Mese dedicato a fantascienza italiana distopica, non per un preciso disegno ma perché mi sono trovato a leggere due libri etichettabili in questo modo, anche se dobbiamo sempre ricordare per i bambini a casa che Le Etichette Non Contano, fatevi aiutare da un adulto se non sapete come usarle.
Il primo libro di cui parliamo è
Scatole nere, romanzo d'esordio di
Matteo Romiti, che a quanto dice la quarta di copertina è di origine italiana ma vive in francia. Quando ho saputo di questo libro ero moderatamente curioso, perché sono sempre ben disposto verso le "nuove voci" della fantascienza italiana, ma devo ammettere che dopo aver letto la presentazione sul sito dell'editore l'entusiasmo è un po' scemato. Dice infatti la fascetta:
un thriller psicologico, una storia di
fantascienza distopica, un romanzo di scissione e ricomposizione
inconsueto e inquietante. Il racconto scurissimo di come quello che
viviamo determina in modo incontrollabile ciò che diventeremo. Ora, a me che sono un po' sgamato di gergo editoriale, a me questa presentazione (che poi prosegue con una sinossi più o meno con lo stesso tono) puzza vagamente di supercazzola. Del tipo: guarda non so bene nemmeno io di che si parla, però c'è questa atmosfera cupa che non ti dico, proprio forte eh. Che per carità, può essere un approccio interessante e magari è proprio l'intenzione del libro, però è una partita rischiosa. Perché se scegli di tenermi trecento pagine a leggere qualcosa che non è una storia, o che comunque non mostra i tratti evidenti di quello che una storia dovrebbe avere, allora ci sono due possibilità per rendermi soddisfatto: o proponi un concept così mindblowing che ogni pagina che giro mi pare di cascare di nuovo nel buco del bianconiglio, oppure hai una scrittura così incredibile che è come se mi prendessi a schiaffi con le parole e non ci capisco nulla.
Scatole nere però non ha nessuno dei due. Ci prova, forse, ma fallisce in entrambi i casi. L'ambientazione è un generico mondo distopico diviso in settori e afflitto da una pandemia (duh) per cui tutti sono sottoposti a rigidi controlli e non possono transitare liberamente: niente che non si sia visto centinaia di volte negli utimi 180 anni di fantascienza mondiale (con un imprevedile picco negli ultimi 18 mesi), per cui sul lato concept e worldbuilding non ci sono punti da segnare. La scrittura ha quella patina di ermetismo con le frasi secche ed enfasi continua (quando tutto è in tensione, niente è in tensione), senza segni di dialogo e personaggi che non hanno nomi ma vengono indicati continuamente con locuzioni tipo "la donna dai capelli fini". Se inizialmente questo stile crea un notevole straniamento, che è senza dubbio una delle sensazioni che il libro vuole suscitare, l'impatto non si stempera andando avanti e si continua a rimanere distanti e ignari della storia che si svolge. Quale sia questa storia che si svolge ho difficoltà a dirlo, perché se pure vengono presentati dei personaggi con delle caratteristiche riconoscibili (l'uomo in cerca della moglie, la donna con le spine all'interno, il medico contagiato), dopo aver inquadrato i protagonisti ci si trova soltanto ad avere gente che si muove, che prova ad andare da una parte o dall'altra, senza che sia chiaro perché lo facciano e quali rischi corrano. Tutto quello che viene raccontato è estremamente vago e confuso, offuscato da questa scrittura che tende a ricoprire le azioni con una pesante nebbia di fraseggi a vuoto. Ora, siccome io non ho la pretesa di essere infallibile, prima di parlarne mi sono andato a cercare un po' di commenti in giro, e ho trovato nella maggior parte dei casi semplicemente la ripetizione di quelle parole che si trovano nella quarta o nella cartella stampa (es: "Le scatole possono essere stanze, giardini, persone, proiezioni di una mente malata o semplicemente disperata"). Quindi deduco che nemmeno gli altri che lo hanno letto (bookblogger e magazine vari) ci abbiano capito granché, e si sono limitati a copiare le parole che avevano già a disposizione. C'è un commento uscito su un giornale di Valerio Evangelisti che ne parla bene come testo slipstream, e in un certo senso ha ragione, ma anche lui non va oltre le "atmosfere" che derivano dalla lettura, mentre per quanto riguarda temi, intreccio, coinvolgimento, e tutte quelle caratteristiche che dovrebbe avere una storia, nessuna menzione. Insomma, può essere un libro interessante come esercizio di scrittura ermetica, ma arrivati alla fine a me non è rimasto niente se non la locuzione "la donna dai capelli fini". A mio avviso (ma può benissimo essere un limite mio,
come con Pynchon), questo non è ciò che deve fare la narrativa. Una scommessa persa, che avrebbe dovuto essere ponderata meglio, perché se ti mostri pretenzioso o sei davvero un fenomeno oppure finisci per passare da dilettante inconsapevole dei propri limiti.
Voto: 4/10
Il secondo libro che ho letto è completamente diverso ma ha per certi versi alcune affinità con il precedente, nel senso che è un libro fortemente legato alla personalità dell'autore, che nel caso specifico è
Michele Vaccari. Vaccari è un personaggio interessante nel panorama editoriale italiano, uno di quelli che ha saputo muoversi dall'underground e arrivare a toccare se pur fugacemente gli ambienti "rispettabili" della cultura mainstream senza perdere la sua dedizione alla controcultura.
Urla sempre primavera si capisce molto meglio tenendo presente questo percorso e questo suo ruolo, non perché altrimenti sia incomprensibile (una storia da raccontare ce l'ha eccome, anzi più di una), ma i temi più profondi e l'identità del romanzo sono strettamente collegati alla visione e ai valori dell'autore, e forse mancando queste nozioni un lettore potrebbe non cogliere del tutto il messaggio del libro. Questo aspetto è a un tempo la forza e la debolezza del romanzo, perché richiede un certo coinvolgimento del lettore come parte attiva della narrazione, ed è a suo modo una scommessa, che in questo caso a mio avviso si può considerare ben giocata, nel senso che le possiblità di perderla ci sono ma solo nei casi in cui il piatto è ridotto, mentre quando il piatto è ricco allora è più facile vincerla (fuor di metafora: il piatto è appunto il coinvolgimento del lettore non solo in quanto lettore). La storia di USP copre cento anni di storia italiana centrata su Genova, dal 8 settembre 1943 al 8 settembre 2043, con tre generazioni della famiglia Delfino che attraversano, vivono e plasmano la storia, ognuno con una diversa idea di resistenza. Uno dei perni centrali della narrazione è il G8 del 2001, come evento che ha svelato le carte mostrando qual era il percorso che il mondo aveva intenzione di prendere e che, già a distanza di vent'anni, pare prorio che abbia tenuto fede alle promesse. Anche se non viene direttamente raccontato, il G8 è il punto di accumulazione dell'intera storia, che non per nulla parte dalla resistenza antifascista e arriva alla resistenza antigherusia, che è il sistema politico che si è instaurato a partire dal 2020 in Italia: un concilio di boomer che dichiarano candidamente di non avere alcun interesse per il futuro e le generazioni successive, e che pertanto vietano del tutto la nascita di nuovi bambini, così che il paese possa avviarsi finalmente a una meritata estinzione, in una riproposizione più oscura del
piano non violento del VHEMT. La narrazione inizia da Zelinda, seconda generazione dei Delfino, che proprio in opposizione alle leggi della Gherusia ha concepito una figlia (Egle) ed è in fuga per impedire che venga catturata ed eliminata. Il romanzo è diviso in libri che raccontano la vicenda dal punto di vista di vari personaggi, e dopo Zelinda troviamo il Commissario, che porta la storia nel futuro del 2043 con un omicidio da risolvere in un'epoca in cui la gente non muore più se non di vecchiaia. La parte più corposa è poi la storia di Spartaco, padre di Zelinda che è stato partigiano prima e assassino poi, e che con le sue azioni ha deciso il destino del paese (e si potrebbe dire che ha segnato il punto di divergenza storico da cui inizia questa ucronia). Abbiamo poi la storia di Egle, cresciuta nei boschi con altri orfani e gli animali, anch'essi "liberati" dalla società e abbandonati in massa fuori dalla città. Egle è la chiave per cambiare il futuro, perché è dotata del potere di plasmare la realtà con i suoi sogni, con un meccanismo piuttosto affine a quello della
retcon in DTS (non sto implicando plagi o ispirazioni, solo sensibilità affini). Quello che dicevo all'inizio, ovvero che è un libro molto personale, lo si ricava perché nonostante la storia cambi cinque protagonisti, in realtà si percepisce sempre la voce dell'autore che si rivolge al lettore, questo nonostante i personaggi siano caratterizzati in modo abbastanza diverso e non siano semplici contenitori di idee. È senza dubbio un romanzo molto politico, ma politico in senso universale, ovvero che parla dei valori più profondi che muovono le scelte delle persone nei momenti di crisi, e che solo raramente si identificano con una sigla parlamentare. Da questo punto di vista è un libro molto denso, che però perde in altre sitauzioni: in particolare la speculazione futura, ovvero il modo in cui viene descritto il mondo distopico del 2043 mi è sembrata piuttosto
cheap, una sorta di retrofuturo, con delle trovate un po' grossolane come le
mentefonate: quel tipo di futuro che si poteva immaginare leggendo la fantascienza degli anni 60 (al di là delle connotazioni politiche). Anche la parte finale con la rivoluzione di Egle è un po' affrettata e approssimativa, nel senso che il potere affidato nelle mani della ragazzina è troppo potente ma al tempo stesso troppo vago, così che basta dire "ora è così, ora è così" e la situazione si risolve. Non mi aspettavo di vedere la battaglia finale tra Orfani e Gherusia, non sarebbe stato appropriato, ma per com'è adesso in effetti non si capisce cosa abbia portato al cambiamento, a meno di non dire semplicemente "l'ha voluto lei", che non è una soluzione narrativa molto soddisfacente. Al netto di queste imperfezioni, USP è un libro potente e significativo, con le parti di Zelinda e Spartaco capaci davvero di scavare e ferire il lettore ricettivo. Non è un libro facile e come dicevo probabilmente richiede di avere una minima conoscenza della "poetica" dell'autore, visto che ve lo troverete seduto accanto che vi racconta con le sue parole tutto quello in cui crede e per cui si batte. Se però siete disposti ad ascoltarlo, qualcosa vi lascerà.
Voto: 8/10