Babbo

Mercoledì 13 luglio 2016, intorno alle ore 11:30, mio padre è morto, meno di un mese dopo aver compiuto sessant'anni. Portato via da un male scoperto alla fine dell'anno scorso, contro il quale ha combattutto fino a quando le forze glielo hanno permesso, venendone infine sconfitto. Una di quelle cose che come si sente dire ti mangiano da dentro, espressione di cui non avevo compreso la portata finché non l'ho visto accadere davanti ai miei occhi, a un ritmo esponenziale.

Mi piacerebbe poter dire che se ne è andato senza soffrire, ma non è così. Negli ultimi giorni lo stadio avanzato della malattia, l'indebolimento del fisico e gli inevitabili strascichi delle lunghe terapie tentate nei mesi passati non gli permettevano di trovare riposo. Ero con lui in quel momento, gli stavo tenendo la mano quando ha letteralmente esalato l'ultimo respiro e rovesciato gli occhi. L'ho sollevato insieme all'infermiere per adagiarlo sul letto, ora che finalmente poteva sdraiarsi senza sentire dolore. Posso dire però che se ne è andato sereno. Ha passato gli ultimi giorni in casa, come aveva sempre voluto, con accanto le persone che gli volevano bene. Non è stato facile, perché lo abbiamo visto appassirsi di giorno in giorno, smettere prima di mangiare, poi di dormire, bere, camminare.

Immagino che la morte dei genitori sia un passaggio obbligato della vita adulta, e che quello che sto passando sia tutto sommato comune nell'esperienza di vita di tutti. Non ritegno il mio dolore particolarmente acuto o diverso rispetto a quello di chiunque altro. Eppure mi rendo conto che è impossibile comprenderlo senza averlo vissuto. Espressioni quasi astratte come mi ha lasciato un vuoto dentro, piangere fino a finire le lacrime, smettere di soffrire, che trovavo quasi fastidiose per la loro banalità, hanno assunto ora una prospettiva diversa. Ora so, ora capisco. E mi sento quasi in colpa per aver sminuito dentro di me la portata di queste frasi, quando le ho sentite dire in precedenza. In prospettiva, mi sembra che anche altre cose assumano un senso diverso, penso a tutti quei libri e film in cui un evento del genere è un punto centrale della storia, e che all'epoca posso aver considerato come scontato, ma adesso devo riconsiderare. Perché no, non è scontato.

Devo a mio padre molto di quello che sono. È probabilmente grazie a lui che ho subìto la contaminazione della narrativa fantastica, quando da bambino mi portava i volumi presi in edicola de La Storia Ancestrale; oppure quelli dei dinosauri, degli insetti, dei giochi matematici. Forse tutte le cose risalenti alla mia infanzia che conservo con più cura (e non sono molte, perché ho davvero pochi ricordi della mia vita prima dei nove-dieci anni), me le ha procurate lui. Mio padre era un amante dei libri pur non essendo un gran lettore, gli piaceva comunque circondarsi di manuali, atlanti, enciclopedie. Ingengere mancato, ha abbandonato l'università un paio di esami prima della laurea, ma ha sempre conservato la passione per i numeri e la meccanica. Quanto di tutto questo sia filtrato a me non è difficile da capire.

Quando ho pubblicato Spore, che era "il mio primo libro", ovviamente ne ha voluto una copia, e mi ha chiesto di inserire una dedica. Io, senza pensarci troppo, ho scritto:
A mio padre, che mi ha insegnato la curiosità e la dedizione
Credo che di non aver mai azzeccato così tanto una dedica. La curiosità è quella che lo portava a chiedersi continuamente come le cose funzionavano, e preferiva risolvere un problema su un'auto o un elettrodomestico con una lunga sessione di reverse engineering piuttosto che affidandosi a qualche specialista. La dedizione era la sua capacità di impegnarsi con tutto se stesso per ottenere un risultato, senza necessariamente affrettare i passi, ma lavorando con precisione per ottenerlo anche nel lungo termine.

Mio padre era un gran lavoratore, anche questo si sente dire spesso, ma di fatto è così. Ha lavorato fino a due settimane prima della sua scomparsa, certo con ritmi più morbidi, ma con la preoccupazione di continuare a offrire il servizio ai suoi clienti. Per gli ultimi trent'anni ha sempre avuto attività sue, che gestiva praticamente da solo, ma ha fatto anche esperienze e progetti diversi, dalla politica alla beneficenza, non sempre fortunati. Durante gli europei di calcio del 2000 (quelli persi con la Francia per colpa dell'infame golden goal), il giorno della finale passò il pomeriggio sulla spiaggia a fare il venditore ambulante di bandiere dell'Italia, per provare anche quel tipo di attività. Non ebbe un gran successo, devo ammettere. Mio padre in media usciva alle 6 di mattina e rientrava a casa dopo le 21, ma non per questo era uno di quei "padri assenti" da telefilm, quelli per cui il figlio esprime il desiderio che possano passare più tempo con lui. Non ho mai sentito la sua mancanza, anzi, c'è stato in tutta una serie di momenti importanti: c'era quando ho fatto il mio primo incidente da neopatentato, c'era quando ho corso la prima maratona, c'era alla prima presentazione del mio libro, c'era quella volta che avevo bisongo di piangere perché non ero più sicuro di cosa avrei fatto.

Era una persona educata ma piuttosto chiusa, facile alla battuta ma che esitava a dare confidenza. Erano poche le persone al di fuori della famiglia che si potessero dichiarare davvero vicine a lui, infatti molti hanno appreso della sua morte del tutto all'oscuro della malattia scoperta sei mesi prima. Era testardo al limite dell'arroganza, spesso era impossibile fargli cambiare idea su un argomento, in particolare su questioni pratiche e di lavoro per cui aveva già elaborato una sua strategia. Aveva un forte senso di dignità, che ha conservato anche negli ultimi giorni, quando sarebbe stato più facile lasciarsi andare: martedì sera, quando sono rimasto a dormire nella stanza con lui per quella che sarebbe stata la sua ultima notte, ho chiesto se volesse che gli tenessi la mano, e ha risposto, deciso: "Assolutamente no!". Sentiva su di sé la responsabilità di chi gli stava intorno, e non mi riferisco soltanti ai familiari, ma anche a chi ha lavorato per lui (con cui ha mantenuto i rapporti anche in seguito) e chi contava su di lui per lavoro. La sua responsabilità si estendeva anche a chi non aveva alcun modo di apprezzarla: basta pensare che l'ultima volta che è uscito di casa è stato per controllare che la nuova vasca per le tartarughe, che aveva acquistato qualche settimana fa ma non era riuscito a installare, fosse stata montata nel modo giusto da me e mio cognato. Si preoccupava che potessero stare bene, visto che la vasca precedente era rotta e rimaneva spesso senz'acqua. Può sembrare una cosa marginale, ma bisogna considerare lo sforzo immane che ha compiuto, solo per accertarsi che quelle bestie ottuse e ingrate fossero sistemate: facile provare amore per un cane, ma un rettile che sta per lo più rintanato nel suo guscio e non esprime alcun tipo di emozione o attaccamento è un'altra cosa.

La cosa curiosa è che rileggendo il paragrafo qui sopra, se non sapessi che il soggetto è mio padre, potrebbe essere una descrizione che si applica anche a me. Per molti aspetti, pur senza rendermente conto, ho finito per diventare come lui. Col senno di poi, mi rendo conto che mi ha insegnato molto, ma lo ha fatto nel modo più efficace, da buon narratore, usando lo show don't tell. Non si trattava di lezioni impartite con parole e l'indice alzato, ma di mostrare come le cose dovessero essere fatte, in modo che potessi capire da solo, col tempo, qual era la giusta condotta da seguire. Sono convinto che, pur essendo scomparso, non abbia finito di insegnarmi, e che negli anni a venire imparerò ancora tanto da lui.
 
Con questo non voglio idealizzarlo, perché aveva anche i suoi difetti e lati oscuri. Una delle cose che più spesso gli ho rimproverato è la mancanza di interessi al di là del lavoro. Faceva una netta distinzione tra le attività utili e inutili, e le seconde non meritavano il suo tempo. Forse se fosse stato appassionato di qualunque cosa, avrebbe potuto trascorrere questi ultimi mesi dedicandosi a essa, e godersi di più il poco tempo rimasto a pescare, a guardarsi le partite, a suonare la chitarra, a costruire modellini... qualunque cosa. Temo però che anche se avesse avuto un hobby, non lo avrebbe mai eletto a sua attività principale, pur sapendo che gli rimaneva poco tempo. Avrebbe volute essere utile fino in fondo. Un'altra cosa che non mi convinceva era il modo in cui si gettava a capofitto su progetti e idee di dubbia validità, spesso affidandosi fin troppo a persone che non avevano dimostrato lo stesso interessamento la stessa dedizione, finendo così per trovarsi da solo con un'impresa pressoché impossibile. Ma resta il fatto che anche da questi suoi punti deboli posso imparare qualcosa.

Mio padre non lascerà un segno nella storia, questo lo so, ma al tempo stesso so che lascia un mondo migliore di come lo ha trovato, e questo non è poco. Se anche i dottori che lo hanno avuto in cura, gente che vede malattia e morte quasi quotidianamente, si sono commossi e sono passati a salutarlo, qualcosa deve pur significare.

Non ho particolari rimpianti nei suoi confronti. Sono sicuro che era fiero di me e di quello che facevo, come mi hanno confermato anche molte delle persone raccolte per il funerale. Forse l'unica cosa che mi dispiace è che non sia mai venuto nella nuova casa in cui mi sono trasferito a febbraio, ma le cose da sistemare erano tante, e abbiamo continuato a rimandare, ignari che invece il tempo era poco... e così non è stato possibile. Ho parlato con lui, mercoledì mattina, un paio d'ore prima di quel momento finale (quando pensavo che sarebbe rimasto forse per una decina di giorni ancora), e gli ho detto quello che volevo dirgli e non avevo mai avuto l'occasione, o forse il coraggio, cose che devono rimanere tra un gentiore e un figlio. Purtroppo non sono sicuro che abbia capito tutto, perché in quel momento aveva già perso lucidità, ma ha annuito, mi ha stretto la mano, quindi spero che abbia sentito e compreso, e che questo lo abbia aiutato ad andarsene in pace.

Una cosa che non saprò mai è se lui fosse consapevole del poco tempo che gli rimaneva. Il male che lo ha colto è uno di quelli che lascia poco scampo, che ti marchia con una data di sadenza a sei mesi, e questo lo sapeva fin dal primo momento. Ma credo che ci abbia creduto, almeno all'inizio, di potercela fare, altrimenti non si spiega perché tenesse un diario così meticoloso di tutti i suoi aggiornamenti: quello che mangiava, le medicine prese, dolori, evacuazioni, reazioni, temperature, visite, prescrizioni. L'ultima registrazione su quel diario è del 10 luglio, domenica, quando mi ha chiesto di trascrivere la pressione che l'infermiere gli aveva appena misurato. Eppure anche quando i risultati degli esami hanno mostrato che non c'erano miglioramenti, ha continuato a dire #celafaremo, che scriveva proprio in questa forma, come hashtag di chiusura di tutti i messaggi che mandava. So che la speranza è un sentimento fondamentale in questi casi, ma ho il sospetto che il #celafaremo fosse più a beneficio di chi gli stava intorno che suo, perché era troppo intelligente e ben informato per poterci credere fino in fondo.

Di fronte a quello che è successo, mi rendo conto di quanto sia seducente l'idea di un aldilà, la speranza che da qualche parte quella persona ti sita aspettando. Non sono religioso, so che la morte non è un "passaggio" ma una mera applicazione del principio di entropia, eppure per un attimo ci ho quasi voluto credere, e anche in questo caso non mi sento di condannare chi ha bisogno di crederlo per poter affrontare una perdita del genere. Ho anche provato a chiederlo, in maniera del tutto indelicata, a qualcuno che aveva vissuto la morte di un genitore prima di me: come si fa a superare una cosa del genere?

Non si può, mi è stato risposto entrambe le volte. Era una risposta che non mi aspettavo, ma che già inizio a sentire appropriata. Questa non è una cosa che va superata, non si può dimenticare e lasciarla dietro, ma bisogna conviverci, giorno per giorno, portarsela dentro e trarne il meglio. Anche tornando, gradualmente, alla confortante routine quotidiana, si continua a vivere con la consapevolezza che non è tutto come prima, che c'è un vuoto dentro che non verrà più riempito.

Quindi è vero, adesso ho un vuoto dentro con cui devo convivere, ma è un buco che la forma di mio padre, ed è una forma intorno alla quale posso costruire qualcosa, qualcosa che mi renda sempre più quello che sono, che è in gran parte dovuto a quello che era lui. Dicono che gli somiglio anche, questo non lo so perché non sono capace di vedere le somiglianze, eppure deve essere vero, perché in questi giorni è quando colgo di sfuggita una mia immagine allo specchio che mi sale di colpo il magone, come se non essendo preparato a vedere il mio volto mi sembrasse per un attimo di aver visto il suo. Possiamo anche pensare, a questo punto che una banalità in più o in meno non fa differenza, che se gli occhi sono lo specchio dell'anima, allora è possibile che io abbia davvero i suoi.
 
L'ho detto all'inizio e lo ripeto, non scrivo tutto questo perché penso che la mia perdita e il mio dolore siano più forti o speciali di quello che chiunque altro ha sperimentato in questo momento. Ma avevo bisogno di scrivere queste parole, di lasciare un segno, e se significa usare per una volta questo spazio per qualcosa di personale, che sia. Volevo che tutte queste riflessioni rimanessero impresse, che ciò che mio padre è stato, e continua a essere in me e per me, fosse chiaro. Queste cose sono successe, e dovevano essere raccontate.

Solo che finora ho sbagliato, perché ho parlato di mio padre, ma lui non era "mio padre". Era babbo.

È per lui che scrivo tutto questo, è per lui che continuerò a vivere nel nome della curiosità e della dedizione, è per lui che ho trovato queste ultime lacrime, anche quando pensavo di averle finite.

Ciao babbo.

DOMENICO VISCUSI
14-6-1956 - 13-7-2016



Interruzione temporanea

Post di servizio per informare che Unknown to Millions andrà in pausa per un po'. Non è una pausa di riflessione né una vacanza estiva, è che al momento mi trovo in una situazione che non mi permette di dedicare al blog il tempo e soprattutto la disposizione d'animo necessaria per scrivere. Ho bisogno di occuparmi di cose che, a differenza di un post sul blog, non possono aspettare, per cui tengo in sospeso tutto, a tempo indefinito, ovvero fino a quando le cose non si saranno risolte. Il che, ironicamente, potrebbe anche avvenire molto presto.



Mi pareva corretto avvertire quei due-tre lurker che girano da queste parti, anche se sono cosciente che il mondo potrà benissimo fare a meno di Unknown to Millions, come può fare a meno praticamente di qualunque cosa.

Potrei aggiungere molte altre cose che mi passano per la testa in questo momento, ma esulerebbero dai temi di questo blog, quindi concluso semplicemente con un arrivederci a tempi migliori.

L'arco narrativo dell'Undicesimo Dottore

Visto che non avremo niente di nuovo di Doctor Who fino a natale, ma su questo blog ho voluto creare una rubrica apposita, per riempire il vuoto di questi mesi mi concedo una piccola riflessione. Mi è capitato più volte di imbattermi in discussioni e commenti in cui si affrontava il tema del passaggio dall'Undicesimo Dottore (Matt Smith) al Dodicesimo (l'attuale Peter Capaldi), e in genere viene detto che la storia dell'Unidcesimo è incompleta e poco organica, senza un vero e proprio arco narrativo che ne comprenda il percorso e conduca a una conclusione degna. Il che è tremendamente errato, o almeno un'interpretazione molto superficiale. Quindi mi permetto di esporre quella che ritengo sia la storia che abbraccia tutto il periodo di Matt Smith, e che molti non sono stati in grado di cogliere. Sia chiaro, non penso di essere l'unico eletto ad aver capito la cosa, gli elementi mi paiono evidenti, e in realtà mi sorprende il fatto che molti sembrano non averli colti. Ma appunto, se qualcuno là fuori non ci è arrivato, provo a spiegarlo.

Forse il problema più grosso nel poter cogliere l'intero arco narrativo è che il punto di inizio e di arrivo è tutto incapsulato in un unico episodio: The Time of the Doctor, che è appunto l'episodio in cui l'Undicesimo Dottore (che poi sarebbe già la tredicesima rigenerazione) lascia il posto alla sua incarnazione successiva. Breve recap della puntata (che non si trova commentata sul blog perché ho iniziato dalla stagione 8): il Dottore è alla ricerca di Gallifrey (ricordiamo che siamo appena dopo The Day of the Doctor, in cui ha scoperto che non è stato distrutto ma incapsulato in un microuniverso parallelo) e un segnale misterioso lo porta su Trenzalore, qui scopre che i Time Lord lo stanno chiamando per poter tornare nell'universo "madre", ma al loro ritorno si oppone tutto il resto delle specie senzienti perché la Time War esploderebbe di nuovo. Il Dottore si stabilisce quindi sul pianeta e lo protegge dai continui attacchi che cercano di distruggere il punto di accesso dei Time Lord, in attesa del momento giusto per poterli far tornare. Qui vive oltre 300 anni e arriva alla fine della sua vita (trattandosi dell'ultime rigenerazione), quando ormai sono rimasti solo i Dalek ad opporsi e stanno vincendo. Alla fine sono proprio i Time Lord a concedergli un'altra rigenerazione e permettergli di cacciare i Dalek, per poi scomparire del tutto. Si tratta di un episodio lungo e con abbondanza di sottotrame e personaggi nuovi, eppure tutti gli elementi per comporre l'intera storia, a partire dalla quinta stagione fino all passaggio da Eleven a Twelve sono lì.

Mettiamo le carte in tavola, ricordando quali sono i temi ricorrenti delle singole stagioni di Matt Smith:

  • Stagione 5: le "crepe" nella realtà. Ricorrono per tutta la stagione e nel finale si scopre che sono generate dall'esplosione del Tardis, a sua volta causata dal tentativo di River Song di salvare il Dottore imprigionato nel Pandorica. Questo imprigionamento è una sentenza a cui tutti i suoi nemici di comune accordo lo hanno condannato, per preservare l'integrità dell'universo, sapendo che lo avrebbe distrutto. Per rimediare tutto questo, il Dottore riavvia l'universo e tutti sono contenti.
  • Stagione 6: il Silenzio. Silence will fall (già accennato nella stagione precedente), ovvero il tentativo di uccidere il Dottore prima che possa rispondere alla domanda "Doctor Who?", che sarà pronunciata proprio su Trenzalore. Questo incidentalmente dà origine anche a River Song, ma la questione è marginale.
  • Stagione 7: il tema ricorrente è Clara/Impossible Girl, che in ultimo è un pretesto per ritornare al passato del Dottore, al War Doctor e all'ultimo giorno della Time War, e in The Day of the Doctor si scopre che Gallifrey non è davvero distrutto ma solo chiuso in un universo-bolla per proteggerlo. Inizia così la ricerca del pianeta perduto dei Time Lord.

Tutti questi fili tra loro non direttamente collegati, che sembrano fare da collante solo alle singole stagioni, in realtà vengono intrecciati insieme durante The Time of the Doctor. Le parti chiave avvengono principalmente nei colloqui tra il Dottore la papessa, nei brevi momenti di tregua durante l'assedio di Trenzalore. Qui apprendiamo diverse cose:
  • Le crepe nell'universo sono la soglia attraverso cui i Time Lord si affacciano dal loro universo portatile.
  • La domanda Doctor who? è il messaggio che i Time Lord stanno inviando dall'altra parte, in modo da sapere quando possono emergere.
  • La setta del Silenzio è un ramo separatista della Chiesa che ha deciso di intervenrie con la forza per prevenire la risposta alla domanda (e i Silence in particolare sarebbero dei confessori, opportunamente riciclati come forza lavoro).
Ricomponendo il tutto, si può ottenere la storia nel suo ordine "cronologico", o almeno nella sequenza di rapporti causa-effetto che ha portato alle varie situazioni che si succedono, in ordine non cronologico, nel corso delle stagioni.
  1. Nell'ultimo giorno della Time War, il Dottore fa sparire Gallifrey chiudendolo in un universo parallelo.
  2. I Time Lord sanno di essere rinchiusi in un inframondo e intendono tornare all'universo madre. Iniziano così a diffondere in tutto lo spazio e il tempo il messaggio "Doctor who?" A questa domanda solo il Dottore (che è l'unico Time Lord ancora presente nell'universo principale) può rispondere, per questo i Time Lord sanno che quando riceveranno risposta sarà il momento di tornare.
  3. La formazione delle crepe nel tessuto della realtà (vedi sotto punto 8) permette ai Time Lord di inviare il loro messaggio nell'universo e attendere la risposta.
  4. Il Dottore dopo aver rivissuto gli eventi della Time War capisce che Gallifrey è intrappolato e inizia a cercarlo. Arriva quindi su Trenzalore dove trova una delle crepe da cui il messaggio Doctor who? si origina.
  5. Su Trenzalore sono arrivati anche tutte le altre razze, in particolare la Chiesa. Tutte queste vogliono impedire il ritorno dei Time Lord per evitare che la Time War riprenda, per questo tengono il pianeta sotto assedio e intimano al Dottore di non rispondere alla chiamata dei gallifreyani.
  6. Il Dottore fa una sorta di accordo con la Papessa, ma una corrente interna alla Chiesa non ci crede e decide di intervenire direttamente per evitare che il Dottore possa rispondere. A capo di questa sezione c'è Madame Kovarian (la signora con la benda sull'occhio della stagione 6).
  7. La Kovarian fonda la setta del Silenzio, mette su la sua squadra e torna indietro nel tempo per fermare il Dottore. Il suo piano iniziale è quello di imprigionare il Dottore e impedire che possa arrivare a Trenzalore per rispondere.
  8. Con il supporto degli altri suoi nemici il Silenzio crea la prigione Pandorica e il complotto che porta il Dottore a esservi imprigionato. Il piano però non funziona alla perfezione, e per liberare il Dottore River Song fa esplodere il Tardis, che crea le crepe nella realtà attraverso cui i Time Lord possono affacciarsi per lanciare il loro messaggio (vedi sopra punto 3).
  9. Come piano alternativo (visto che hanno fatto pegio che meglio) il Silenzio decide di uccidere il Dottore, per farlo rapisce e "programma" Rivers Song. Il Dottore viene ufficialmente ucciso (per quello che ne sanno loro) nel 2011 (primo episodio della stagione 6).
  10. Il Dottore in realtà è sopravvissuto e può così arrivare a Trenzalore, dove sostiene l'assedio fino all'ultimo minuto, quando Clara chiede l'intervento dei Time Lord per salvarlo, e loro gli concedno la rigenerazione.
  11. A questo punto in effetti non è chiarissimo se i Time Lord hanno deciso subito di uscire o se ne sono rimasti nel loro universo ancora un po', sta di fatto che senza che nessuno ci facesse caso sono tornati visto che alla fine della nona stagione il Dottore raggiunge Gallifrey.
Il percorso è un po' ingarbugliato perché come sempre stiamo parlando di eventi passati e futuri che si influenzano a vicenda, per cui le azioni compiute dalla setta che vuole impedire l'arrivo del Dottore sono quelli che permettono in primo lugo che i Time Lord lo chiamino, e così via. Ma questo è il solito wibbly-wobbly a cui gli spettatori di Doctor Who sono avvezzi.


Non dico che la storia sia perfettamente coerente e progettata fin dall'inizio. Probabilmente molti elementi sono stati fatti combaciare solo a posteriori, e in questo senso un esempio perfetto è il frammento dell'episodio The God Complex, in cui il Dottore visita la stanza che dovrebbe contenere la sua più grande paura. In quel momento non viene mostrato cosa contiene, ma in The Time of the Doctor vediamo che era la solita crepa nel tessuto della realtà. Dubito proprio che all'epoca questo fosse già stato previsto, probabilmente la scena era rimasta ambigua proprio per permettere in seguito di ricollegarsi con qualunque cosa potesse servire.

Ma, al di là della completezza o anche della bontà di questa storia, non si può negare che un tentativo di unificare (se pur a posteriori) in un unico arco narrativo tutto il percorso dell'Undicesimo Dottore è stato fatto. Rivedendo le sue prime stagioni con il senno di poi è un esercizio interessante, che conferisce una prospettiva diversa su alcuni aspetti.