titoli di coda "The Sampler", il Campionatore (perché lo vediamo andare in giro a registrare e campionare suoni ambientali per farne poi della musica sperimentale... ma forse non solo per questo). Il Campionatore richiama a sé Kris (sempre con l'uso di particolari suoni) e poi esegue un'operazione di estrazione del parassita, trasferendolo nel corpo di un maiale, che alleva insieme ad altri in una fattoria isolata. La ragazza rientra poi a casa sua, frastornata e ignara di quanto successo, e gradualmente riprende contatto con la sua vita dopo alcune settimane di assenza, scoprendo che qualcosa non va. In seguito conosce Jeff (ecco Shane Carruth), e i due sembrano da subito avere un'affinità inspiegabile. Frequentandosi e condividendo esperienze e ricordi, arrivano a capire che c'è qualcosa che li accomuna: entrambi sono stati vittima del complesso furto eseguito tramite il parassita, ma non è solo questo: la connessione è più profonda, perché i loro "corrispondenti suini" sono a loro volta in contatto. Il collegamento tra uomini e maiali è chiaro ma indefinibile, si manifesta con il passaggio di sensazioni da un'estremità all'altra ma senza una vera presa di coscienza, e ha la sua massima espressioni quando la scrofa-Kris rimane incinta e viene poi privata dei suoi piccoli, prelevati dal Campionatore e gettati nel fiume. In una sequenza successiva apprenderemo che dai corpi in decomposizione dei cuccioli scaturiscono delle spore (scusate la pubblicità occulta) che vengono assorbite attraverso le radici da alcune piante, i cui fiori diventano blu e vengono appositamente raccolti, ed è da questi fiori che si trovano i piccoli bachi usati dal ladro per parassitare le sue vittime: il cerchio si completa, un ciclo vitale composto da più soggetti umani e non: il fiore - il parassita - il ladro - la vittima - il Campionatore - il maiale - le spore - il fiore, e così via. Questo ciclo verrà spezzato proprio da Kris, quando insieme a Jeff inizia a mettere a posto i pezzi di quanto è accaduto, e va in cerca dei suoni composti dal Campionatore, trovando proprio nella sua musica il collegamento mancante per raggiungere la fattoria in cui sono tenuti i maiali.


Dicevo prima che questo film ha molto da dire, ma lo fa senza usare parole. Chiaramente i personaggi parlano, ma i dialoghi sono una parte marginale del film, decisamente inferiori rispetto alle sole immagini e ai suoni. Questo è in effetti un film in cui la componente audio riveste un ruolo centrale, ed è uno degli aspetti che più mi ha colpito, poiché nel cinema è difficile che il suono sia sfruttato in modo completo (anche quando vengono prodotte eccellenti colonne sonore), e pure in questo caso il merito va a Carruth stesso, che ha composto anche la musica che accompagna il film (e di conseguenza anche le campionature). Non a caso il personaggio chiave dell'intera vicenda è proprio questo Campionatore, che passa le sue giornate tra registrare e riarrangiare suoni naturali e allevare i maiali parassitati. In effetti il ruolo del Campionatore non è del tutto chiaro, e non si capisce se la sua parte nel ciclo vitale parassita-fiore sia volontario o incidentale: è indubbiamente lui a permettere al ladro di acquisire i vermi, ma non sappiamo se ne è al corrente. Personalmente ritengo di no, ma la questione può essere interpretata. È anche da segnalare che le altre persone associate ai maiali sono chiamate nei titoli di code "The Sampled", i campionati: un indizio del fatto che il Campionatore non archivia e manovra solo i suoni, ma forse, volontariamente o meno, quelle stesse persone di cui racchiude una parte di coscienza all'interno dei suini. Non sappiamo perché lo faccia, ma è evidente che sa quello che sta facendo.

Ma qual è il senso di Upstream Color? Certo è già interessante il meccanismo del parassita, ed è notevole il dramma delle vittime del ladro, ma il film è troppo intelligente per fermarsi a questo livello superficiale degli eventi. Non è quello che succede a definire il significato dell'opera (e per questo mi preoccupavo relativamente di spoilerarlo), ma come lo spettatore percepisce questa serie di immagini, suoni. Come il verme che collega uomini e maiali in un modo profondo ma intangibile, anche il legame tra l'autore e lo spettatore è labile ma tangibile. C'è un messaggio che viene veicolato, a un livello più basso di quello verbale, quasi suggerito. La mia idea (sicuramente opinabile) è che il film cerchi di affrontare il concetto di identità, la definizione di sé: chi sono i protagonisti, chi sono davvero, nel momento in cui seguono le istruzioni di un ladro mediate da un verme? E quando avvertono le sensazioni di un maiale con il quale condividono un parassita? Il sottile entanglement che esiste tra Campionatore e Campionato, tramite un animale da allevamento in che modo influisce sulle loro vite? C'è una scena che in questo senso ritengo fondamentale, a circa due terzi del film: durante le loro uscite, Kris e Jeff si raccontano storie della loro infanzia, e queste si mescolano, si sovrappongono, al punto che quando uno racconta l'altro afferma che sta raccontando un suo aneddoto, che quella storia appartiene al suo passato e non a quello del compagno. Ecco allora, se il legame tra i due, subdolo e incomprensbile quanto può essere, porta le loro vite a sovrapporsi, che cosa rimane a distinguerli?


Non posso essere sicuro che questo sia davvero quanto Shane Carruth volesse trasmettere. Upstream Color è volutamente (e palesemente) un film aperto a interpretazioni, una storia che non ha un unico punto di vista, e che grazie all'utilizzo di un linguaggio non verbale può facilmente prestarsi a diversi approcci. È probabile che ci siano molti aspetti che non sono stato in grado di cogliere, perché già la seconda visione mi ha aiutato molto a mettere insieme i pezzi. In ogni caso, è sicuro che il film riesce a coinvolgere lo spettatore in modo profondo e trasmettere un messaggio (quale che sia) che raramente giunge così forte nel cinema contemporaneo.

Coppi Night 16/11/14 - Paura nella città dei morti viventi

Ho già espresso in altre occasioni la mia avversione ai film horror, soprattutto quelli contemporanei basati essenzialmente su jumpscares e con plot che non rispetta alcuna coerenza interna. C'è però un particolare sottogenere di horror che, anche se non conosco bene, mi appassiona molto di più: l'horror-trash italiano, che non so nemmeno se ha una sua classificazione particolare ma la meriterebbe. Per capirsi, leggete cosa scrivvo di Troll 2.

Paura nella città dei morti viventi è un film di Lucio Fulci, nome già di spicco del settore, e forse uno dei maggiori registi italiani in termini assoluti (non lo so, non conosco il cinema italiano, ma penso che sia abbastanza quotato). A volerla fare breve, è una storia di zombie ambientata nella cittadina di Dunwich, che inizia quando il sacerdote locale si impicca spalancando con questo suo gesto le porte dell'inferno e permettendo ai morti di ritornare a camminare e cacciare i vivi. Per scongiurare l'apocalisse intervengono una giovane medium e un giornalista che la accompagna (dopo averla salvata da un seppellimento accidentale), che si uniranno ad alcuni eroi locali tra cui l'immancabile bambino innocente.

Come sempre in questi casi, messa così la trama non sembra niente di assurdo, o almeno niente che non si sia già visto nell'ambito del cinema horror. Ma è lo svolgimento del film a fare la differenza: ecco quindi spuntare da ogni direzione decine di personaggi di cui ci vengono raccontate le imprese quando non ce ne frega nulla, scene di violenza scollegate dagli attacchi degli zombie (il padre che trapana la testa al fidanzatino della figlia), morti improvvise e inutili dei personaggi che sembravano protagonisti fino a un minuto prima, completa assenza di logicità negli eventi soprannaturali mostrati (non si capisce se i morti viventi siano eterei, visto che appaiono e scompaiono all'improvviso, alcuni sembrano avere dei poteri e altri attaccano fisicamente, alcuni sono decomposti altri no, e infine il prete-zombie ammazzato semplicemente trafiggendolo con un palo, un sistema decisamente anticlimatico per chiudere le porte degli inferi). Così tutto si perde in un miscuglio indefinibile di volti, eventi, discorsi... e vermi.

Sì, perché ci sono in effetti due elementi portanti che reggono tutto il film: vermi e scimmie. I vermi (termine generico in cui includo animali diversi, sia lombrichi che larve di insetti) ricorrono in decine di scene, la più eclatante quella in cui i (presunti) protagonisti sono in casa e le finestre si spalancano per investirli con un'autentica tempesta di bigattini, con quintali di bachi da sego (vivi, presumo) che ricoprono il pavimento, e c'è da chiedersi che bel lavorino sia toccato a chi ha dovuto ripulire il set. Le scimmie sono le creature invisibili che emettono urli immani nella notte di Dunwich, versi striduli che di solito si sentono solo nelle foreste pluviali, e così penetranti che riescono a creare autentico disagio nello spettatore (forse sono in effetti l'antesignano dei moderni jumpscares).

Insomma, anche in questo caso un film che nonostante la manifesta insensatezza riesce a mantenere vivo l'interesse, proprio perché è impossibile orientarsi e anticipare cosa può succedere, e ogni scena nasconde potenzialmente una carica comica devastante. Le scene splatter, peraltro, non sono realizzate nemmeno tanto male. E se lo guardate, non chiedetevi cosa significa quell'urlo finale sull'immagine del bambino, la risposta è semplicemente niente, ho dovuto cercarlo sui forum dedicati per crederci.

Apparat - Krieg und Frieden

Mentre a casa nostra Romina Power tira fuori una canzone contro le scie chimiche* e i tg dedicano 10 minuti ognuno al nuovo album di Vasco Rossi (ma non si era ritirato?), nel resto del mondo gli interpreti della musica elettronica nelle sue varie forme vengono trattati con un certo rispetto, e c'è anche chi pensa di affidare a loro la stesura di composizioni di notevole spessore culturale. Per citarne un paio al volo, è il caso di Jeff Mills con la sua opera musical-visiva-teatrale Chronicles of Possible Worlds, o Ellen Allien che scrive LISm come accompagnamento di uno spettacolo di danza del Centre Pompidou, o Paul e Fritz Kalkbrenner che realizzano la colonna sonora del film Global Player. Ed è anche il caso di Apparat, il cui talento è stato richiesto per curare la parte musicale di una rappresentazione di Guerra e pace. Ne è risultato questo Krieg und Frieden, che in seguito è stato raccolto e pubblicato sull'etichetta Mute.

Se fin dall'inizio della sua carriera, Sascha Ring aka Apparat ha dimostrato di saper unire con cognizione le strutture tipiche dell'elettronica con sonorità e atmosfere classiche, qui il gioco è praticamente ribaltato: si tratta di "musica vera", nella quale si possono però scorgere le influenze della formazione EDM dell'autore. Già nel suo ultimo album prima di questo, The Devil's Walk, si esprimeva  la necessità di superare gli schemi ricorrenti dell'elettronica, con un focus più accentuato su ambience e quella cosa indefinibile che alcuni chiamano leftfield. In Krieg und Frieden il percorso si completa, e ci troviamo ad ascoltare qualcosa che difficilme può essere racchiuso in una o due etichette specifiche.

Certo per valutare al meglio l'opera bisognerebbe vederla eseguita per lo scopo originale, ovvero come colonna sonora di questa interpretazione di Guerra e pace, ma anche ascoltandola a sé la qualità e la forza dell'ispirazione sono evidenti. Si riesce a percepire, in quei distanti suoni distorti (come in Tod o Blank Page), l'intenzione dell'autore, il suo tentativo di mostrare un'epoca tormentata e instabile. Le poche lyrics (alcune cantate da Ring stesso) accentuano questo senso di straniamento e malinconia, così come i lenti crescendo che si compiono poi nel breve finale (PV) mantengono l'ascoltatore sempre in bilico, sull'orlo di una tensione inespressa. Forse il pezzo più "facile" è l'ultimo, A Violent Sky, in cui sembra infine riaccendersi una scintilla di serenità, anche grazie al ritorno a schemi musicali familiari.

Forse nel momento in cui si passa a parlare di musica da orchestra non sono probabilmente il commentatore più competente, visto che non ho una formazione musicale ufficiale (escludiamo il flauto che suonavo alle medie) né seguo abitualmente questo genere. Tuttavia quando un dj sfrutta le sue capacità per creare qualcosa di diverso dal solito mi lascio sedurre, e devo ammettere che in questo caso Apparat ha centrato l'obiettivo (non che mi aspettassi diversamente). Credo che dischi come questi siano la dimostrazione di come la musica elettronica sia molto più vicina di quanto si creda comunemente a quella classica, nel senso in cui entrambe partono da una maggiore attenzione a quella che è la struttura (armonica, matematica) della composizione e dei singoli suoni. Forse non è un collegamento così immediato, ma personalmente mi accorgo spesso di come il confine tra questi due apparenti estremi sia in realtà molto sottile. E anche qualcun altro l'ha capito, certo non qui da noi, ma nel resto del mondo.




*Non l'ho ascoltata, ne ho solo sentito parlare, quindi non so se è effettivamente così, ma comunque stiano le cose, è ridicolo e basta.

Coppi Night 09/11/14 - Ichi the Killer

I miei limiti li ammetto. Probabilmente la mia formazione è troppo superficiale, o io sono troppo provinciale, per riuscire ad apprezzare il cinema asiatico. Mi è capitato di vedere qualche film coreano o giapponese, e pure qualcosa d'animazione in stile Miyazaki, però, devo ammettere, non è che ne sia mai rimasto tanto impressionato. La mia sensibilità è troppo lontana, presumo, da quella richiesta per apprezzare questo tipo di opere. Il mio giudizio quindi è da prendere con cautela, e probabilmente è sottostimato rispetto a quanto il film meriterebbe davvero.

Certo è che Ichi the Killer non si può prendere completamente sul serio. Cioè, lo so che la società giapponese sguazza in questo genere di eccessi ed esasperazioni, soprattutto a livello visivo, però dai, non riesco a credere che questo film voglia essere drammatico. Ci sono alcune scene forti, ma inserite all'interno di un contesto talmente macchiettistico che è difficile farsi impressionare davvero. Se poi si vuole esaminare anche la storia, ci sono un sacco di cose che stridono, ma non nel senso di errori o plot hole, semplicemente vicende difficili da collocare e interpretare, personaggi che non si riesce a comprendere (e in certi casi nemmeno a riconoscere, discorsi razzisti "sti cinesi son tutti uguali" a parte), sottotrame senza sbocco e così via. Anche qui però so che in buona parte si tratta di un diverso modo di "fare cinema", forse non facile da assimilare per chi è abituato ad altro, quindi alzo le mani.

Premesso tutto ciò, penso che non si possa definire un film noioso, anche se certe parti intermedie forse scorrono troppo lentamente (o meglio ancora, avrebbero potuto essere tolte, ma qui si rientra nel discorso della diversa concezione di cinema ecc ecc...). La dose di violenza estrema, anche abbastanza esplicita, e le fontanelle di sangue riescono a tenere viva l'attenzione, e visto che non la trama in sé non è l'elemento principale sono proprio queste sequenze a costituire la parte più interessante e memorabile. Perché se dovessi fare un riassunto della storia mi troverei in effetti in difficoltà, ma se devo invece riportare la scena in cui lo psicopatico (cioè, uno degli psicopatici) si taglia la lingua la ricordo bene. E non so se questo sia un indizio di qualità o meno, se fosse nelle intenzioni o no. Quindi, ammetto i miei limiti e dico che questo film, se lo volete guardare, boh, fate pure, poi però non mi venite a chiedere niente a me, ok?

Coming soon: Retcon

Oggi è il mio compleanno. Esatto, non date retta a facebook, non era due giorni fa come ho volutamente indicato in modo errato, ma oggi. Un anno fa annunciavo l'uscita di Spore, il mio primo "libro vero", una raccolta di miei racconti (alcuni inediti, altri no) che costituiva anche l'esordio alle stampe per la Factory Editoriale I Sognatori. La storia di Spore non si è conclusa, e anzi presto ne sentirete ancora parlare, ma in questo post voglio parlare di altro.

Vi siete chiesti che cosa ho fatto, in quest'ultimo anno? Non penserete mica che siccome ho una pubblicazione a mio nome me ne sono rimasto buono ad aspettare la gloria e il ca$h? Eh no, ho continuato a lavorare, e lavora lavora sono arrivato a poter annunciare, oggi, che presto il mio primo romanzo sarà pubblicato!

Ho già accennato in passato a Retcon (questo è il working title, probabilmente sarà cambiato), e l'opera era già arrivata in finale al premio della Mezzotints... che poi ha chiuso. Copione già visto, peraltro, come quando sono stato eletto Scrittore dell'anno da Edizioni XII, con la possibilità di proporre un mio lavoro per la pubblicazione... salvo poi la chiusura di XII dieci mesi dopo. Ma stavolta pare che ce la possiamo fare. Non ci sono ancora date certe, ma indicativamente nei primi mesi dell'anno, Retcon (o comunque si chiamerà) sarà stampato!

Per il momento non posso fornire dettagli più precisi e non posso rivelare qual è l'editore che si è interessato all'opera e lo pubblicherà, ma posso dire che si tratta di un editore di rilievo nell'attuale panorama della fantascienza, forse non estremamente prolifico ma con standard di qualità molto alti (sia per i testi scelti che per la cura dei libri), e una buona distribuzione nelle librerie. Ma non chiedetemi altro a questo proposito, non risponderò.

Posso dirvi invece qualcosa di più sul romanzo, di cui ho appena consegnato la revisione e che adesso è quindi in fase di rilettura per gli ultimi aggiustamenti. Retcon è una storia che si sviluppa su più fronti, tra loro collegati, e tratta di temi diversi ma anch'essi interdipendenti: l'esplorazione spaziale (ma non quella convenzionale), i sogni, gli universi alternativi (cioè, non proprio, ma mettiamola in questi termini), il potere creativo/distruttivo dell'intelligenza, e altre quisquilie tipo l'origine del cosmo, la superstoria dell'universo, la definizione di realtà e così via. Sicuramente sono di parte, ma credo che in Retcon ci siano molti spunti interessanti, e se me lo permettete, credo che possa essere una lettura in grado se non di sconvolgere, almeno di alterare la prospettiva con cui solitamente concepiamo il mondo. Ma non voglio sbrodolarmi addosso, saranno i lettori a giudicare, quindi la pianto qui...

A presto quindi con gli aggiornamenti, passate di qui ogni tanto per apprendere tutte le novità. Mi sarebbe piaciuto mettervi la copertina, ma come immaginerete non è ancora pronta, quindi inserisco un'immagine random. Beh, oddio, forsi così random non è...

Doctor Who 8x12 (season finale) - Death in Heaven

La settimana scorsa mi pronunciavo in termini molto positivi sulla prima parte del finale di stagione, e avevo aspettative abbastanza alte per quello che si sarebbe visto nella parte conclusiva. Purtroppo, il climax abilmente costruito in Dark Water si è sgonfiato ignobilmente nell'ultimo episodio, lasciandoci con l'amaro in bocca per un season finale piuttosto fiacco (forse il più moscio di tutte le stagioni moderne?).

Riprendiamo da dove eravamo rimasti: la rivelazione che ad architettare il complesso piano della Netherpshere convogliata nei Cybermen era il Master, e che quind il confronto finale sarebbe stato non solo con l'orda di cyborg ma anche con l'arcinemico storico del Dottore. Subito dopo l'uscita dei Cyberman, Dottore e Missy vengono fermati dalle forze dell'UNIT, che già stavano tenendo d'occhio la faccenda, ed entrambi vengono sedati e messi in sicurezza. Il Dottore viene inaspettatamente insignito del titolo di Presidente del Mondo, con l'autorità di disporre come meglio crede di tutte le forze armate del pianeta. Nel frattempo le "anime" della Nethersphere piovono letteralmente sui cimiteri di tutto il mondo, e assistiamo a una cyberzombie apocalypse, con i morti convertiti in Cybermen che escono dalle tombe e dagli obitori. Tra questi c'è anche Danny Pink, che però non ha ancora inibito le sue emozioni e si muove giusto in tempo per salvare Clara, che stava per essere sgamata nella sua pantomima di fingersi il Dottore. Ovviamente il Master riesce a liberarsi e fa precipitare l'Air Force One (o il suo equivalente), cosicché il Dottore ha l'occasione di recarsi proprio da Clara, che chiede il suo intervento per salvare/condannare Danny. Ovviamente anche Missy si ripresenta, e qui conclude il suo piano, consegnando al Dottore il controllo dell'esercito di Cyberzombie. Il Dottore è combattuto, ma alla fine tutto si risolve (più o meno) per il meglio. C'è però qualcosa che non va, e se si sommano tutte le storture ne esce un risultato molto incerto.

Si potrebbe partire dall'idea che basti "contagiare" dei cadaveri (a qualunque stato di decomposizione) perché si trasformino in Cybermen in pochi minuti, senza capire come riescano a produrre la fusoliera metallica e i complicati meccanismi di cui sono costituiti. È altamente improbabile, anche per uno show come Doctor Who che non ricerca sempre la coerenza, ma purtroppo non è il problema maggiore. Ciò che mi ha deluso più di tutto è stato come il Master (pur nella versione femminile) è stato trattato in questa puntata. È vero che il suo piano diabolico si compie, e l'interpretazione di Michelle Gomez è efficace (riprende molto il Master moderno di John Simm), ma il suo ruolo risulta quasi secondario. Avevo detto che mi sarebbe piaciuto avere un po' di backstory relativa al suo ritorno, ma non abbiamo saputo nulla, e quel che è peggio, alla fine viene ucciso (WTF!?). Va bene che la morte, soprattutto per un personaggio del genere, non è definitiva, ma il modo in cui viene levato di mezzo non ha niente di drammatico o improvviso, così come la reazione del Dottore è praticamente assente. Certo, Capaldi è un Dottore diverso da Tennant, ma appena dopo la polverizzazione di Missy sembra dimenticarsi del suo vecchio compagno/avversario.

Il che porta a un altro problema: e cioè che il Dottore è essenzialmente passivo in questo finale. Solitamente è lui a risolvere la situazione, mettendo in campo le sue abilità e la sue soluzioni geniali, ma qui invece, non fa praticamente nulla. Si limita a essere sballottato in qua e in là, rispondere alle provocazioni di Missy, e infine lascia la soluzione nelle mani di Pink, che di fatto ricopre il ruolo dell'eroe al posto suo. Questo non è un male assoluto, a volte il Dottore può non essere l'elemento determinante e il sacrificio di altri ricorre spesso, ma qui stiamo parlando di un season finale, lui deve essere il protagonista!

Altra cosa fastidiosa poi, più a livello di narrazione che della trama in sé, è il modo in cui Moffat ha voluto ingannare gli spettatori facendo credere che Clara potesse in effetti essere il Dottore. Io non ci avevo creduto davvero, ma è fastidioso introdurre un'affermazione del genere sapendo che si tratta solo di un inganno, e subito dopo mostrare la sigla con il nome della companion prima di quello del Dottore, e il suo volto sullo sfondo. La sigla è un elemento metatestuale, parla direttamente allo spettatore dall'esterno dell'universo narrativo, quindi cambiarla per dare credibilità a una menzogna costituisce un'autentica presa per il culo. Lo spettatore si può fuorviare, certo, ma dall'interno della storia, non attraverso componenti che attraversano il quarto muro. Così non si fa, a maggior ragione se l'inganno dura dieci minuti, giusto il tempo di creare un cold opening d'effetto.

Alcune cose mi sono piaciute, ad esempio il fatto che il piano di Missy/Master consistesse nel creare un esercito agli ordini del Dottore, cosa che dà un senso alla tematica del soldato/ufficiale che ricorre fin dall'inizio della stagione; il cameo del Brigadiere in versione Cyberman è stato forse il momento migliore (non fosse per il fatto che ha disintegrato il Master, cosa che rientra nel personaggio ma è stata trattata troppo superficialmente); e anche l'epilogo in cui Dottore e Clara si mentono a vicenda a sua volta non è male. Mi pare di capire che Clara chiude qui la sua parte, e forse è meglio così, perché la coppia sembra non sia riuscita a trovare un equilibrio stabile.

Attendiamo quindi lo special di Natale, con la speranza che la presenza di Nick Frost (curioso che parlassi di lui proprio nel post precedente, vale anche la pena ricordare che il suo solito compagno Simon Pegg è già apparso nella prima stagione del nuovo DW) nel ruolo di Babbo Natale possa ripulire il terreno e fare spazio per qualcosa di nuovo e più degno del personaggio. Per quello che mi riguarda, questo doppio finale, nonostante una prima parte intrigante, a conti fatti non può meritarsi più di un voto 4.5/10.

Coppi Night 02/11/2014 - Paul

Ho già affermato in passato di gradire i film interpretati dalla coppia Simon Pegg/Nick Frost: ho ritenuto La fine del mondo un film eccezionale, e anche gli altri due della Trilogia del Cornetto non sono male. In questo caso però la coppia non è diretta da Edgar Wright (che per dire, ha tirato fuori anche Scott Pilgrim vs The World), quindi non ci si può aspettare la stessa combo vincente degli altri film, tuttavia anche il risultato finale non è nemmeno malaccio.

In Paul seguiamo l'avventura di due nerd autodichiarati (il film inizia con i due che vanno alla Comiccon di San Diego, basta questo a inquadrarli) e appassionati di ufologia, che si trovano ad accompagnare proprio un extraterrestre, il Paul del titolo, che sta fuggendo dagli agenti governativi che hanno intenzione di catturarlo e smembrarlo. Il particolare di rilievo è che Paul, pur essendo il esteticamente tipico Grigio a cui siamo abituati, si comporta diversamente da come ci si aspetterebbe da un alieno proveniente da una civilità capace di viaggio interstellare: è chiassoso, volgare, beve, fuma, e di certo non ha nessun interesse a porsi come maestro degli ingenui umani con cui entra in contatto. Molto diverso quindi dall'immagine classica che viene di solito veicolata degli alieni, più simile al Roger di American Dad che agli illuminati visitatori di Incontri ravvicinati.

Il film procede quindi sui binari della commedia, con i classici equivochi e situazioni paradossali, più una buona dose di battute su sesso e funzioni corporali (molto simili tra Umani e Grigi). Ben presto la storia si trasforma in una lunga carovana di inseguimenti, fino a quando tutti i personaggi (principali e secondari) si riuniscono nel finale. Nessuna trovata particolarmente originale, ma l'insieme funziona abbastanza bene, soprattutto se si è in grado di notare le decine di riferimenti ai classici della fantascienza, e in questo senso il film si rivolge probabilmente a un pubblico simile ai propri protagonisti. La cultura nerd, anche se ovviamente irrisa un paio di volte (l'occasione era troppo ghiotta), ne esce alla fine dei conti valorizzata, e sicuramente fa una figura migliore della religione, alla quale Paul si oppone con una certa insistenza.

Ne risulta comunque una visione gradevole, 90 minuti standard di intrattenimento un po' sopra le righe, con una commedia che non rivanga come al solito tra gruppi di amici e matrimoni.

Rapporto letture - Ottobre 2014

Mesata di letture altalenanti, questa. Roba interessante e roba che mi ha fatto penare... si capirà presto perché. Sovverto l'ordine delle letture, lasciando per ultimo quello che mi richiederà più tempo e pazienza per poter essere esaminato. Inoltre, prima di questi avrei letto anche un racconto di George R.R. Martin, scaricato gratuitamente tempo fa, di cui però non ricordo il titolo e che comunque ha influio poco sul resto.


Più riguardo a 12 InframondiIniziamo quindi da questo 12 Inframondi, che corrisponde alla seconda parte dello Year's Best SF 14 curato da David Hartwell e Kathryn Cramer, che raccoglie i migliori racconti pubblicati nel corso del 2012. In questo volume ci sono diversi lavori interessanti, tra i quali Alistair Reynolds, Ted Kosmatka, Ann Halam e Karl Schroeder/Tobias Buckell. I temi al solito sono variegati e rappresentano in modo efficace la produzione attuale (o da poco trascorsa) del panorama sf internazionale. L'unica pecca è che mi sarei aspettato di meglio dal breve racconto di Daryl Gregory, che finora mi aveva sempre notevolmente colpito. Voto: 8/10



Metto per secondo (anche se l'ho letto per ultimo) un'altra antologia, questa volta si tratta di Le 10 variazioni, un ebook gratuito rilasciato dalla Factory Editoriale I Sognatori (se non sapete di che si tratta, facevo qualche giorno fa un riassunto). La Factory ha chiesto al suo gruppo di autori di scrivere un breve racconto a partire da un incipit determinato. Sono state poi scelte 10 storie, che forniscono un'ampia panoramica di generi, temi e stili. Gli autori presenti sono in parte già stati pubblicati (sia dalla Factory che altrove) sia inediti. Forse non tutti i racconti erano propriamente nelle mie corde, perché si sa che io ho un notevole starting bias, tuttavia la raccolta nel suo complesso è di sicuro interesse. Considerando che si partiva da un pugile orbo e una ragazzina che lo sta cercando, non era facile prendere strade tanto diverse. Dal thriller alla fantascienza, dal grottesco al surreale, tutte le declinazioni hanno un loro valore e si bilanciano bene con le altre. Una buona raccolta che dovrebbe accontentare tutti i tipi di lettore, soprattutto quelli tirchi visto che è gratis... e in ogni caso un ottimo biglietto di presentazione della Factory. Voto: 7/10


Più riguardo a Infezione genomicaE così si arriva alle note dolenti. Il libro che mi ha fatto soffrite tanto il mese scorso è stato Infezione Genomica, Premio Odissea 2010 scritto da Giovanni Burgio. Voglio premettere fin da subito che se mi seguite sapete che non sono uno di quelli che gode a leggere delle schifezze per poi recensirle parlandone male, anzi, la media delle mie valutazioni è sicuramente sopra la sufficienza, raramente grido al capolavoro ma anche i voti negativi sono rari. Però se mi trovo effettivamente a leggere qualcosa di brutto, contro tutte le mie aspettative, non posso nemmeno fare finta di nulla. Ecco, la parola "brutto" credo che si adatti bene al libro in oggetto, perchè al di là della trama e dello svolgimento, è anche la forma, dalla struttura fino al livello ortografico/grammaticale, a essere superficiale e poco (per nulla) curata. L'abbondanza di refusi e sconcertante, ma non ci si limita a questi: ci sono errori impressionanti come "in cinta" e "hai c'entrato il punto", ci sono nomi che cambiano da una frase all'altra, dialoghi che saltano battute, e in generale una sciatteria davvero fastidiosa. Non mi metto a fare esempi citando pagina per pagina, ma mi sono fatto gli angolini, per quando verrà fuori chi dice "eh dai, esageri, non sarà così terribile", ma invece lo è proprio, quindi non mi sfidate. Questo già di per sé rende faticosa la lettura, ma il tutto si somma a una storia che in effetti ha un appeal davvero molto ridotto: c'è un'idea alla base di tutto, abbastanza interessante, peccato che lo sviluppo della trama non serva a esplorare l'idea stessa, che solo nella parte finale, composta da ritagli di giornale e un diario ritrovato da un personaggio secondario, emerge nel suo potenziale, quando ormai è troppo tardi. Lo svolgimento poi è approssimativo, con personaggi che si alternano ma su piani temporali che non coincidono, i due filoni principali della storia (uno in Italia e uno in Germania) non si collegano mai, e quelli che dovrebbero passare per i cattivi vengono sistemati per una ragione che non c'entra niente con le loro colpe reali. La mia impression è questo libro sia stato scritto e mai riletto, né dall'autore, né dalla giuria che lo ha voluto premiare (!!!), né dall'editor prima che andasse in stampa, perché non è possibile che io a una prima occhiata noto tutte queste cose e nessuno prima di me ne sia stato capace. Anche senza voler discutere i motivi che hanno portato all'assegnazione di uno dei maggiori premi di genere italiani (ho già fatto in passato un'analisi del genere e non mi voglio ripetere sennò sembra che rosico), credo sia oggettivo che questo libro è il prodotto di una pubblicazione frettolosa e poco curata. A mio avviso anche la scrittura non è stata fatta con criterio, perché molte volte sembra che l'autore sia andato avanti aggiungendo paragrafi ed eventi senza una scaletta precisa, seguendo quello che gli veniva in mente al momento. Ci sono un paio di esempi eclatanti, in cui durante un dialogo (buona parte del libro è composta di dialoghi) un personaggio saluta l'altro, poi questo gli dice delle altre cose, poi l'altro saluta di nuovo, questo continua, lui saluta, e così via, per almeno quattro volte. Ma non è solo questo, i problemi sono davvero tanti e purtroppo non c'è un singolo aspetto che possa salvare l'opera nel complesso, tanto meno l'oggetto-libro. Mi limito a questo, anzi, ho già scritto troppo, e come sempre (specialmente in questi ambienti) quando parli male di una cosa ti devi aspettare ritorsioni da ogni direzione, ma come lettore mi sono sentito francamente disprezzato, quindi non potevo scrollare le spalle e buttare giù. Voto: 3/10

Doctor Who 8x11 - Dark Water

Attenzione: spoiler pesanti a seguire. È evidente che qualunque recensione contiene spoiler, ma in questo caso le rivelazioni non si riferiscono solo all'episodio in questione ma anche a tutto l'arco narrativo seguito dalla stagione, e la risposta alle due domande che aspettavano una risposta fin dal primo episodio: chi è Missy, e cosa è il "paradiso" di cui è a capo? Quindi se non l'avete ancora visto, torante più tardi.


Partiamo col dire che per essere la prima parte del season finale credo che riesca a far crescere bene la tensione, montandola su più fronti paralleli. Si parte con la morte accidentale (forse anche un po' ridicola) di Danny Pink, che basta a far esplodere in Clara tutto il risentimento accumulato ultimamente nei confronti del Dottore. Arriva al punto di mettere in atto un ricatto e letteralmente tradirlo, ma per quanto possa essere impossibile, la ragazza rimane comunque un passo indietro rispetto al Time Lord. Quindi ok, Danny è morto: andiamo a riprenderlo!

L'idea è stimolante, se si considera che il viaggio nell'aldilà è un topos della narrativa epica, e qui l'epicità è quello che si cerca. Chiaramente questa "Terra Promessa" non è un vero e proprio regno ultraterreno, ma qualcosa di concezione fantascientifica, una megasimulazione in cui le personalità (anime?) dei defunti vengono implementate. Si fa riferimento al fatto che i morti rimangono coscienti, e incapaci di comunicare implorano di non essere cremati, ma non ho ben capito se questo è effettivamente vero o solo un altro inganno concepito da Missy per tenerli buoni. Anche perché mi pare che alcuni dei morti che abbiamo visto arrivare nella Nethersphere erano stati effettivamente disintegrati in modo completo (come il soldato all'interno del Dalek distrutto dai suoi anticorpi).

L'obiettivo ultimo di questa operazione è acquisire le coscienze, epurarle di emozioni e amennicoli vari, e impiantarle all'interno delle corazze metalliche dei Cybermen. Un piano quantomai contorto ma forse meno sanguinoso dell'upgrade fisico solitamente operato da questi cyborg, che può essere condotto quindi senza destare troppo clamore: un'infiltrazione subdola perfettamente nelle corde con il suo artefice (ci arriviamo tra un minuto). Ne risulta quindi che il nemico finale della stagione, o almeno il suo braccio armato, è costituito proprio dai Cybermen, che, boh, non mi entusiasma poi tanto. I Cybermen a mio avviso hanno smesso di essere spaventosi molto tempo fa, e nella nuova serie non hanno mai rappresentato una minaccia seria. È vero che l'ultimo redesign operato alla fine della stagione 7 (Nightmare in Silver) li ha resi più essenziali e inquietanti (peraltro mi pare che il logo della 3W sia una riproduzione dell'occhio di un Cyberman), ma da qui a dire che siano un villain degno da finale di stagione ce ne passa. Non è forse un caso che la scena in cui i cyborg iniziano a riversarsi sulle strade riprende molto esplicitamente quella dell'episodio The Invasion, in cui era il Secondo Dottore ad affrontarli.

Fortunatamente, a insaporire il tutto c'è Missy, aka Misstress, femminile di Master. Ed eccoci qua, finalmente abbiamo scoperto chi ha manovrato i fili di tutta la stagione (e forse anche oltre). Abbiamo anche la dimostrazione che un Time Lord può cambiare sesso durante una rigenerazione, idea che era stata ventilata ma mai confermata, e che credo aggiunga un altro particolare interessante (basta che il Dottore non diventi mai femmina, non credo sarebbe appropriato). L'ipotesi Missy = Master girava quasi dall'inizio, e l'unico ostacolo era proprio l'incognita che potesse o meno cambiare sesso. Era abbastanza sicuro che fosse un Time Lord, e le ipotesi cadevano su Rani, Susan o Romana, le uniche Time Lady conosciute. D'altra parte il Master ha usato tecniche diverse anche in passato per forzare la propria resurrezione, e in effetti dopo il confronto finale con Rassillon non lo avevamo visto morire, ma solo sparire insieme agli altri Time Lord. Mi sembra comunque più credibile questa ipotesi piuttosto che quella sorta di rito satanico con cui era tornato in vita in The End of Time. Mi piacerebbe che il prossimo episodio si aprisse con una sorta di flashback in cui viene mostrato come il Master sia sopravvissuto/fuggito e abbia acquisito un corpo femminile, per poi insediarsi a capo della Terra Promessa, ma dubito possa succedere. E chissà se sente ancora the sound of drums?

C'è un ultimo particolare che mi piace evidenziare, ed è la sottotrama dedicata proprio a Danny. Sapevamo fin dalla sua introduzione che aveva alle spalle qualche brutto segreto, e abbiamo finalmente scoperto che si tratta del suo senso di colpa per aver ucciso in un'operazione militare un ragazzino presumibilmente innocente. Non che sia mosso a compassione dal dramma del soldato che ha fatto cose terribili (tanto più che la cosa è stata portata avanti in modo piuttosto didascalico), ma l'idea che nell'aldilà, fittizio quanto si vuole, si possa incontrare e dover rispondere a coloro a cui si è fatto del male è sicuramente di forte impatto, e un motore a mio avviso efficace nel muovere le azioni di Mr. Pink.

Quindi nonostante qualche pecca, la puntata funziona come sottostrato per il climax finale. Penso che si saranno un altro paio di sviluppi interessanti (penso a Clara che nel trailer afferma di non essere mai esistita, e la scoperta del modo in cui il Master l'ha "scelta"), quindi a meno di boiate ritengo ci si possa aspettare un finale degno di una stagione in ultima analisi abbastanza cupa. Non voto perché la valutazione ha senso solo dopo la seconda parte.