Sherlock vs Monk: detective sociopatici a confronto

Qualche settimana fa ho dedicato qualche ora delle mie sere a seguire la quarta (e credo conclusiva) stagione di Sherlock, serie investigativa creata da Steven Moffat e Mark Gatiss che riprende la figura dell'investigatore collocandolo nella Londra contemporanea. La serie ha avuto un gran successo, soprattutto per le interpretazioni di Benedict Cumberbatch e Martin Freeman nei ruoli di Holmes e Watson, e forse anche per la sua forma insolita di pochi, lunghi episodi della lunghezza di un film.

Personalmente, devo ammettere, Sherlock non mi ha mai convinto fino in fondo. Tecnicamente ben fatto, interpretazioni convincenti (il mio preferito è Mycroft, che è lo stesso Mark Gatiss) e con un approccio molto moderno e accattivante allo spettatore, ma carente proprio nella parte "investigativa". La soluzione dei misteri non è quasi mai soddisfacente, anzi appare forzata, aggiunta per ultimo, e si basa spesso su elementi labili... il che non è il massimo quando si parla appunto di una serie che ha per protagonista Sherlock Holmes. Questa quarta serie in particolare è stata piuttosto fiacca da questo punto di vista, e se posso dire di aver apprezzato in certi casi l'aspetto umano/emotivo delle vicende, siamo davvero a livelli pessimi per quanto riguarda plot ed enigmi.

Per questa voglia insoddisfatta di soluzione dei casi sono andato a riprendermi quello che ricordo come il miglior detective della tv: l'Adrian Monk di Tony Shalhoub, dell'omonima serie Monk che conta otto stagioni uscite tra il 2002 e il 2009. Partiamo comunque dal presupposto che non sono esattamente un appassionato delle serie investigative: i vari procedural tipo CSI non mi dicono molto. Preferisco le serie in cui a portare avanti è un detective imperfetto, brillante ma impacciato, che non si affida a sofisticate tecniche scientifiche di rilevazione degli indizi, ma conta principalmente sulle sue capacità di osservazione e deduzione. L'archetipo televisivo di questo tipo di detective è Colombo, ma abbiamo degni successori tra cui appunto Monk e Dirk Gently (in entrambe le sue incarnazioni su schermo).

Andando quindi a rivedermi un po' di Monk, ho notato che le affinità con Sherlock sono numerose, almeno per quanto riguarda il protagonista in sé. Adrian Monk e Sherlock Holmes sono entrambi individui estremamente intelligenti, capaci di cogliere piccoli particolari e dedurre da questi numerosi fatti. In entrambi gli show vediamo più volte il detective che osservando semplicemente gli abiti di una persona riesce a capire dove è stata di recente, cosa ha mangiato, quanto ha dormito, come procede la loro relazione. Da questo punto di vista, si possono considerare i due come pari livello. Ma al di là dell'acume, che pure è una caratteristica abbastanza frequente per i detective della tv (altrimenti non farebbero i detective), c'è un altro aspetto fondamentale che li accomuna: la loro sociopatia.

Tanto Monk che Sherlock soffrono del rapporto con il mondo esterno e le altre persone. Il primo è affetto da una vasta gamma di paranoie, fobie, idiosincrasie e disturbi ossessivo-compulsivi (tanto che uno dei payoff della serie è Obsessive Compulsive Detective); Holmes invece è completamente e forse volutamente refrattario ai rapporti umani, ignora tutte le normali regole di convivenza civile e nozioni di attualità. Entrambi, se potessero, si limiterebbero a risolvere i misteri nella tranquillità del proprio studio, evitando l'incombenza di parlare con persone e rispondere a domande. Tollerano appena la presenza del rispettivo assistente e le richieste dei clienti e agenti di polizia che li chiamano in causa.

Pertanto si potrebbe pensare a due serie tutto sommato simili nello svolgimento, eppure la differenza è sostanziale, e per qualche ragione continuo a considerare Adrian Monk più abile di questo Sherlock Holmes. Mi ci è voluto un po' a capire quale fosse il nodo della differenza tra i due, ma dopo la visione di qualche episodio della prima stagione di Monk ci sono arrivato.

Il fatto è che pur essendo entrambi dei brillanti investigatori antisociali, la loro sociopatia influisce in modo diverso sul loro lavoro. Sherlock non ha la minima considerazione di ciò che gli avviene intorno, del modo in cui le persone lo percepiscono e di cosa ci si aspetta da lui, fin dai più basilari concetti di decenza ed educazione. Procede spedito sulla sua strada come un treno, abbattendo qualunque ostacolo incurante dei danni che provoca. Non esita a sminuire, avvilire e anche colpire direttamente chi gli si para di fronte. Non rispetta alcun tipo di autorità e non segue nessuna delle procedure richieste per il suo particolare lavoro.

Al contrario, Monk è costantemente ostacolato dai suoi problemi. Le sue manie per l'igiene, l'ordine, la simmetria, lo portano ad agire in modo irrazionale e controproducente: quando stringe la mano a qualcuno, deve pulirsi con una salvietta; se qualcuno ha la camicia stropicciata, deve lisciarla; non può sporcarsi, correre, arrampicarsi, bagnarsi e così via. Tutto ciò comporta difficoltà enormi per qualcuno che dovrebbe agire "sul campo", toccando e osservando e annusando per carpire i dettagli nascosti.

E c'è anche un'altra differenza importante nel loro modo di lavorare: il modo in cui sono percepiti dagli altri. Sherlock è riconosciuto come un genio, è famoso e viene adorato e anche amato nonostante la sua mancanza di riguardo e inibizioni. Ha una squadra di persone pronte ad aiutarlo e sostenerlo, tra i quali addirittura il fratello che lavora per il Governo e può fornirgli tutte le informazioni riservate di cui ha bisogno. Anche l'intelletto di Monk è noto e apprezzato, ma lui viene trattato più come un idiot savant che un eroe. Il suo talento non è in dubbio, ma le sue fissazioni sono continuamente schernite e minimizzate. Anche i suoi ex colleghi della polizia non si fanno remore a deriderlo e respingerlo, quando i suoi atteggiamenti si fanno incomprensibili o fastidiosi, salvo poi chiedere il suo aiuto quando sono in difficoltà.

Ecco quindi dove viene fuori il vero valore dei due. Se entrambi sono in grado di risolvere casi complicati, da una parte Sherlock Holmes lo fa con la sua insolenza e nell'ammirazione generale, dall'altra Adrian Monk deve combattere continuamente per ottenere con le sue sole forze lo stesso risultato. Questo lo rende, alla fine dei conti un detective migliore.

Coppi Night 22/01/2017 - The Woman in Black

Facciamo una nuova incursione nell'horror, termine con il quale intendo quel particolare genere di film che coinvolge una qualche forma di creature soprannaturali (in genere demoni o spiriti di defunti) che incasinano la vita delle persone normali, esibendo un vasto campionario di poteri non definiti per perseguire scopi incoerenti con la loro stessa motiazione. Che poi è probabilmente quello che insegnano a Sceneggiatura Horror Contemporanea 101, il corso propedeutico per Jumpscares 101.

Il film è ambientato nei primi del 900 e segue uno svogliato Daniel Radcliffe, avvocato londinese padre vedovo sul lastrico, incaricato dal suo studio di compiere una cernita dei documenti lasciati dalla proprietaria di una oscura villa sperduta nelle campagne appena deceduta. Ansioso di dimostrare le sue capacità, il giovane si reca nella cittadina sperduta dove subito viene accolto come un attacco di colite. Ma lui tenace non se ne va (anche perché nessuno gli spiega il motivo per cui sarebbe meglio che se ne andasse, se lo avessero fatto penso gli avrebbe dato retta), e anzi visita di persona la casa infestata di questo borgo in cui i bambini hanno l'insana tendenza di suicidarsi. Seguono apparizioni, jumpscares, altri morti innocenti e soprattutto un continuo girovagare da una stanza all'altra della casa, tra porte che si aprono da sole, gradini che cigolano, giocattoli che suonano.

Non c'è davvero niente in questo film (come in molti altri passati negli ultimi anni) che abbia un senso logico all'interno delle premesse del film stesso. È questo il problema: io sono ben disposto ad accettare che la donna del titolo abbia trasceso la morte e trovato il sistema di tormentare i suoi compaesani per i torti subìti (che poi avrebbe dovuto prendersela solo con la sorella, ma ok, si è incazzata parecchio), ma partendo da questa situazione iniziale, non si spiega comunque quello che è in grado di fare. Ancora meno si spiega come si possa scavare un cadavere rimasto sommerso in una palude per degli anni e trovarli integro. Meno che mai ha una logica il fatto che l'avvocato vedovo sul lastrico sappia perfettamente il rito da compiere per riunificare madre e figlio.

E vogliamo parlare del finae? Come si conclude una storia di tormentato rapporti familiari che superano le barriere della morte? Forse facendo morire il protagonista e suo figlio e mostrandoli riunirsi con la moglie/madre, ora finalmente felici. La più antica e universale delle morali: hai una vita difficile? Ammazzati, e si risolve tutto!

L'unica domanda a cui questo film risponde con sicurezza è: riuscirà mai Daniel Radcliffe a scrollarsi di dosso l'immagine di Harry Potter? E la risposta è un grosso NO, soprattutto se continuate a metterlo sopra treni a vapore e lo fate aggirare con aria confusa per i manieri.

Arrival in Embassytown: di cosa parlano gli alieni?

Con l'uscita di Arrival al cinema si fa un gran parlare in questi giorni (almeno nei circoli in cui mi ritrovo io) di linguaggio, di come questo influenzi il modo di pensare, e della possibilità di interagire con un'intelligenza aliena. E dato che ho finito di leggere Embassytown, l'ultimo romanzo di China Miéville (ma per me il primo letto di questo autore), proprio il giorno prima di vedere Arrival, l'occasione è ghiotta per fare un ragionamento più ampio, partendo da quanto queste due opere ci offrono come spunto di riflessione. Quella che segue quindi non è una recensione né di Arrival (o di Storia della tua vita: ai fini di questa riflessione si può considerare tanto il film di Denis Villeneuve che il racconto di Ted Chiang, per comodità userò il titolo del primo) né di Embassytown, ma attinge a entrambi e potrebbe contenere spoiler, quindi procedete a vostro rischio.

Partiamo cercando di capire cosa rende sensato un confronto tra le due opere. In entrambi i casi, abbiamo dei protagonisti umani che si confrontano con degli alieni parecchio alieni. Sia gli Eptapodi che gli Ariekei sono creature lontanissime dal modello umanoide a cui siamo abituati: gli eptapodi sono esseri ameboidi con un corpo a simmetria radiale (nel film appaiono come dei polpi-pachidermi, e credo sia un'immagine efficace); gli Ariekei sono ancora più strani, e anche se non è facile mettere insieme una descrizione completa da quanto si trova nel libro di Miéville, bisogna pensare a creature dotate di zoccoli, con decine di occhi montati su appendici coralline, dotati di diversi paia d'ali di cui alcune prensili e alcune sensoriali, e con due apparati fonetici usati simultaneamente. In entrambi i casi quindi, ci troviamo di fronte a esseri tanto diversi da noi da non poter avere dei punti in comune su cui basare una comunicazione immediata. La "vita quotidiana" così come il percorso filogenetico di un Eptapode o di un Ariekeo sono inimmaginabili, di fatto in Embassytown continuano a esserlo anche per gli umani che convivono con gli alieni nella stessa città.

Si può presumere che entrambe queste specie aliene si siano evolute in un modo (e in un mondo) molto diverso dal nostro, cosa che comporta non solo le differenze fenotipiche, ma anche un diverso modo di pensare. Sia gli Eptapodi che gli Ariekei si possono classificare come "specie intelligenti", nella misura in cui con questa definizione si intende una creatura che ha costituito un certo grado di civiltà e ha la capacità di manipolare l'ambiente che la circonda, costruendo oggetti e sviluppando un qualche tipo di tecnologia. Ci sarebbe tanto da discutere se questa sia la definizione corretta di intelligenza, ma accontentiamoci di questi assiomi tipici della Federazione Galattica. Il punto è che, per quanto intelligenti, la loro intelligenza non è direttamente rapportabile alla nostra: un ragionamento ariekeiano non è direttamente assimilabile a uno umano. Per capire quindi cosa dice uno di loro, non basta un semplice lavoro di traduzione, ma è necessario anche un cambio di prospettiva: se anche fosse possibile, una traduzione letterale di un discorso di questi alieni non avrebbe senso. In fondo, anche per le lingue umane troviamo difficoltà di questo tipo, eppure il nostro cervello è sempre lo stesso. Figuriamoci se ci troviamo a trattare con cervelli diversi, o magari con niente di paragonabile a un cervello.

Questo cambio di POV necessario agli umani per comprendere gli alieni si realizza in maniera diversa. Da una parte la scrittura degli Eptapodi permette a chi la impara di riprogrammare la sua percezione del tempo e iniziare a considerarlo non più come una sequenza, ma come un insieme unitario e circolare. Al contrario l'eptapode parlato risulta incomprensibile e irriproducibile per gli uomini, ma d'altra parte gli stessi alieni preferiscono usare il linguaggio scritto. Da parte loro invece gli Ariekei non hanno nessun tipo di scrittura. Per poter parlare con un Ariekei è necessario riprodurre il suo modo di parlare: serve una doppia voce che parli in contemporanea, diretta dalla volontà di un unico individuo. A questo scopo vengono creati gli Ambasciatori, coppie di cloni geneticamente ingegnerizzati e in seguito addestrati per pensare in maniera univoca, ed esser così risconosciuti dagli Ariekei come creature intelligenti (gli alieni faticano infatti a considerare le singole persone come esseri senzienti).

Si può in un certo senso considerare le lingue eptapode e ariekei come due estremi opposti di espressività, al centro dei quali si trova l'uomo. Gli Eptapodi scrivono con simboli circolari, senza un inizio e una fine, riflettendo la loro astrazione dal piano temporale come lo concepiamo noi; gli Ariekei invece sono totalmente privi di astrazione, la loro lingua può esprimere soltanto ciò che esiste ed è tangibile, tant'è che hanno bisogno di qualcuno che "impersoni" le loro similitudini per poterle utilizzare.

Se quindi in Arrival la lingua è un'arma, in Embassytown la lingua degli alieni è un'arma smussata, inefficace quando viene confrontata con modi di esprimersi più complessi come la lingua umana, che comprende similtudini, metafore e menzogne. Prima dell'arrivo degli umani non parlavamo, afferma a un certo punto uno degli Ariekei, dopo che con estremo sforzo è riuscito ad arricchire la sua lingua con questi elementi basilari, quasi scontati, del linguaggio umano. E proprio come succede alla protagonista di Arrival, l'acquisizione di questo nuovo strumento è sconvolgente, doloroso, e finisce per riscrivere l'intero schema mentale dell'alieno.

Non sappiamo in che modo la diffusione dell'eptapode cambierà la società umana, così come si vede appena l'inizio della sperazione tra significante, significato e referente ad Embassytown. Non ci è dato di sapere quindi quanto profondamente questa riprogrammazione possa influenzare l'evoluzione della civiltà e dei singoli individui. Ma entrambe le opere ci mettono davanti le potenzialità del linguaggio come mezzo per espandere la propria consapevolezza. Sarebbe inesatto parlare di intelligenza in senso stretto, e affermare che alla luce di tutto ciò gli Eptapodi sono più intelligenti degli Umani che sono più intelligenti degli Ariekei. Ma senza dubbio dal confronto tra modi così diversi di concepire la realtà possiamo imparare molto, più che sugli alieni (che, a ben pensarci, sono inventati) su noi stessi. Fortuna che c'è mamma fantascienza a farci pensare a queste cose.

Coppi Night 15/01/2017 - Rats

La prima Coppi Night del 2017 sdogana i documentari, che non erano mai stati proiettati prima (e a quanto mi ricordo, nemmeno proposti), ma quando tra le possibili scelte è comparsa questa amena storiella su come i ratti convivono con l'uomo, nessuno ha saputo resistere. Soprattutto tenendo conto del fatto che è vietato ai minori di 14 anni!

In effetti non so bene come recensire un documentario. Non c'è una trama da riportare, ci sono solo dei salti di città in città, tra USA, UK, India e Vietnam, per mostrare modi diversi di confrontarsi con i roditori. Sono chiamati in causa un po' tutte le figure che ruotano intorno a queti animaletti, dai disinfestatori ai biologi, dai medici ai responsabili della sanità pubblica. In effetti alcune nozioni sono piuttosto impressionanti, come la stima di quanti ratti vivono a New York e di come sia fondamentalmente impossibile contenerli, alla visione della varietà e quantità di parassiti che i ratti veicolano (vermi, larve, batteri, protozoi). Ed è anche interessante constatare come, nonostante i nostri validi sistemi sanitari, malattie come la leptospirosi sono tuttora a rischio di diventare epidemiche. Del tipo, se domani tornasse a girare la peste, siamo sicuri che finirebbe meglio che nel 1300?

Il documentario punta molto sulla forza delle immagini, come le dissezioni dei ratti catturati (umanamente uccisi con iniezione dopo anestesia) e la caccia notturna degli accalappiatopi indiani, che li inseguono letteralmente uno per uno e li uccidono tirandogli il collo, così da non spargere sangue. Ma anche nella civilissima Inghilterra non è che ci si comporti in maniera più matura, eh.

Un altro aspetto interessante, e forse trattato un po' superficialmente, è quello dell'evoluzione parallela di umani e ratti. Il modo in cui questi ultimi siano riusciti ad adattarsi a vivere negli ambienti urbanizzati, stabilendo comportamenti che gli permettono una vita agiata e prolifica, e svilupando una progressiva resistenza ai veleni (tanto che a morire sono i predatori che si nutrono di loro, ma non loro), dovrebbe darci qualche indizio su quanto possiamo davvero considerarci padroni di questo pianeta. Non che i ratti abbiano il potere di sovvertirci, certo... ma non ne hanno nemmeno l'interesse. Ma i rapporti di forza tra noi e il resto degli organismi della Terra, per come siamo abituati a considerarli, sono chiaramente da mettere in discussione.

Projects Update: racconti, traduzioni e Scrabble

Credo che sia dai tempi in cui annunciavo l'imminente uscita di DTS (dicembre 2014) che non faccio un post sui progetti di scrittura in corso. Questo per due ragioni di base. Innanzitutto non mi piace fare gli annunci pubblici raccontanto quello su cui sto lavorando, perché mi metto nei panni dei destinatari del messaggio a cui, giustamente, fregacazzo: quando c'è qualcosa di pronto e disponibile, allora ne parliamo, ma mettersi a fare i teaser mi pare una manifestazione di vanità quando la vedo negli altri, perché quindi dovrei indulgerci io? In secondo luogo, c'è il fatto non banale che dopo l'usicta di DTS non è che abbia lavorato parecchio. Ok, il 2015 è stato dedicato in buona parte alla promozione del romanzo (con qualche soddisfazione, lo ammetto), mentre il 2016 è stato un anno difficile e impegnativo sotto molti punti di vista per cui a parte un paio di racconti non sono riuscito a combinare molto altro.

Ma nel 2017 ho intenzione di invertire la tendenza. In effetti non è che sono stato completamente immobile, e sono già previsti un paio di racconti medio-lunghi sui quali ho anche investito parecchio, ma penso se ne parlerà nella seconda metà dell'anno (per info vedi immagine a corredo del presente post). Nel frattempo sono anche in attesa di qualche riscontro da parte di editori in merito ad alcuni progetti che ho proposto, quindi anche in questo caso niente di pronto per uscire, ma che potrebbe portare a qualcosa di interessante nel medio periodo.

Un altro fronte su cui voglio impegnarmi di più è quello estero. Sto iniziando a muovere i primi passi per far tradurre in inglese un paio di miei lavori (scegliendoli tra quelli che hanno avuto maggior "successo"), per poi proporli a qualche rivista. Chiaramente anche qui non ci sono garanzie di successo e rapidità, ma si tratta di un passo che ho sempre voluto fare e che forse solo adesso (in particolare dopo la conversazione con Tricia Sullivan avuta a Milano quest'anno) sono pronto a compiere.

Ma c'è una domanda che ricorre più spesso tra quella mezza dozzina di persone seriamente affezionate alla mia produzione (che dio ve ne renda merito!). Ovvero: e il prossimo ROMANZO?

In un mondo ideale, questa domanda non dovrebbe avere senso. Se i miei lavori continuano a uscire e sono buoni, perché dovrebbe interessare che si tratti di un romanzo o di un racconto? Ma la triste realtà editoriale è che i racconti (e le raccolte di) non tirano. I risultati che ho ottenuto con Spore (fuori catalogo da un paio di mesi) sono stati in questo senso ottimi, ma è difficile riuscire a calamitare l'attenzione con testi brevi. Per cui sì, prima o poi dovrò mettermi sotto per fare il lavoro grosso. Non che mi manchino gli spunti, anzi: ho due racconti che si prestano all'ampliamento in romanzo (uno dei quali rientra nei progetti per i quali sto aspettando riscontro), ma soprattutto ho quell'idea vincente per la mia leggendaria trilogia young adult. E dico "leggendaria" non nel senso che è un'opera dai toni epici, ma perché è così tanto che ne parlo che ormai mi sembra si tratti di una creatura mitologica.

Però è vero: ho già in testa la storia di Scrabble, la prima parte della serie su cui verrà poi basata una saga di film, che ovviamente saranno quattro perché il terzo volume sarà scomposto in parte 1 e parte 2 allungando il brodo. Per il momento non anticipo nulla di quello che è il nucleo centrale della storia, ma posso confermare che il titolo è un indizio essenziale (a maggior ragione se si considera che il secondo libro si intitolerà Taboo; per il terzo ancora non sono sicuro) e che sono serio quando parlo di young adult, e aggiungo pure che sarà vagamente distopico. Mi sono svenduto alla moda del momento? Ai post (su facebook) l'ardua sentenza.

Per Scrabble ho deciso di impormi una scadenza: dato che a settembre di quest'anno occorrerà un altro evento abbastanza centrale nella mia vita adulta, prima di allora dovrà essere pronto. Non credo che inizierò a lavorarci prima di metà febbraio, per cui ho sei mesi circa per completare la prima stesura. Inutile dire che non ce la farò mai.

Insomma, questo è quello su cui stiamo provando a lavorare. Nessuno si aspetta seriamente che possa portare risultati eclatanti, ma almeno la nostra piccola parte la facciamo. Firmato io, e la mia accidia.

Rapporto letture - Dicembre 2016

Ultimo mese dell'anno, tempo di bilanci e considerazioni finali. Vogliamo fare una panoramica dei libri letti l'anno appena trascorso? No, non vogliamo. Sennò che ci stanno a fare i tag sul blog, potete leggervi apposta i rapporti letture precedenti, e gli approfondimenti che ho dedicato ai singoli titoli, laddove ho ritenuto che meritassero più spazio. Fatto questo, passiamo agli ultimi tre titoli consumati nel 2016.

Per primo, completiamo la saga arabesca di Jon Courtenay Grimwood pubblicata da Zona 42: dopo Pashazade e Effendi, la storia si chiude con Fellahin. Gli ingredienti sono sempre gli stessi: Ashraf Bey con la sua volpe, intento a risolvere un crimine a cui è a sua insaputa collegato e che può riscrivere gli equilbri di potere del Nordafrica ucronico di questa serie. A tutto ciò si aggiungono personaggi di contorno vividi, flashback, rivelazioni, e una puna di romanticismo inaspettato. Quella di Raf è una storia che si ripete ma sorprende sempre, in un mondo diverso dal nostro ma in fondo familiare. Se il plot è simile per struttura ai due romanzi precedenti, la posta in gioco cambia e tra i protagonisti c'è il padre di Ashraf (ma poi lo è davvero?), l'emiro di Tunisi, vittima di ripetuti tentativi di omicidio. Se si vuole fare un appunto al libro, i flashback sulla madre di Raf non sembrano aggiungere molto alla storia, e infatti si interrompono dopo metà libro. Per il resto è confortante ritrovare gli stessi personaggi, ognuno con le sue caratteristiche (in certi casi quasi esasperate), e scoprire finalmente il segreto delle origini di Raf, praticamente insieme a lu. La storia finisce ma non in modo definitivo, per cui chissà se potremo sentire ancra parlare di Ashraf e della sua vope. Una bella conclusione per una serie appassionante ed esotica. Voto 7.5/10


Anche il secondo libro è la seconda parte di una serie, e guarda caso anche questa iniziata a leggere insieme a quella di Grimwood. Il volume 2 di Oscure Regioni completa la raccolta di racconti ispirati al folklore regionale italiano scritta da Luigi Musolino, con le dieci regioni che non rientravano nel primo volume. Racconti principalmente horror, ma anche weird e fantascienza, in cui ricorrono mostri, animali mitologici, streghe e anche alieni. Certo non tutte le leggende hanno lo stesso fascino, e i racconti ne risentono di conseguenza, ma il livello è sempre medio-alto e alcuni lavori sono delle piccole perle di tensione. Tra i migliori di questa tornata Smeraldo e La Marrocca. Forse leggendoli tutti in sequenza emerge un po' troppo lo schema ricorrente del personaggio con vita normale interrotta da un evento anomalo, ma d'altra parte per sviluppare un racconto basato su una leggenda popolare probabilmente no ci sono molte altre strade. Voto: 7.5/10


Infine si torna alla fantascienza quella più ordinaria, con l'ultimo numero di Robot (o almeno l'ultimo che ho io, forse ne è uscito un altro nel frattempo). In questo numero sono rimasto sorpreso da un paio di racconti di buon livello, peraltro di autori "giovani": I corridori di Lorenzo Crescentini e Le piantagioni di Luigi Casili. Buono anche l'ultimo di Mike Resnick, simpatica la variazione sul tema Sherlock Holmes di Susanna Raule. Nostra signora della strada, vincitore del Nebula 2015, mi è parso invece piuttosto noioso e senza un vero nucleo speculativo. Nella media comunque un numero di qualità superiore alla media, che contiene anche un paio di articoli interessanti. Dopodiché ho iniziato a leggere Embassytown e e le cose si sono complicate, ma di questo parleremo il mese prossimo.

Fan-O-Rama: A Futurama fan film

In quanto autoproclamato fan italiano numero uno di Futurama non farei il mio dovere se non segnalassi l'uscita recente di questo fanfilm di cui si era sentito parlare nei mesi passati, ma che non era ancora stato annunciato ufficialmente.

Fan-O-Rama è un cortometraggio realizzato dalla Cinema Relics, che consiste essenzialmente in un adattamento live action di Futurama. Per i meno familiari alla tassonomia dei prodotti televisivi/cinematografici, per live action si intende una produzione con "attori veri", umani, in carne e ossa: di solito si usa questa terminologia in opposizione ai prodotti di animazione, per evidenziare appunto che si tratta di una versione girata e non animata. Per fare un esempio, il celebratissimo Dragonball Evolution è il live action dell'anime Dragonball. In genere i live action non incontrano un grande successo, vuoi per l'oggettiva difficoltà di trasporre in modo efficace elementi straordinari (sempre in Dragonball, i combattimenti acrobatici e le kamehameha traslati nella fisica reale perdono parecchio, stessa cosa per i mostri), vuoi perché il confronto con il prodotto d'origine è sempre in agguato ("era meglio il cartone/videgioco").

Nel caso di Fan-O-Rama non si parla però di una produzione cinematografica di alto livello, ma di un fanfilm, cioè di un lavoro a basso budget messo su da appassionati che hanno voluto fare un "omaggio" alla serie. I fanfilm sono una realtà vasta e interessante, e ci sono alcuni esempi virtuosi come la serie Dark Resurrection, produzione italiana ambientata nell'universo di Star Wars.

La sfida che si pone a chiunque voglia traslare Futurama nel mondo reale è la resa dei personaggi. Alcuni sono normali umani, come Fry ed Hermes, ma già un mutante monocolo come Leela può comportare qualche difficoltà. Quando si arriva a Zoidberg e Bender, la faccenda si complica ulteriormente. Senza considerare tutti gli ammennicoli del XXXI secolo, dalle astronavi ai jetpack, dagli ologrammi alle teste in vasca. Le soluzioni proposte da Fan-O-Rama funzionano a tratti. Per una Leela convincente (e che ci fa realizzare quanto sarebbe uncanny un ciclope nella realtà) abbiamo altri personaggi più legnosi, come appunto il robot e il crostaceo. Anche il livello delle animazioni in CGI è abbastanza basso, se si paragona con quello a cui ci abitua il cinema contemporaneo.

Tuttavia, se il reparto tecnico non è perfetto (e onestamente non ci si poteva aspettare di più, visti i comprensibili limiti di budget), si può percepire come il lavoro sia stato svolto con passione e nello spirito della serie originale. I personaggi non sono "imitati" e le loro voci non sono quelle dello show (anche perché si tratta di doppiatori professionisti sicuramente non facili da ingaggiare), ma l'interpretazione di tutti è in linea con le caratteristiche di ognuno. Così, anche se Fry e Brannigan hanno una voce diversa, il loro modo di parlare e di comportarsi, fino anche al linguaggio del corpo, ricorda davvero i personaggi del cartone.

L'episodio non ha una trama vera e propria e non è conclusivo, come ci spiega candidamente Zapp alla fine. Ma dopo i 15 minuti circa della puntata troviamo anche una piacevole bonus track con un episodio speciale di Everybody Loves Hypnotoad. Il video è disponibile su Youtube, mentre sul sito si trovano dettagli relativi al cast, la produzione e un'utilissima FAQ (che risponde anche alla vostra prima domanda: "conosco un tizio che sa imitare benissimo Zoidberg perché non avete preso lui per il vostro film?"). Qui vi lascio il trailer:


Di certo Fan-O-Rama non rimarrà negli annali del cinema, ma è un indizio di come la comunità dei fan di Futurama (che già sono riusciti a far resuscitare la serie due volte) continui a essere attiva. Magari a qualcuno viene l'idea di poter riprendere la serie... ti fischiano le orecchie, Netflix?