Synecdoche, New York è un film del 2008 scritto e diretto da
Charlie Kaufman. Questa prima essenziale proposizione dovrebbe bastare a suscitare attenzione, ma se così non è stato, vedo di spiegarmi meglio. Forse il nome non vi è del tutto familiare, ma di Charlie Kaufman, se seguite un minimo il
mondo cinematografico, avete sentito sicuramente parlare, almeno indirettamente.
Kaufman è infatti piuttosto noto come sceneggiatore per aver scritto diversi film che, indipendentemente dal successo, si sono rivelati in un modo o nell'altro sorprendenti: a partire dall'iconico
Essere John Malkovich del 1999, fino a
Adaptation/Il ladro di orchidee, e l'immenso
Eternal Sunshine of the Spotless Mind, film preferito in assoluto di chi scrive. Purtroppo, per una radicata stortura del mondo/mercato del cinema, l'autore di un film (soprattutto nel caso di sceneggiature originali) non ha mai una posizione di rilievo quanto i suoi interpreti o il regista. Per questo Kaufman rimane comunque una figura di secondo piano, anche se con registi moderni e innovativi come Michel Gondry e Spike Jonze (sì, quello che faceva le cazzate in
Jackass, ma è pure un discreto regista) è riuscito a dare vita a pellicole davvero memorabili. È riuscito, addirittura, a dare spessore a
un film diretto da George Clooney (sì: George Clooney regista) che racconta la storia di un autore televisivo, e ha pure avuto la sfacciataggine di scrivere
un film con se stesso protagonista che scrive il film (ed è poi stato interpretato da un sorprendentemente valido Nicholas Cage). Tutti i suoi film si muovono in un territorio ambiguo tra il fantastico, il misterioso e il fantascientifico, mostrano a tratti elementi surreali, spesso autoironici, e si concludono con finali circolari o aperti. In tutti i casi, anche quando il tono è più leggero come in
Human Nature, sicuramente non lasciano indifferenti. Insomma, non voglio dire che Charlie Kaufman sia il Re Mida contemporeaneo della sceneggiatura, ma penso che sia un ottimo esempio di come l'autore di un film sia determinante per la sua buona riuscita.
In
Synecdoche, New York, per la prima volta Kaufman non è solo autore ma anche regista. Questo fa quindi pensare che il film sia l'espressione più genuina della sua "poetica" (non mi piace il termine, ma il senso è quello: il complesso di idee, temi, stili e strumenti comunicativi), e probabilmente è così. Attualmente, nonostante ci siano alcuni progetti in corso, non sono usciti altri suoi film successivi a questo, che non è arrivato in Italia e probabilmente, a questo punto, non arriverà più, renendolo di fatto un
film che non vedrete mai. Il titolo è un gioco di parole di
Schenectady, New York, località in cui si svolge per lo più la storia (lo scopro grazie a wikipedia, ma io non sono newyorchese e non potevo saperlo), ma, se ricordate le lezioni di letteratura del liceo, riconoscerete anche la parola "sineddoche", che è quella figura retorica con la quale si utilizza la parte di un oggetto per rappresentare il tutto, o viceversa.
La trama è in un certo senso abbastanza semplice da riassumere: il protagonista è Caden Cotard, un regista teatrale (interpretato da Philip Seymour Hoffmann) complessato e depresso, la cui famiglia (la moglie Adele [Catherine Keener], e la figlia Olive) si sta disgregando. Inaspettatamente, Cotard riceve un prestigioso premio che gli permette di mettere insieme un grandioso spettacolo tutto suo, e in cerca dell'idea adatta inizia a ricostruire e riprodurre in un gigantesco studio la sua vita, la sua città, il suo mondo. La "storia" è praticamente solo questa, ma lo svolgimento è estremamente complesso. Infatti, mentre nel "mondo reale" Cotard cerca di rintracciare la figlia, portata a Berlino dalla madre, nel suo spettacolo coinvolge centinaia di persone, come personaggi principali, comparse e "doppi", così che progressivamente il confine tra la realtà e la rappresentazione si assottiglia sempre di più, quando ogni doppio (ne esiste anche uno di Cotard stesso) prende non solo a copiare il suo "originale", ma ad anticiparlo, e richiede a sua volta un doppio (quindi "triplo") che lo interpreti. Lo stesso gigantesco set, che riproduce dapprima solo una strada, poi un quartiere, poi un'intera città, si allarga fino a comprendere un altro set identico a se stesso, che ha all'interno tutti gli stessi elementi del primo... incluso un terzo set. La sineddoche del titolo è quindi evidente, con successive stratificazioni di livelli di "finzione" che devono rappresentare quello adiacente, ma a questo si sovrappongono e intrecciano, andando a costituire così uno strato del tutto autonomo e autentico. In tutto questo, Cotard trascorre anni e decenni, quasi ignaro del passare del tempo, cercando di trovare la giusta storia da inscenare. Lo si vede invechiare durante il film, appassire sempre di più, pur cercando, per quanto possibile (e spesso non lo è, o è troppo tardi) di riappacificarsi col suo tormentato passato.
Questo film, assurdamente, non è tanto facile da descrivere quanto lo è da analizzare. Gli elementi metaforici e simbolici, i riferimenti e le citazioni, sono così frequenti ed evidenti che di fatto costituiscono il messaggio che emerge, la parte che rappresenta il tutto, la sineddoche che l'autore/regista vuole mostrare. Il tema di fondo è, a conti fatti, la vita stessa, e non nel senso in cui qualunque opera, per definizione, discende dalla vita dei suoi autori, ma proprio perché nella complessiva figura retorica che il film rappresenta, ogni parte è il tutto, e le vite dei personaggi/attori/protagonisti, come emerge proprio nelle sequenze finali, sono esse stesse le storie principali: la storia di Cotard non è la sua, ma è quella di tutti, e quella di ognuno è quella di ogni altro, in una sorta di olismo che tuttavia non ha niente della mistica new-age.
Come in tutti i film di Kaufman, ci sono dei dettagli surreali, primo fra tutti l'immenso capannone che fa da set allo spettacolo, capace di contenere a sua volta un capannone che contiene un capannone, in aperta violazione di un preciso criterio dimensionale, ma a favore della solita metafora che deriva dal titolo. Si trova poi la casa in fiamme, che Hazel, l'assistente di Cotard, acquista così com'è, e in cui vive quotidianamente tra fuoco e fumo, accettandoli come fossero soltanto complementi d'arredo. Il tema del cambiamento di scala viene poi riflesso da un lato nel tentativo di Cotard di rimettere in scena tutta la sua realtà, e dall'altro nel lavoro di sua moglie, di fatto principale "antagonista", che dipinge ritratti minuscoli, che rimpiccioliscono sempre di più nel corso del film: mentre lui aumenta di dimensione, andando a includere sempre maggiori particolari e particolari dei particolari, Adele fa l'opposto, riducendo sempre di più, ma non di meno riuscendo a suo modo a mostrare il
tutto che ha in mente. Ci sono in effetti decine di altri dettagli, apparentemente marginali, come il rapporto con Olive, la percezione del tempo, la continua
mise en abyme (che ricorreva anche in
Adaptation) per cui si assiste alla stessa scena più volte, ma riprodotta a diversi livelli da diverse persone con diversi significati, l'auricolare che nell'ultima parte suggerisce ai personaggi come muoversi, e riassume, nel drammatico, devastante finale, quanto fino a quel momento Cotard stesso aveva cercato di capire, e solo all'ultimo istante realizza.
Volendo paragonarlo con uno dei film precedenti, l'affinità maggiore è proprio con Adaptation, in cui Nicholas Cage interpreta lo stesso Kaufman alle prese con la sceneggiatura del film. Come il Kaufman di questo film, Cotard è insicuro, paranoico, quasi ossessivo-compulsivo, socialmente inadatto, sessualmente represso e profondamente depresso. Non è da escludere che questa tipologia di personalità sia quella del "vero" Charlie Kaufman, e che portarla su schermo sia un modo per esorcizzarla, ma non mi voglio spingere fino alle analisi psicologiche che comunque non aggiungerebbero molto. Di certo, il senso finale delle due pellicole è abbastanza diverso, forse perché Adaptation ha una vera e propria svolta dopo la metà, quando Kaufman chiede al suo (inesistente) gemello di scrivere lui il film, cambiando completamente tono alla storia. In Synecdoche, New York non sembra esserci un riscatto finale, e anzi proprio nelle ultime immagini tutto confluisce nel disastro e nella distruzione di quanto affermato, ma questo, d'altra parte, era il significato ultimo, quello che fin dall'inizio l'autore cercava di mostrare, e la lunga sineddoche si riannoda quindi manifestandosi un'ultima volta.
Parlando del lato tecnico, il film è ineccepibile, curato in tutti i dettagli, dalle scenografie (che pure hanno sempre un che di claustrofobico, visto che ogni volta che ci si trova sul set che appare come una città siamo in realtà dentro un capannone) alla colonna sonora di Jon Brion (già compositore per Eternal Sunshine of the Spotless Mind). Gli attori stessi sono ottimi, a partire da Hoffmann fino alla Keener, attrice a quanto pare molto cara a Kaufman, visto che appare in metà dei suoi film. Eccellente è anche il livello di coinvolgimento dei "doppi", che nonostante l'apparenza fisica diversa riescono a interpretare un personaggio che interpreta un personaggio, mantenendo tanto la loro parte quanto quella del loro "originale". Sì, è un discorso contorto, ma deriva da un'opera decisamente non lineare, e non posso esprimermi più chiaramente di così.
Synecdoche, New York, in definitiva, è un film complesso, che richiede una notevole attenzione e trasmette una certa angoscia. Non è un film da guardare una sera qualunque, con due amici o con la fidanzata. Anzi, forse è proprio il tipo di film che è bene guardarsi da soli, in silenzio e al buio, per potersi concentrare su quanto viene detto e quanto viene lasciato intuire. Non sarà facile digerirlo, ma ne vale la pena.