Alessandro Vietti - Real Mars

Prima di passare al commento vero e proprio, è doverosa una premessa da parte mia. Quando qualche mese fa ho saputo quale sarebbe stato il secondo autore italiano pubblicato da Zona 42, mi è subito montata una vorace curiosità di leggere il suo testo. Non per spirito di competizione, per poter dire "ah, ma il mio era meglio", ma perché conoscendo la linea della casa editrice ero sicuro che avrei trovato qualcosa di stimolante. Questo perché l'idea di fondo (da me condivisa) è quella di approcciarsi alla "fantascienza italiana" senza pregiudizi, né negativi né positivi. È una storia vecchia, quella che vuole gli autori italiani incapaci di proporre testi validi di fantascienza, che però negli anni ha attecchito e ha portato in molti casi a uno svilimento delle opere stesse (da parte di editori e autori), a un accontentarsi dell'uovo di oggi perché tanto siamo italiani e la gallina domani non ci toccherà mai. Eppure di buona sf made in italy ne esiste parecchia, e forse negli ultimi tempi qualche segnale positivo sta emergendo. Ecco perché ero tanto curioso: volevo sapere che cosa avesse il romanzo di Alessandro Vietti di così particolare da poter attirare l'attenzione degli Z42, che già col mio Dimenticami Trovami Sognami hanno voluto scommettere su un testo non proprio inserito nel solco di quella che comunemente si considera "fantascienza italiana".

E Real Mars qualcosa di notevole lo ha, questo è evidente. L'idea da cui parte la storia è quasi banale nella sua semplicità: in un'epoca in cui le agenzie spaziali faticano a trovare i fondi per i loro progetti, perché non finanziare una spedizione su Marte grazie a un reality show in diretta mondiale e centinaia di sponsor? Si esita quasi a considerare questa premessa come fantascientifica, perché si tratta probabilmente di una formula che qualcuno ha già studiato e forse proporrà al mondo nel giro di qualche anno. Nasce così il Mars Channel, nove canali per oltre 20.000 ore di trasmissione e un primetime settimanale in collegamento con la Europe 1. I protagonisti del libro sono ovviamente i quattro astronauti a bordo della navicella in rotta per il Pianeta Rosso, come d'altra parte sono i protagonisti dello stesso reality (ognuno ha un canale dedicato che lo segue continuamente): il russo tutto d'un pezzo, l'italiano guascone, la francese isterica e la tedesca sellerona. Ma come la storia dei reality ci ha insegnato, l'attenzione non si limita mai ai personaggi e al presente: spuntano allora mogli, sorelle, fidanzati, ognuno pronto al suo quarto d'ora di notorietà, e un esercito di addetti, esperti, opinionisti, persone informate sui fatti, tutti ansiosi di poter dire la loro sul più grande evento mediatico della storia.

Ma non è solo questo. Perché dall'altra parte dello schermo ci siamo noi, le "persone comuni", quelle che seguono giornalmente (dietro sottoscrizione di abbonamento, beninteso) le avventure, le relazioni, ma anche le più normali operazioni quotidiane dei quattro eroi. Ed è forse questo popolo di sonosciuti a fornire la chiave di lettura più interessante del romanzo, perché è in loro che ci si riconosce, nel modo semplice in cui reagiscono alle emozioni di Real Mars, per quanto queste possano essere subdolamente indotte dagli autori del programma. Può essere soltanto una chiacchierata in autobus, ma anche una distrazione di troppo o un fucile abbassato, o può essere il mondo intero che tiene il fiato sospeso per una manciata di secondi. Viene fin troppo facile pensare che quel quinto membro dell'equipaggio profetizzato fin dal lancio della missione sia in fin dei conti lo spettatore. L'identificazione si completa quando vediamo comparire sullo schermo/pagina personaggi noti o archetipi televisivi fin troppo riconoscibili (la bella presentatrice spagnola, il monsignore indignato, la medium drag queen), oltre agli onnipresenti sponsor che fanno capolino (proprio come in tv) nel bel mezzo della narrazione.

Real Mars si muove anche sul piano metatestuale, quando arriva a parlare dei mezzi di comunicazione dall'interno di un mezzo di comunicazione che simula altri mezzi di comunicazione, e probabilmente non è un caso che la storia si concluda quando le telecamere di bordo smettono di trasmettere. C'è chiaramente un sottotesto satirico nei confronti della spettacolarizzazione e realityzazzione di ogni cosa, ma bisogna riconoscere che non si tratta di una critica pesante, non c'è nessun anatema lanciato nei confronti dei media che stanno distruggendo la nostra percezione della realtà, soltanto una serena presa di coscienza delle conseguenze di un mondo perennemente sintonizzato. Inoltre l'intero testo è pervaso di una sottile ironia, mai troppo esplicita ma sempre presente, spesso appesa a una singola parola. In questo bisogna riconoscere la notevole abilità di Vietti, che riesce a far sorridere quasi en passant, salvo poi tornare indietro a rileggere quella frase e capire che sta dicendo anche altro e di più. Ne risulta alla fine un romanzo ricco, variegato, ma di facile lettura, accessibile a chiunque, anche e soprattutto a quelli che per la fantascienza non hanno particolare interesse e forse nemmeno nozione.

Ricollegandomi alla premessa iniziale, posso quindi dire che anche questa è stata una scelta azzeccata per Zona 42, e sono sicuro che il romanzo di Alessandro Vietti riuscirà a far parlare di sé. Fossi in lui, peraltro, mi affretterei a registrarlo come format, prima che capiti nelle mani di qualcuno della Endemol®.

Coppi Night 17/04/2016 - Gods of Egypt

Quando è uscito il trailer di Gods of Egypt non ho nascosto di provare un subdolo fascino nei confronti di questo film che prometteva di mostrare gli dèi egizi che se menano forte, dato che ho sempre nutrito un certo fascino per il pantheon egizio. Vedere questi uomini-dèi in grado di assumere l'aspetto e le abilità riconducibili al loro ruolo tipo Power Rangers, mi gasava non poco. Insomma, non mi aspettavo niente di memorabile, ma un'oretta e mezzo di buone scazzottate tra sciacalli, falchi e scarabei, questo magari sì.

Ma Gods of Egypt non è questo. Gods of Egypt è la stucchevole storia di un umano qualsiasi il cui solo merito è quello di essere fortunato, e del suo tentativo di riportare in vita una damsel in distress che ha la profondità di pensiero di un cucchiaio da tè. Intorno a questa inutilità fatta coppia forzata (perché l'alchimia che dimostrano i due attori è la stessa dell'idraulico liquido che scrosta le tubature) si muovono alcune divinità, tra le quali ovviamente è Set a fare la parte del cattivo. Horus (interpretato dal Jaime Lannister di Game of Thrones) è l'eroe caduto che deve ritrovare la sua forza, che dovrà appoggiarsi all'umano perché da solo non è in grado di recuperare (in senso letterale) i pezzi di sé che gli mancano.

E poi blablabla e andiamo da una parte e dall'altra. Il film ha suscitato anche una serie di polemiche perché tutti gli dèi egizi sono interpretati da bianchi caucasici (whitewashing, lo chiamano), ma sostenere questo discorso è riconoscere a Gods of Egypt un livello di autocritica che chiaramente non è previsto. Perché se chi ha prodotto, diretto e montato questa cosa fosse stato in grado di una valutazione obiettiva, il film non sarebbe mai uscito nelle sale. Perché è davvero brutto, noioso, sconclusionato, irritante e inutile che non si riesce a capire come abbia potuto passare una serie di approvazioni a livelli successivi, dato che non stiamo parlando di un lavoro amatoriale a basso budget ma di una produzione hollywoodiana con tutti i crismi. La trama è incoerente, l'azione floscia, gli effetti speciali discutibil e i tentativi di umorismo imbarazzanti.

Non sto nemmeno a sottilizzare su come e perché i miti egizi (soprattutto quelli della lotta Osiride-Set-Iside-Horus) sono stati stravolti, perché anche i questo caso sarebbe dargli troppa fiducia. Dico solo che un paio di cose in effetti mi sono piaciute, come il piano di Set di acquisire i "pezzi" degli altri dèi (anche se poi, nonostante tutte le capacità acquisite, soccombe comunque nello scontro finale) e la cosmologia che mostra la Terra piatta, perché nelle credenze dell'epoca era effettivamente così. Tutto il resto lo cestiniamo con un grande yaaawn. Se volete una fanfiction sugli dèi egiziani, allora sempre meglio Stargate.

Unpunned Futurama Titles #4

Wow, guardando nei post precedenti di questa serie mi accorgo che il primo Unpunned risale a un anno fa. Come vola il tempo quando ci si diverte, eh? No, il fatto è che non è facilissimo imbastire nuovi post su Futurama considerando che la serie è ormai finita, quindi in assenza di aggiornamenti live sono sempre portato ad anticipare altre rubriche a questa.

Comunque, adesso il post c'è, quindi passiamo a depunnare i titoli degli episodi della quarta stagione. Come per i post precedenti, inserisco il titolo originale e tra parentesi quello italiano, offrendo un'interpretazione del secondo solo nei casi più rilevanti (cioè quando il titolo non è tradotto alla lettera o stravolto senza criterio).


Kif Gets Knocked Up a Notch (Aliena vita da alieno): l'espressione "be knocked up" è un modo un po' becero per intendere rimanere incinta. In questo caso l'espressione è combinata con "knock/kick up a notch" che significa "rendere più interessante/entusiasmante", ed è anche una delle catchphrases di Elzar.

Leela's Homeworld (Muta come un pesce): nessuna annotazione per il titolo originale, mentre quello italiano cerca di giocare sulla rivelazione che Leela è una mutante invece di un alieno, anche se l'afasia e i pesci non c'entrano nulla con l'episodio.

Love and Rocket (Amore e razzi): Love and Rockets è il nome di una band rock attiva negli anni 80, e prima di loro di un fumetto tuttora pubblicato.

Less Than Hero (Meno di eroe): gioco di parole su "less than zero", applicato ai supereroi.

A Taste of Freedom (Sapore di libertà): titolo dell'autobiografia di Peng-Ming Min, indipendentista taiwanese, da intendersi in senso letterale visto che la vicenda dell'episodio inizia a causa dell'aver mangiato la bandiera USA.

Bender Should Not Be Allowed on TV (Quelli del P.U.Z.Z.A.): citazione metatestuale visto che molti comitati dei genitori protestavano contro Futurama proprio con queste parole. Il titolo italiano tenta di vivacizzare in qualche modo il tema, con risultati discutibili.

Jurassic Bark (Cuore di cane): gioco di parole su Jurassic Park, dove "bark" si riferisce all'abbaio del cane, e l'intero titolo alla fossilizzazione dell'animale.

Crimes of the Hot (Crimini del caldo): riferimento al film Crimes of the Heart (Crimini del cuore).

Teenage Mutant Leela's Hurdles (Ritorno al presente): riferimento alle Teenage Mutant Ninja Turtles, da noi note semplicemente come Tartarughe Ninja.

The Why of Fry (Il perché di Fry): nessun riferimento specifico individuabile.

Where No Fan Has Gone Before (Così fan tutti): l'episodio è basato su Star Trek, che tra le varie frasi ricorrenti ha anche "where no man has gone before", qui sostituito dalla parola "fan", trattandosi di una battaglia tra fan dello show. In italiano si cerca il gioco di parole sempre con "fan".

The Sting (Miele amaro): riferimento al film omonimo (La stangata).

Bend Her (Lei... Bender): con "her" si fa rifermento al cambio di sesso di Bender dell'episodio.

Obsoletely Fabulous (Bender Crusoe): gioco di parole su "absolutely", che diventa "obsoletely" visto che il tema dell'episodio è l'obsolescenza dei robot.

The Farnsworth Parabox (Dossi e paradossi): il paradosso degli universi paralleli diventa para-box trattandosi di scatole. In italiano non è chiaro quali siano i dossi del titolo.

Three Hundred Big Boys (Trecento biglietotni): nessun riferimento specifico individuabile.

Spanish Fry (Nasi afrodisiaci): la "spanish fly" è un insetto tradizionalmente considerato afrodisiaco (credenza non diffusa da noi), qui è Fry ad avere la stess funzione.

The Devil's Hands Are Idle Playthings (Musica dal profondo): gioco di parole sul proverbio "le mani oziose sono gli strumenti del diavolo", qui reinterpretato (considerando il contenuto dell'episodio) come "le mani del diavolo sono strumenti musicali".



Coppi Night 10/04/2016 - Zombieland

È un periodo che gli zombie vanno alla grande. Trovare l'origine del recente successo del fenomeno non è semplicissimo e lo lascio a chi è più esperto del settore. Certo è che ormai il tema è stato affrontato più o meno in qualunque stile e declinazione, dal semplice splatter all'umoristico, dal romantico all'introspezione fino alla totale assenza di contenuti (qualcuno ha detto The Walking Dead?). Quindi non è facile continuare a proporre opere valide senza cadere nel già visto o al contrario nell'esasperazione forzata di temi marginali. In questo senso Zombieland si colloca un po' a metà tra i due approcci: non offre spunti interpretativi originali del fenomeno zombie (ci si limita a dire che così è andata), ma cerca di calare il tutto in un contesto leggero che stemperi l'usuale atmosfera tetra di questo tipo di storie. Lo aveva già fatto Shaun of the Dead qualche anno fa, con risultati eccellenti, ma questo tenta un approccio diverso, soprattutto perché la storia parte in un momento differente, non l'esplosione dell'epidemia zombie ma l'epoca successiva al crollo della civiltà a causa dei non morti.

Zombieland si svolge principalmente on the road, con il giovane protagonista (che ancora non sa che qualche anno dopo sarebbe diventato il Lex Luthor che mette Batman contro Superman) rimasto da solo con le sue ferree regole di sopravvivenza all'apocalisse zombie, che lentamente inizia a formare un nuovo gruppo intorno a se, prima con il cacciatore fuori di testa (Woody Harrelson), e poi con due sorelle, anch'esse votate alla più cinica sopravvienza, una delle quali diventa prevedibilmente l'oggetto della sua affezione.

Il film si base principalmente su una serie di gag, per lo più derivanti dal contrasto tra il ragazzo impacciato e l'uomo spregiudicato. A parte questo però la trama non sembra avere una sua solidità e una direzione precisa, tant'è che si riduce a qualche chilometro in una direzione, sosta, zombie ammazzato, partenza (a The Walking Dead fischiano le orecchie oggi). C'è il tempo per una capata a casa di Bill Murray, che interpreta se stesso in quello che è poco più di un cameo. Il climax finale si svolge nel luna park, ed è simpatico vedere la mattanza di zombie sulle giostre, ma appunto, simpatico, niente di più.

Il film comunque è gradevole, riesce a non diventare troppo melenso, soprattutto nella fase finale, anche se ci va vicino. Non brilla sotto nessun aspetto, ma in sostanza meglio di una qualunque serie tv che si protrae per stagioni e stagioni senza arrivare a nulla. E io non ho mai nominato The Walking Dead, siete voi che avete capito così.

Intervista (di commiato) a Parallàxis

Non so se vi ricordate che qualche tempo fa ho annunciato che presto (relativamente presto) avrei iniziato a pubblicare interviste su Unknown to Millions. Il proposito è ancora attivo, e sono in attesa di ricevere le risposte di due-tre personaggi, per lo più in ambito musicale, come avevo detto era mia intenzione di indirizzare la rubrica. Ma la mia idea era comunque di dedicare uno spazio a quei personaggi un po' nascosti che fanno un gran lavoro, chiaramente negli ambiti di cui mi interesso.

È per questo che tra gli altri avevo pensato di richiedere un'intervista anche a Parallàxis, la rivista di narrativa di genere che tanto mi aveva colpito a Stranimondi, al punto da propormi io stesso per la pubblicazione e ottenerla con il numero 4, uscito a fine 2015. Nel frattempo avevo già chiesto alla redazione (di cui alcuni membri ho conosciuto personalmente proprio durante il festival milanese), la disponibilità per l'intervista, che mi è stata accordata, con tutta la calma del caso (io stesso ci ho messo forse un mese per metterla insieme).

Solo che la calma non è di questo caso, perché il progetto Parallàxis era forse troppo ambizioso per questo mondo. Ho appreso così pochi giorni fa che è stata decisa la chiusura della rivista, o per lo meno la sua sospesione a tempo indeterminato. Al tempo stesso, mi è stato chiesto di pubblicare comunque l'intervista, inquadrata così come una retrospettiva del lavoro svolto, e un modo per tirare le fila e ringraziare quanti hanno seguito il progetto.

Questo comporta che alcune domande possano risultare un po' surreali, lette adesso con il senno di poi, ma non per questo meno interessanti nel delineare quest'esperienza ormai conclusa. L'intervista viene pubblicata in parallelo sul sito di Parallàxis, sempre come commiato finale. A rispondere sono, a turno, Sara dell'Oca, Giordano Bernacchini e Giorgio Majer Gatti (ognuno indipendentemente, ignorando le risposte degli altri), che hanno curato nei vari aspetti la rivista insieme a Tommaso Marzaroli e Francesco Testoni.


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La domanda di apertura forse è scontata, ma credo che in questo ambito sia inevitabile. Perché aprire una rivista di narrativa, in questo periodo di oscuramento culturale? E già che ci siamo, io sono fissato con titoli e nomi, quindi sono curioso di sapere perché avete chiamato la rivista "Parallàxis". Anche il payoff della "a twist in the mind" mi sembra molto significativo, e se lo interpreto bene rappresenta in modo efficace quello che si cerca in un certo tipo di narrativa (e non solo quella). Cosa ci potete dire in merito?
GiordanoIl nome della rivista e il payoff vengono da Francesco, che è l’ideatore di Parallàxis. Venendo alla nascita di Parallàxis, è avvenuta perché la narrativa e la letteratura accomunano tutti noi redattori e, dato l’invito di Francesco, è stato semplice incontrarci su questo progetto che, guardando al mercato editoriale di certi generi letterari, aveva l’ambizione di colmare un vuoto a certe domande, ma questo è stato un po’ meno semplice.
 
SaraProprio perché siamo in tempi cupi era necessario aprire una rivista del genere. Parallàxis è nata col l'esigenza di colmare un vuoto o meglio, come mi piace pensare, per creare dei ponti tra prospettive narrative differenti, come si può notare proprio per l'impostazione stessa della rivista.

Giorgio: Credo sia accaduto perché c’erano un’idea embrionale e degli amici di vecchia data con una qualche sensibilità per la letteratura, la fotografia e la saggistica; il resto l’ha fatto il caso. L’incontro tra Francesco e Tommaso (che è editore-redattore), è stato casuale. Da lì tutto ha iniziato a prendere una sua forma, in poco tempo ci siamo ritrovati la rivista tra le mani. I nomi sono tutti dovuti a Francesco, e sono tutti azzecati. Sul perché «Parallàxis» però rimarrà un certo alone di mistero.

Mettere insieme e dirigere una rivista, per quanto sostanzialmente aperiodica, è sicuramente un impegno non da poco, e richiede organizzazione e competenza. Nella vostra redazione c'è qualcuno che proviene da esperienze simili, e ha quindi potuto dare il suo apporto in questo senso, o vi siete dovuti "inventare" redattori? E come si svolge, a grandi linee, il lavoro dietro le quinte di Parallàxis?
GiordanoCollaborando da diversi anni con un magazine che si occupa di arte e comunicazione visiva, conoscevo già da vicino l’ambito redazionale (per quanto differente da quello di una rivista letteraria) e questo mi ha aiutato; così come mi ha aiutato aver partecipato all’editing di un volume edito da Mudima. Per il resto, per la maggior parte delle mansioni da svolgere all’interno di una redazione, però, ho dovuto testarmi e imparare, man mano che sorgevano problematiche o attività da svolgere.
 
SaraIo mi sono dovuta inventare redattrice, sotto l'impulso di Francesco (vorrei cogliere l'occasione per ringraziarlo) che mi ha spinta a entrare dietro le quinte del progetto. Il lavoro dentro Parallàxis è parecchio e si sviluppa in tempi diversi: le traduzioni richiedono un lavoro di mesi, mentre, come si sa, i social vanno seguiti quotidianamente, anche se hanno bisogno di ragionamenti alle spalle. Sotto chiusura del numero il lavoro si intensifica molto e va a coprire gran parte della giornata, questo anche per il fatto che siamo molto orientati al confronto con tutti i membri della redazione. Abbiamo sempre cercato di dividerci i compiti e di venire incontro agli impegni di ognuno, in modo da poter incastrare il tutto.

Giorgio: Ho avuto qualche esperienza editoriale pregressa, ma nulla che valga la pena di ricordare. Non avendo mai creduto negli articoli "culturali", più o meno generalisti, il mio contatto con questo tipo di cose è stato fallimentare. Tutto quello che ho fatto per Parallàxis l’ho imparato proprio facendo Parallàxis, dedicando molto tempo ai vari livelli implicati nella produzione, gestione e comunicazione di una rivista del genere.

Una cosa interessante della rivista è che vi occupate direttamente della traduzione dei testi stranieri, in alcuni casi anzi traducete da capo opere di cui esisteva già una trasposizione precedente. Perché questa scelta così radicale?
Giordano: Perché non potevamo permetterci di acquistare i diritti della traduzioni. E quest’attività, questa fatica gratuita, fa parte e ben rappresenta quello che è Parallàxis, fuori da ogni retorica, il suo venire dal basso
 
Sara: Non esistono traduzioni, e non esisteranno mai, traduzioni definitive e perfette. Cerchiamo, attraverso il nostro lavoro, di dare nuova visibilità a racconti o saggi che per vari motivi ci hanno colpiti o che riteniamo interessanti da proporre. È anche una grande occasione, per il traduttore, di entrare a stretto contatto sia col testo che con l'autore e penso che dalla lotta appassionata tra lingua d'origine e italiano siamo riusciti a offrire traduzioni non perfette, non definitive, ma sicuramente buone e affidabili.

Giorgio: Si è costretti a fare “di necessità virtù”, e qualche volta (direi quasi mai) viene fuori qualcosa di buono. Nel tempo è maturata una sensibilità particolare per il lavoro di traduzione che all’inizio era contemplata solo per gli inediti. Sara poi ci ha portato nel mondo “tetesco”, e da lì si è pensato a Kafka, che dobbiamo interamente a lei. Poi, volendo essere brutali ma sinceri, tocca dire che in giro ci sono ottime traduzioni, ma anche tante traduzioni di merda, quindi ritradurre è un po’ andare contro il taken for granted. Detto questo, è inutile ricordare che le novità non sono per forza meglio delle cose già fatte (insomma, chi vi pone l’alternativa tra passatismo e innovazione è solo uno stronzo: iniziate a lavorare e poi si vede).

Nella rivista si trovano affiancati racconti recenti, anche di autori giovanissimi, e racconti invece più datati, anche di autori che ormai sono dei "classici", penso ad esempio a Kafka e Basile. Come riuscite a far convivere queste due tendenze in apparenza antitetiche?
Giordano: Semplicemente pubblicandoli nello stesso volume, a poche pagine di distanza, partendo dal presupposto che, come noi proviamo dell’interesse, secondo differenti parametri, sia verso Kafka che verso Kraushaar, lo stesso possa accadere per un nostro lettore.

Sara: Ritorno un po' al discorso della creazione di ponti che facevo prima: per quanto mi riguarda uno degli obiettivi di Parallàxis è proprio quello di superare le eventuali barriere esistenti tra un genere e l'altro o tra un autore e l'altro. Il lettore, penso, può così godersi un'esperienza sì ricca ma imprevedibile. In molti ci hanno chiesto cosa ci facessero Kafka o Basile nella nostra rivista. È il famoso twist in the mind? 

Giorgio: La coesistenza è un problema in generale nelle nostre vite, perché grazie ai social e alla messaggistica siamo tutti "più connessi", quindi ci stiamo tutti più sul cazzo, almeno potenzialmente. Per me l’accostamento tra autori così diversi non è nient’altro che questo: una boutade che può finire bene o male, uno scherzo alla Borges. Mi vien da ridere se penso a tutte le giustificazioni teoriche che potrei utilizzare su questo tema… sarebbero anche coerenti, ed è questo il bello…

Parallàxis non contiene solo narrativa, ma anche saggistica, nelle pagine nere che chiudono ogni volume. È una scelta coraggiosa, quella di includere pubblicazioni accademiche attuali sugli argomenti più vari. Anche in questo caso, perché avete scelto questa strada insolita, e in che modo seguite e selezionate i saggi da inserire?
Giordano: L’ambizione era quella di favorire il rilancio del saggio breve attraverso l’accostamento e la contaminazione della narrativa. Nei fatti è stato più complicato di quel che credevamo, perché il lettore di saggistica non sempre è sovrapponibile al lettore di narrativa (tanto più dei nostri generi). La scelta dei saggi non ha seguito una regola ferrea: in alcuni casi è stata suggerita dalle tematiche emerse nei racconti del numero, altre volte ritenevamo adatto un saggio nonostante apparentemente non fosse ricollegabile ai racconti.

Giorgio: Perché non presupponiamo che i nostri lettori siano in un modo o nell’altro (imbecilli, geniacci, markettari…), e dunque ci interessava diffondere qualche saggio interessante, dandolo in pasto al caso. Se esiste l’analfabetismo funzionale non è perché "ha stato il sistema…" e neanche perché c’è carenza di materiale buono che dovremmo imparare a "selezionare". Questo è lo schema di una società della memoria che sta sparendo. Il problema è l’incontro tra una concezione della cultura come memoria e senso di colpa e il bombardamento ingestibile di "contenuti" insignificanti, cioè tutti quelli che servono al marketing culturale. I saggi li abbiamo selezionati chiedendo contributi qua e là a professori, saggisti (che in più di un caso non ci hanno nemmeno risposto, e si parla anche di “grandi” idolatrati) ecc. oppure scandagliando riviste scientifiche, siti, vecchie edizioni. Forse il filo conduttore dei saggi pubblicati è quello dell’imprevedibilità… e forse è così perché siamo tutti tremendemente prevedibili e ripetitivi, nonostante ognuno di noi pensi sempre e costantemente il contrario di sé stesso.

Ammetto che una delle cose che mi ha colpito di più della rivista è la sua presentazione, la cura del volume, le copertine, il layout, l'impaginazione e anche il font utilizzato. È evidente che non si tratta soltanto di scelte stilistiche ma di un vero e proprio progetto di design. In questo senso assumono un grande valore anche le raccolte di scatti presenti in ogni numero. Cosa c'è dietro la vostra idea di una "bella rivista", inteso in senso puramente estetico?
Giordano: Anche in questo caso ci piaceva l’idea di vedere il cocktail prodotto dall’incontro di ambiti diversi, con le serie fotografiche e le illustrazioni. Tutto ciò, insieme alla scelte grafiche e di impaginazione, fa parte di una concezione della rivista come qualcosa da sfogliare e risfogliare, e non da leggere e accantonare. Perché riteniamo che per “aiutare”, sdoganare e svecchiare certi contenuti testuali, sia importante anche la cura dei contenuti visivi, della cornice in cui sono inseriti.

Sara: È uno degli aspetti di Parallàxis che mi aveva colpita maggiormente. È una rivista elegante e di impatto, ma di questo dobbiamo ringraziare anche i fotografi e gli illustratori che hanno collaborato con noi e che si sono dimostrati disponibili e comprensivi verso le nostre richieste: vi ringrazio uno ad uno!

Giorgio: Oggi la grafica, le griglie e l’impaginazione di molte riviste “cool” sono tutte simili. Rispondono a uno stile dominante, che deve assolutamente esserci ma che di creativo ha ben poco, incarnando una concezione passiva del minimalismo. Il riferimento però era quello, perché le riviste letterarie sono mediamente molto brutte, oppure costrette in canoni dentro ai quali non volevamo stare. Non potendo permetterci niente abbiamo messo insieme le cose il meglio possibile, senza avere reale competenza in materia. Siamo andati per sottrazione, cercando di fare meno danni possibile. Il risultato è stato onesto e ha una sua eleganza. Goffa e ingenua, ma ce l’ha. Siamo un po’ come il doganiere Rousseau…

Passando ad aspetti decisamente più materiali, Parallàxis non ha una vera e propria distribuzione, e si può acquistare soltanto online. Avete pensato anche a utilizzare altri canali, e raggiungere magari alcune librerie selezionate, o progettate di farlo in futuro?
Giordano: Parallàxis è presente in alcune librerie, che hanno abbracciato la rivista. Tra di noi abbiamo affrontato tante volte la questione della distribuzione, ma la dimensione editoriale di EKT, la nostra casa editrice, non poteva sostenere uno sforzo simile. Abbiamo provato a compensare attraverso una serie di iniziative, delle video interviste sul nostro canale youtube, delle rubriche sul nostro sito, degli eventi e altro. Al momento, però, siamo dell’idea di mettere in stand-by la rivista.

Sara: Abbiamo collaborato con diverse librerie di Milano, Roma, Torino e Trento, senza dimenticare gli amici della Miskatonic University di Reggio Emilia! Il loro aiuto è stato fondamentale e prezioso, sia a livello materiale che morale.

Giorgio: Come noto la distribuzione è uno dei più grandi mali dell’editoria, anche se continuo a metterlo alle spalle della sempre più diffusa volontà di “esprimere i propri personali pensieri”, nella quale anche molti editori “piccoli e indipendenti” sguazzano. Dio ci scampi dai nostri pensierini, figurarsi da quelli altrui… per il resto: abbiamo collaborato con diverse librerie del nord Italia, ma di certo il mio pensiero va a quella piccola perla di operosità che è Miskatonic University di Reggio Emilia.

Chi apre oggi (!) in italia (!!) una rivista (!!!) di narrativa (!!!!) fantastica (!!!!!) chiaramente non lo fa aspettandosi un ritorno economico. Qualche soddisfazione però spera di ottenerla. Senza farvi i conti in tasca, come giudicate finora la risposta al vostro progetto?
Giordano: Non era quello che ci aspettavamo. Per questo Parallàxis, come rivista, andrà in pausa, non sappiamo dire per quanto.

Sara: La risposta è stata tutt'altro che negativa: in questi anni Parallàxis è stata sostenuta dall'affetto e dagli apprezzamenti di una base eterogenea di fan. Conservo dei ricordi bellissimi, in particolar modo legati alla fiera di Stranimondi tenutasi a Milano lo scorso anno. Essere redattrice di Parallàxis mi ha portata a conoscere molte persone e stringere legami che col tempo si sono sviluppati in rapporti di sincera amicizia e affetto.

Giorgio: Qui dovrebbe uscire la mitologia del self-made man: la soddisfazione è data dal fatto che abbiamo costruito tutto senza l’aiuto di nessuno, se non di noi stessi. Sarebbe anche sostanzialmente vero. Venendo però alla domanda, giudico la risposta positiva, soprattutto se penso alla follia utopica che ha contraddistinto questo progetto e alle condizioni generali. Tante persone, spesso sconosciute, hanno apprezzato la rivista e il nostro lavoro. Questa era la cosa importante. La cosa migliore poi è conoscere persone interessanti, così come imparare ad evitarne altre per niente interessanti.

Generalmente si conclude un'intervista con una domanda sui progetti futuri. Sentitevi pure liberi di lasciare qualche anticipazione per i prossimi numeri, ma la domanda maligna che vorrei porre è un'altra. Sicuramente sapete che la vostra rivista avrà vita dura, e che potrà andare avanti solo finché avrete la voglia di dedicarle tempo e impegno. Che cosa potrebbe far arenare il progetto, e se Parallàxis chiudesse, come pensate di reimpiegare la vostra esperienza accumulata con la rivista?
Giordano: Al momento, il progetto in cantiere è la pubblicazione di un libro, di un autore esordiente, Enrico Gabrielli, che ci ha proposto un’interessante antologia di racconti.

Sara: Inutile negare le difficoltà presenti nel portare avanti un progetto così corposo. Penso che in qualche modo Parallàxis se la caverà, o ritornerà sotto altre forme e sembianze. Un po' come ne La Cosa di Carpenter insomma. L'esperienza che ho accumulato con la rivista la reimpiego quotidianamente come lettrice, anche se ho avuto modo di far tesoro di ogni singolo spunto che lavorare in un ambiente giovane mi ha offerto. Vorrei continuare ad approfondire e sviluppare la strada delle traduzioni, un percorso che richiede molto tempo e dedizione.

Giorgio: Stiamo lavorando all’antologia di Enrico Gabrielli, che ha bussato alla nostra porta in modo totalmente inatteso. Questo è uno dei risultati del nostro lavoro, un po’ canto del cigno. Vedremo i frutti nei mesi a venire, e vi informeremo. Parallàxis si ferma perché era quasi previsto che si fermasse, si trattava solo di capire quando. Come abbiamo scritto, è un’utopia che dovevamo solo avere il tempo di riconoscere nelle sue fattezze. Una bomba a orologeria ma con un orologio illeggibile e indecifrabile. Ora però non ragioniamo con i se e con i ma, diciamo semplicemente «è stato bello e arrivederci».

Bene, l'intervista è conclusa. Se abbiamo saltato qualche argomento che vi premeva discutere, approfittate di queste ultime righe e poi salutate tutti i lettori.
Giordano: Un saluto e un ringraziamento a tutti coloro che ci hanno sostenuto e che si sono interessati a noi, ma soprattutto a coloro che non ci conoscevano e che, chissà, magari attraverso questo saluto inizieranno a chiedersi cos’è Parallàxis.
Sara: Vorrei spendere qualche parole sugli "esordienti" o "emergenti" che abbiamo ospitato: siamo stati molto fortunati, suppongo, per essere riusciti a trovare scrittori cosi completi e formati, seppur molto diversi tra loro. Avervi ospitato è stato motivo di orgoglio. Così che questi saluti finali non possano lasciare un retrogusto nostalgico, grido ai nostri lettori un chiaro e forte Arrivederci!

Giorgio: In modo un po’ autoreferenziale voglio ringraziare prima di tutto coloro che hanno condiviso con me questa esperienza: Giordano, Francesco, Sara e Tommaso. È poi d’obbligo ringraziare tutti: lettori, scrittori, fotografi, illustratori, librai, collaboratori e amici. Non faccio un elenco di nomi perché gli elenchi mi hanno rotto le palle. Però grazie davvero.

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Come già anticipavo, alcune domande possono essere sembrate fuori luogo o non focalizzate, ma bisogna tenere presente che l'interivsta è stata pensata in un momento precedente, e si è deciso di mantenerla così.

Da parte mia mi unisco ai saluti, ritenendomi onorato di essere riuscito a partecipare a questo progetto avanti di anni rispetto a ciò che si vede in giro, ma al tempo stesso anche amareggiato al pensiero che forse io stesso avrei potuto fare di più. Sono però fiducioso che da persone che hanno investito tanto tempo e passione potremo aspettarci qualcosa di buono, in un prossimo futuro, per cui tengo (e vi invito a tenere) gli occhi aperti.

Mi rendo conto che come prima intervista di Unknown to Millions non sembra di buon auspicio, è come uno che studia per diventare veterinario e una volta che si è aperto il suo ambulatorio la prima cosa che gli capita è sopprimere un coniglietto. Ma conto di recuperare presto, con qualcosa di più leggero. Certamente non posso dire che questo sia stato tempo perso.


Rapporto letture - Marzo 2016

Eccoci al resoconto delle letture del mese appena passato, che conta di quattro libri equamente distribuiti tra epoca, geografia e genere.

Il primo è L'ultima spiaggia, romanzo inquadrabile come postapocalittico di cui avevo sentito parlare molto bene in diverse occasioni. Nevil Shute narra di un mondo successivo a una guerra nucleare globale, che ha coinvolto buona parte dell'emisfero settentrionale, lasciando intatte soltanto le nazioni dell'emisfero australe. Il problema è che pur non direttamente colpite dagli attacchi, anche queste aree vengono progressivamente contaminate dalle radiazioni, che stanno lentamente raggiungendo le latitudini più basse. I protagonisti vivono in Australia, uno degli ultimi continenti ancora popolati, e sanno bene di avere pochi mesi di vita prima di venire investiti dal fallout. Continuano come possono la loro vita quotidiana, pianificando a lungo termine quando è chiaro che i loro bambini appena nati non diranno mai una parola. Il contesto è sicuramente angosciante, ma ho trovato la trama in generale un po' vaga, come se non ci fosse un punto preciso che l'autore volesse raggiungere, a parte trascorrere il tempo fino all'arrivo delle radiazioni letali... che poi è quello che precisamente i personaggi fanno, quindi forse il senso è proprio quello. Insomma, il libro merita sicuramente come "monito", ma non mi ha appassionato più di tanto. Voto: 6.5/10


E cambiamo decisamente argomento, come dicono al tg, perché con The Shattered Gears siamo lontani in tutti i sensi possibili dal romanzo precedente. Ho già parlato sul blog della serie di Avery Cates scritta da Jeff Somers, composta di 5 romanzi pubblciati alcuni anni fa. Quello che non sapevo è che a fine 2013, l'autore ha ripreso in mano il personaggio e ha iniziato a pubblicare nuove storie direttamente in ebook, in una sorta di romanzo a puntate. Questo è il primo episodio, e a parte far emergere Cates da una prigione in cui è stato infilato da robot non meglio identificati, e scoprire che qualcuno ce lo ha messo apposta (situazione non nuova), non succede poi molto. Funziona come episodio pilota, ma per capire dove va la storia dovrò leggere il resto, quindi per il momento sospendo il voto. Ma fa piacere vedere tornare Avewy Cates, Destwoyew of Wowlds in azione!


Altro romanzo breve è Diario di un poliorcete pentito, dell'autore francese Ugo Bellagamba pubblicato da Future Fiction. Visto che ho già pubblicato un commento sulla pagina facebook della collana per guadagnarmi un ebook in omaggio, riporto quanto ho scritto lì. Quello dei poliorceti è un ordine esclusivo e antico, che da secoli seleziona solo i migliori agenti da mettere al servizio delle istituzioni più ricche e potenti del mondo, per mantenere lo status politico stabile. Nel corso del tempo gli strumenti cambiano, e dalle normali armi i poliorceti moderni utilizzano nanomacchine con le quali infiltrano i corpi dei loro obiettivi, per alterarne l'equilibrio ormonale e impedirgli di agire, senza ucciderli. Quello che non è cambiato nei secoli è il manifesto dei poliorceti: il loro intervento può soltanto mantenere il potere costituito, non alterarlo. Il protagonista del racconto si scontra con gli scrupoli provocati da questo dogma, quando si trova a essere coinvolto collateralmente con gli eventi che negli anni scorsi hanno dato origine alla "primavera araba". Narrato in prima persona in tono leggero, questo racconto reinterpreta eventi recenti in chiave fantascientifica (e col senno di poi, lo si legge con un retrogusto agrodolce), mostrando come le azioni di una sola persona possono cambiare il corso della storia, che si tratti di un poliorcete o no. Voto: 7.5/10


Infine arriviamo a un autore italiano, il compagno di merende (siamo "cresciuti" un po' sugli stessi forum) Livio Gambarini, che tempo fa ha pubblicato con la Acheron il suo romanzo fantasy Eternal War - Gli eserciti dei santi. Ora, il titolo potrebbe suggerire qualcosa di epic high fantasy, ma il fatto è che qui siamo davanti a qualcosa di completamente originale e difficilmente riconducibile a schemi già noti. La storia si svolge in Italia, tra Firenze e Roma, all'epoca delle guerre tra guelfi e ghibellini. I protagonisti sono Guido Cavalcanti (sì, quello lì) e il suo ancestrarca, ovvero lo spirito familiare che guida le diverse generazioni di Cavalcanti da quando la famiglia è sorta. La storia si svolge così su due piani distinti, Materia e Spirito, che si inlfuenzano a vicenda: nel primo si muovno gli uomini e gli oggetti così come li conosciamo, nel secondo spiriti, demoni e santi di varia natura, le cui azioni, invisibili agli uomini, ne influenzano comunque le azioni e le decisioni. Si scopre così che il conflitto tra guelfi e ghibellini è la trasposizione materiale di una guerra spirituale molto più antica e con potenti forze in gioco. Dopo una cocente sconfitta dei guelfi e la perdita del suo capofamiglia, Kaballicante (Kabal per gli amici) si trova a dover lavorare per ridare ai suoi Cavalcanti il prestigio perduto, e possibilmente far cessare la guerra. La cosa davvero gustosa di questo romanzo è la creazione di un intero "meccanismo di gioco" che sta alla base della storia, un lore di cui apprendiamo via via nuovi elementi, man mano che gli spiriti elaborano nuove strategie e acquisiscono capacità. Parlo con terminologia di gioco non a caso, perché il modo in cui Kabal e colleghi agiscono e guadagnano potere è molto affine a quello che si può torvare nei giochi di ruolo, con risorse da acquisire, riti da compiere, abilità da "sbloccare". Per questo la lettura risulta molto coinvolgente, e riesce a far incastrare in modo perfetto eventi e personaggi storici (ci sono comparse di altri nomi illustri, come Farinata degli Uberti e Dante Alighieri, per dirne un paio) con questa sorta di RPG dello Spirito. Divertente e istruttivo, che altro serve? Un ottimo lavoro e la dimostrazione che si può scrivere fantasy originale, e pure fantasy italiano (non che io sia un esperto del genere, ma sento spesso sminuirlo in questi termini). Voto: 8.5/10

DTS live @ Feltrinelli Firenze - 16 aprile

Voi non lo sapete, ma riuscire a fare una presentazione a Firenze è stato uno dei miei obiettivi fin da quando è uscito Spore. Purtroppo nonostante i contatti e gli accordi presi con qualche piccola libreria periferica, non è mai stato possibile concretizzare nulla. Stavolta invece ce l'abbiamo fatta, e quindi per me è un grande piacere annunciare che sabato 16 aprile alle 18 presenteremo Dimenticami Trovami Sognami alla Feltrinelli in Via De Cerretani a Firenze, in pieno centro e in una libreria da poco rinnovata e molto ben gestita.

In realtà l'evento non sarà una semplice presentazione di DTS, che a un anno e passa dalla sua uscita e in ballo per la finale del Premio Italia, ormai ha perso la sua attrattiva in quanto novità. Per questo oltre alle incarnazioni di Zona 42 (Giorgio Raffaelli e Marco Scarabelli) ci sarà anche Chiara Reali, che per loro ha tradotto diversi romanzi, per una chiacchierata più ampia a proposito di fantascienza, narrativa, editoria e quel che volete (che poi è la cosa più stimolante, al di là del fare due-tre discorsi sul romanzo in sé). E, probabilmente, sarà anche l'occasione per mostrare in anteprima il loro nuovo titolo italiano, da poco annunciato.

Come ho già avuto modo di sperimentare in passato, il "giocare in casa" non è per niente un vantaggio, quindi non mi aspetto di fare il pienone per il fatto di trovarmi in un posto familiare. Ma se non altro so che avremo il pieno appoggio della libreria (cosa tutt'altro che scontata, soprattutto quando si parla di grandi catene come questa), che, non ditelo in giro, ma è gestita da un direttore che è anche un appassionato di fantascienza, per questo potete trovarci una buona selezione di titoli (sia in italiano che in inglese).

Seguite la pagina facebook per gli aggiornamenti sull'evento, e ci vediamo lì, per un'oretta di chiacchiere e successivo aperitivo a base di lampredotto.

Coppi Night 03/04/2016 - La quinta onda

In altre sedi mi sono pubblicamente sposto a favore del bistrattato genere young adult (letterario o cinematografico), sostenendo che una storia YA non è necessariamente spazzatura e che Hunger Games, guarda, che non è così male come tanti dicono. A mio avviso il fatto che i protagonisti della storia siano ragazzini, possibilmente coinvolti in dinamiche amorose tra loro, non squalifica una storia, se questo punto di vista è affrontato in maniera seria e onesta, senza cliché e stereotipi.

La quinta onda è esattamente quello stereotipo. Se volete sintetizzare in tre parole la trama, potete benissimo descriverlo come "Twilight con gli alieni". L'ambientazione è postapocalittica, un mondo che ha subìto una serie di pesanti attacchi da parte di invasori alieni (mai visti e definiti soltanto "gli altri") che si sono inizialmente sbizzarriti con EMP; terremoti ed epidemie per decimare la popolazione umana. Poi a quanto pare c'è bisogno di scendere direttamente sul campo per sterminare i superstiti, ed ecco che si arriva alla "quinta onda" di attacchi.

La prima mezz'ora è tutto sommato guardabile, anche se continuamente appesantita dalla narrazione fuori campo e già mostra i primi accenni della catastrofe imminente (non quella dell'umanità, quella del film): il fratello minore dolce e innocente, il compagno di scuola figo. Quando poi, di punto in bianco, il film cambia POV e passa al suddetto compagno di scuola figo durante il suo addestramento nella resistenza, si capisce che la piega che prenderà è ben diversa da un'onesta invasione aliena.

Conosciamo quindi il secondo concorrente per le grazie della protagonista, personaggio ambiguo buono-cattivo mifido-nonmifido, e poi tutta una serie di assurdità labilmente giustificabili all'interno della storia, che culminano in scene come il bagno nel lago a petto nudo del figaccione con le sopracciglia folte. Una serie di plot twist prevedibil come Santo Stefano il giorno di natale, e pure il discorsetto sull'amore e la speranza e la bontà che è quello che distingue noi umani buoni da loro alieni cattivi (se gli alieni davvero ci sono, perché chi li ha visti?).

E naturalmente, il film non finisce. Non si sa bene con quali mezzi, il gruppetto di eroi (sorvoliamo sulla composizione della squadra) riesce a far saltare in aria il complesso di addestramento degli alieni, ma la guerra è ancora lontana dall'essere vinta. E allora, qualcosa ci inventermo, strizzatina d'occhio in camera, and cut. Quindi se siete di quelli che sostengono che lo YA è una merda, questo film è un'ottima prova da portare per la vostra tesi.

Miike Snow - iii

Se per una volta vi va di leggere un post musicale di Unknown to Millions non perdetevi questo, perché è quanto di più mainstream potrete mai trovare qui sopra. Miike Snow infatti è forse l'unico gruppo in qualche modo ascrivibile al pop che seguo con costanza e passione: potete infatti trovare anche la recensione del precedente album e il mio dj set a loro dedicato.

iii arriva quasi quattro anni dopo Happy to You, l'album del 2012 che aveva consacrato il trio svedese al successo internazionale (non il successo delle megastar, ma qualcosa di paragonabile per il loro tipo di musica), in seguito al discretto successo del precedente Miike Snow. Dopo un paio di anni di inattività, si temeva che ormai il progetto fosse terminato, invece dai primi mesi del 2015 alcuni criptici messaggi sui social hanno iniziato a preparare il terreno il nuovo album, anticipata dall'uscita di alcuni singoli e relativi remix.

Quello che si può notare in iii è che lo stile di Miike Snow ha continuato ad evolversi, cercando una sua identità, che se da una parte sembra cercare una maggiore facilità d'ascolto, dall'altra non perde il gusto della ricerca e le radici elettroniche, che erano evidenti soprattutto nel primo album. Il genere si può ancora inquadrare nel synthpop, ma ci sono evidenti influenze rock, funk ed electro. Si trovano infati pezzi come I Feel the Weight e For U in cui le sonorità sono più vicine a quelli dei lavori precedenti, con un intenso uso di effettistica e sample, mentre altri come My Trigger e Heart is Full presentano suoni e strutture nuove per il gruppo, ma che vengono manovrate con abilità. Tra i dieci pezzi si riconoscono anche un paio di potenziali hit, come Lonely Life e Genghis Khan, di cui è stato anche diffuso il video ufficiale prima dell'uscita dell'album:



Nei prossimi mesi verrano probabilmente pubblicati nuvoi singoli, ai quali saranno accompagnati i remix, e sono ansioso di sentirne alcuni, visto che ci sono diversi pezzi che si prestano ottimamente a essere reinterpretati anche in chiavi differenti, come già è avvenuto per quelli di Happy to You e Miike Snow.

Personalmente non ritengo iii il lavoro migliore di Miike Snow, perché per mia predisposizione apprezzo di più la parte puramente elettronica, che era maggiormente rappresentata nel primo album (e non c'è niente da dire, Silvia è uno dei miei pezzi preferiti in assoluto), ma la qualità di questa raccolta è comunque di alto livello, e seguire un gruppo durante il suo percorso di esplorazione musicale rimane un'esperienza gratificante e istruttiva. Per cui, per voi che partite con l'ascolto di RDS, propongo il percorso inverso al mio: cominciate con iii, e se lo torvate di vostro gradimento passate ai lavori precedenti, e poi tornate qui sopra a leggere quello che scrivo di techno ed electro.