L'improbabile presente: di cosa parla oggi la fantascienza italiana

Questo è un post che avrei voluto scrivere parecchi mesi fa, poco dopo la lettura di Propulsioni d'improbabilità, l'antologia di racconti curata da Giorgio Majer Gatti e pubblicata da Zona 42, che riunisce diciotto testi di autori italiani che più o meno rappresentano quello che si muove oggi nella fantascienza italiana. Non l'ho fatto all'epoca perché, visto che il volume contiene anche un mio racconto, mi pareva che sarebbe potuto apparire come un ampio eufemismo pubblicitario. Ma a distanza di mesi la polvere si è posata, e penso se ne possa parlare senza essere tacciati di bieca autocelebrazione.

In realtà, non avrei rimesso mano a questo post nemmeno adesso, se non fosse venuto fuori un tema simile in un paio di discussioni ravvicinate che si sono succedute su alcuni gruppi e profili facebook, nei giorni scorsi. E che in un certo senso si riagganciano anche a quanto dicevo qualche settimana fa sulla percezione del "mondo nerd" da parte del resto del pubblico. La combinazine di queste circostanze mi ha portato a pensare che sarebbe stato interessante condividere questa riflessione sugli attuali trend della fantascienza italiana.

DISCLAIMER: quando parlo di "fantascienza italiana", ovviamente non intendo tutta. Vi voglio bene, eh, ma non ce la faccio a leggere tutto quello che pubblicate. E di sicuro la mia stessa scelta delle letture dipende da una visione personale delle cose, vuoi che si parli di gusti o predisposizioni, per cui la prospettiva che propongo potrebbe soffrire di un bias di fondo. Quello che propongo quindi non è un quadro completo della scena fantascientifica italiana, ma un'estrapolazione di quelle che mi sembrano le tendenze attuali degli autori italiani di fantascienza, in base alla mia esperienza diretta e ai movimenti che vedo intorno. Accoglierò con piacere e curiosità appunti e smentite.

Dicevo che la riflessione parte da Propulsioni d'improbabilità (per gli amici PrImp), e il motivo è questo: è una raccolta senza un tema. Agli autori contattati è stato chiesto soltanto di scrivere un racconto di fantascienza, senza nessun vincolo. Si può quindi pensare che ognuno di loro abbia scritto ciò che in quel momento sentiva più vicino, importante, meritevole di essere raccontato. Se invece fossero stati interpellati su un qualunque tema, si sarebbero tutti in qualche modo "forzati" all'interno di un argomento preciso. Invece ognuno era libero di scrivere ciò che voleva, ed è a questo punto che diventa interessante notare che pur senza un tema comune sembra di scorgere comunque un filo conduttore tra le diverse storie.

Personalmente ad esempio non posso fare a meno di notare un'affinità quasi sospetta tra il mio racconto e quelli di Maico Morellini o Alessandro Forlani. Si tratta di storie diverse, con obiettivi e stili ben distinti, eppure mi pare che, alla base, ci sia lo stesso nucleo. Qualcosa che ha a che vedere con l'incertezza di sé, la perdita di fiducia in un mondo in cui non ci si riconosce. E partendo da questo punto, si può ritrovare questa stessa sensazione anche in molti degli altri autori della raccolta: Lukha Kremo, Emanuela Valentini, Miki Fossati, Paolo Zardi. Sfido chiunque a dire che siano racconti tutti uguali, che letto uno letti tutti. Eppure, senza vincoli imposti, si sono trovati tutti a gravitare intorno allo stesso centro di attrazione, quel tema pregnante che sta alla base di tutte queste storie: il presente. Il qui e adesso, l'inadeguatezza rispetto a un luogo e un tempo che non siamo capaci di comprendere e affrontare, un presente improbabile e imprevedibile in cui ci troviamo tutti coinvolti.

Molti dei migliori racconti di fantascienza italiana che ho letto ultimamente (e in questo caso parlo anche al di fuori di PrImp) funzionano così. Non puntanto tanto sulla speculazione strettamente scientifica, e spesso non si spingono nemmeno tanto oltre nel tempo, raccontanto un futuro prossimo, o un presente alternativo. Il focus sembra quasi sempre quello: comprendere quello che ci sta succedendo, affinare strumenti diversi per analizzare ciò che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno.

Forse per molti appassionati questo significa dedicarsi a una fantascienza "pessimista". Dove sono finite le avventure, il sense of wonder, il positivismo, la fiducia nella scienza? Non dico che non ci sono, ma sicuramente ora come ora hanno un ruolo secondario. Ma non mi sembra così difficile capire perché. La fantascienza, da sempre, è un mezzo per parlare di ciò che si conosce attraverso ciò che è sconosciuto. Parlare del presente attraverso il futuro, parlare dell'uomo attraverso l'alieno. Non sto rivelando nessuna verità evangelica, credo. Viene quasi naturale collegare un momento (e per "momento" intendo decennio abbondante) di profonda incertezza, precarietà, mancanza di appigli, a storie che si sviluppano in questa stessa direzione. Quale futuro si può immaginare, a partire da oggi? Se negli anni 50 era facile inferire il continuo progresso sociale e tecnologico, forse solo con qualche comunista di mezzo, quale può essere l'estrapolazione che si può fare oggi, con i dati che abbiamo a disposizione? Il futuro è Black Mirror, il futuro è Mr Robot; anzi, in molti casi, sono già il presente. La fantascienza italiana di oggi parla di questo.

Ovviamente, non solo di questo, a tal proposito rileggetevi il disclaimer sopra. Ma mi pare innegabile questo punto di vista. Che sia un bene o un male, o che si debba in assoluto valutare in questi termini, lo lascio decidere a ognuno secondo la sua sensibilità. Sicuramente qualcuno preferisce un approccio più leggero alla fantascienza, ed è suo pieno diritto farlo. Io stesso riesco a godermi qualche bella storia positivista, quando è fatta bene. Ma non posso fare altro che pensare che se, in questo momento storico, scriviamo questo tipo di storie, è ciò di cui davvero abbiamo bisogno.

Coppi Night 18/11/2017 - Anomalisa

Vista la mia adorazione per Charlie Kaufman e tutte le sue opere, pare strano che non abbia mai scritto nulla su Anomalisa, il suo film più recente, di cui è autore e regista, e che ha richiesto qualcosa come otto anni di lavoro. Questa tempistica completamente al di fuori dei parametri hollywowdiani di oggi è parzialmente giustificata se si considera che stiamo parlando di un film in stop motion. Realizzare, animare e filmare decine di pupazzetti è un lavoro immane di per sé, e diventa colossale quando ogni dettaglio dell'ambientazione e dei personaggi è studiato per apparire il più realistico possibile, con l'obiettivo di far dimenticare allo spettatore che sta guardando un film d'animazione invece che un live action.

In realtà, fin dai primi fotogrammi non si può fare a meno di notare che stiamo vedendo dei simulacri invece di "persone vere", nonostante la cura con cui sono realizzati i volti e i movimenti dei personaggi. Quella giunzione ai lati della testa (che io all'inizio avevo interpretato come stanghette degli occhiali) ci ricorda continuamente che stiamo vedendo qualcosa di artificiale, o meglio ancora una maschera. È stata una precisa scelta mantenere questi dettagli, che conferisce a tutti i personaggi su schermo un senso di uncanny difficile da scrollarsi di dosso per l'intera durata del film. Quelli che vedi sono umani, ma non sono proprio umani, e forse lo sanno. Lo sa, o almeno lo intuisce, il protagonista, che arriva pericolosamente vicino a togliersi la maschera.

L'altro particolare determinante, e a mio avviso genuinamente geniale di Anomalisa non si nota subito, ma solo dopo una ventina di minuti. All'inizio è solo un sospetto, poi si pensa di essersi confusi, poi ne abbiamo la conferma: tutti nel film hanno la stessa voce. Escluso il protagonista Michael (e in seguito Lisa), uomini donne e bambini parlano tutti con la stessa voce. Considerando che la voce è fondamentale per caratterizzare un personaggio animato, questo influisce in modo pesante sulla percezione del film, e anzi, in ultima analisi è probabilmente il punto centrale di tutta la vicenda. In effetti, sempre esclusi Michael e Lisa, tutti gli altri hanno anche lo stesso volto, ma questo è un particolare che forse si nota meno, camuffato da diverse acconciature e abiti... o forse è solo colpa della mia comprovata incapacità di distinguere i lineamenti di un volto.

La trama è abbastanza semplice, anzi quasi impercettibile. Il protagonista Michael è l'autore di un manuale di auto-aiuto che ha avuto un discreto successo, e deve tenere una conferenza a Cincinnati proprio sul suo libro. In albergo conosce Lisa, l'unica persona con un volto e una voce diversa dagli altri, e ne rimane subito affascinato, nonostante lei sia bruttina, timida, impacciata. Passano la notte insieme e la mattina dopo Michael inizia a vedere Lisa in modo diverso, anzi uguale, uguale a tutti gli altri. È importante considerare che Anomalisa è l'adattamento di un pezzo teatrale scritto dallo stesso Kaufman, e si nota molto nei tempi narrativi e nella trama portata avanti in pratica dai dialoghi. Mi rendo conto però che il film in questa forma, superato lo straniamento visivo e uditivo iniziale, possa risultare abbastanza noioso. Insomma, alla fine è la solita storia di due persone fuori luogo che si incontrano e cercano di trovare senso l'uno nell'altro: been there, done that.

Ovviamente i lavori di Charlie Kaufman non sono mai da prendersi per quello che appaiono, e i livell di lettura sono molteplici, a volte nascosti sotto strati di indizzi disseminati qua e là. Un esempio è il nome dell'hotel, oppure le voci uguali di cui già ho parlato. Per chi ha familiarità con l'opera di Kaufman, si possono notare tanti temi ricorrenti e citazioni, le più palesi a Essere John Malkovich, ma anche Adaptation, Eternal Sunshine, perfino il meno apprezzato Human Nature. Vedere Anomalisa senza conoscere la "poetica" di Kaufman può essere un'esperienza incompleta, come andare all'opera senza il libretto di sala e quindi non essere in grado di seguire cosa i personaggi stanno dicendo.

Devo ammettere che io stesso mi aspettavo altro (e meglio) da questo film, soprattutto visto il lungo periodo di gestazione, ma forse dopo l'opera definitiva Synecdoche New York avevo aspettative troppo alte, impossibili da raggiungere. La riproposizione di temi già noti e l'adattamento della versione teatrale penalizzano l'impatto di Anomalisa, che resta comunque un'opera di grande ispirazione e tecnicamente impeccabile.

Coppi Night 12/11/2017 - Il gioco di Gerald

È un periodo d'oro per Stephen King, con il continuo avvicendarsi di trasposizioni di suoi lavori, come se in passato fossero mancati. I risultati sono al solito altalenanti, da una dimenticabilissima Torre Nera a un It godibile ma poco incisivo, e i risultati migliori pare possano arrivare dalle storie che nelle premesse non sembrano avere la stessa forza. Il romanzo Il gioco di Gerald infatti è noto per essere uno dei più lenti di King, in cui si passano oltre trecento pagine su unico personaggio incapace di muoversi: come ce lo fai un film?

Eppure un film ce l'hanno fatto, e sorprendentemente è uscito anche bene. La storia non è quella del Gerald del titolo, ma di sua moglie Jessie: rintanati in una cabin in the woods per un weekend romantico, Gerald ammanetta Jessie al letto per risvegliare la libidine sopita ormai da tempo, e si aiuta anche con una magica pasticchina azzurra. Ma l'emozione forse è troppo forte, e il marito ha un attacco di cuore e le crolla addosso, morto. Jessie rimane quindi sola e isolata, legata a letto, senza possibilità di muoversi, mangiare, bere, chiedere aiuto... e con qualche strana presenza che sembra avvicinarsi di notte.

Non ho letto il libro quindi non so se lo svolgimento è lo stesso. Ma il modo in cui viene affrontata la parte centrale del film, con i dialoghi di Jessie con le allucinazioni del marito morto e di se stessa libera, riescono a tenere alto il ritmo. A questi si alternano flashback su un ricordo traumatico della sua infanzia, e momenti di alta tensione quando la presenza misteriosa (reale o immaginaria) si avvicina.

C'è molto in questo film, ed è stato confezionato con un'attenzione particolare a temi molto attuali... forse troppa attenzione (ci torneremo tra poco). Ma il percorso interiore di Jessie è davvero autentico e avvincente, e si arriva a sentire come la sua liberazione dalle manette che la incatenano al letto possa venire solo da questa sua liberazione interiore. Ci sono scene forti, quasi gore, ma sono poche e così ben dosate che non sono nemmeno quelle le più impressionanti del film. Spoiler da qui a fine paragrafo: personalmente la scena più terribile è stata a mio avviso quella in cui si vede il padre di Jessie convincere la bambina a non raccontare dell'episodio avvenuto durante l'eclissi. Un episodio che non si configura tecnicamente come violenza sessuale, ma che certo può avere un impatto sulla ragazzina: il modo in cui il padre riesce a manipolarla facendole credere che sia lei a voler tenere il segreto è una vera mattonata, e parla per migliaia e migliaia di casi simili di cui non si è mai saputo nulla.

Ma questo tentativo di voler mostrare la violenza e la sopraffazione subìta da Jessie (e per estensione, da altre donne) è anche il punto dove il film scivola nel finale. E lo fa in modo grossolano, con una lunga narrazione fuori campo in cui Jessie racconta l'epilogo della sua storia in una lettera a se stessa. Tutto ciò che fino a quel momento era suggerito, allegorico, rimesso all'attenzione e sensibilità dello spettatore, viene spiattellato con le parole. Come se arrivati a quel punto gli autori si fossero chiesti "sì ok, ma si capisce cosa vogliamo dire?" e nel dubbio abbiano deciso di renderlo esplicito. Nel momento in cui, durante un sogno, Jessie vede se stessa da ragazzina, seduta sul letto dove ha parlato con il padre, con le manette che le ha messo Gerald, si capisce perfettamente il valore metaforico di quella immagine. Invece no, è stato necessario citare espressamente le manette che lei ha ricevuto, da bambina e da adulta. Anche il mistero della presenza/mostro viene svelato, e se anche questa soluzione è fedele al libro (non so), avrei preferito di gran lunga che il dubbio rimanesse vivo. Non capisco perché si sia voluta rovinare tanta atmosfera con un infodump così brutale, e se dovessi consigliare a qualcuno la visione direi di terminarla a 6-7 minuti dalla fine.

Da notare anche come il film sia punteggiato di riferimenti ad altre opere kinghiane: l'eclissi e altri particolari di Dolores Claiborne, le cose preziose, la bag of bones, Cujo. La storia in realtà non è direttamente collegata alle altre, quindi si tratta poco più di easter egg, come quelli sparsi all'interno de La Torre Nera e lo stesso It. Qui fortunatamente si incastrano abbastanza bene negli eventi da non distrarre, ma visto che ultimamente piace a tutti fare questo tipo di giochi, starei attento a non arrivare al punto in cui queste piccole citazioni siano il punto focale della narrazione, invece della storia in sé.

La stanza profonda dentro il salotto buono

Sabato scorso sono stato al Pisa Book Festival da cui ero mancato da un paio di anni, e ho partecipato con interesse a un panel, il primo che ho trovato: un incontro con Vanni Santoni per parlare del suo libro La stanza profonda. Era uno di quegli incontri obbligati dalle scuole, inserito nel contesto di una qualche iniziativa di promozione culturale per i ragazzi delle superiori, e la sala era occupata praticamente solo da studenti dai quattordici ai diciotto anni, mese più mese meno. Esclusi professori e accompagnatori, credo di essere stato l'unico ad assistere al panel di mia iniziativa. Il tema mi sembrava comunque abbastanza attuale da voler assistere, visto che di Vanni Santoni e del suo ruolo di "ambasciatore della cultura nerd" sentivo parlare già da qualche mese.

Premetto che non ho letto La stanza profonda, che mi si dice essere un testo quantomeno valido, né altre opere di Vanni Santoni, anche se ho una certa curiosità per Muro di casse, in cui l'autore parla della cultura dei rave techno clandestini dei primi anni 90. Non parlerò quindi del libro in sé ma del suo impatto sull'ambiente culturale italiano.

La stanza profonda tratta essenzialmente di due argomenti di base: il gioco di ruolo e la provincia. Il secondo tema è perfettamente in linea con quelli di un libro arrivato in finale allo Strega, ma il primo mica tanto. Nchessenso "giochi di ruolo"? avrà detto uno degli esimi giurati del Premio quando si è visto arrivare il libro davanti. In una parola: Dungeons & Dragons. Il gioco di ruolo inteso proprio come attività ricreativa di gruppo, in cui ogni patecipante interpreta un personaggio e si muove in un mondo immaginario seguendo le indicazioni di un master che crea la storia e l'ambientazione. Santoni nel libro riporta in parte quella che è stata la sua esperienza, e come il gioco di ruolo abbia accompagnato la sua crescita dai dodici fino ai quarant'anni suonati, costituendo un potente collante nei rapporti con gli amici di sempre. Una visione romantica, un po' nostalgica come lo è ogni volta che un adulto guarda alla sua infanzia, ma non autoindulgente. Personalmente non ho mai giocato di ruolo, nemmeno online: la mia esperienza si limita a qualche RPG giocato sul computer (Baldur's Gate, Might and Magic, Diablo), ma quando avevo interesse per questo tipo di attività non esistevano connessioni capaci di reggere una sessione di gioco multiplayer, e quando la tecnologia lo ha reso possibile non ero più interesato io. Poco male, il punto non è se e come i giochi di ruolo abbiano davvero un valore formativo. Quello che mi interessa è come Dungeons & Dragons venga ora percepito materia di studio, argomento meritevole di ricerca e quasi quasi anche di un Premio Strega.

Insomma, come funziona davvero questo sdoganamento della cultura nerd.

Se ne sta parlando tanto in molti ambiti, soprattutto all'interno di chi quella sottocultura l'ha vissuta e animata fin dall'inizio, all'epoca in cui nerd era l'etichetta in grado di garantire la verginità fino ai 30 anni. Molto è stato già detto, ma la mia esperienza a questo incontro mi sembra interessante perché ho visto il modo in cui i giovani studenti si approcciano all'argomento: un vero e proprio confronto tra generazioni, i nerd storici contro le possibili nuovi leve del movimento.

Ma l'approccio dei ragazzi si è rivelato tutt'altro che leggero. Formale, distaccato, analitico. Certo, bisogna sempre tenere presente che sono studenti probabilmente costretti a partecipare a questo evento, che si trovano a intervistare e interagire con uno Scrittore, e una certa soggezione è perfettamente giustificabile. Ma non è tanto nell'atteggiamento mostrato, quanto nei contenuti che sembravano cogliere o voler imporre al libro di Santoni ad avermi perplesso. La loro lettura de La stanza profonda è stata una ricerca di un significato profondo, di allegorie e critica sociale, una rincorsa all'artisticità che deve esserci in un libro.

Sono ben consapevole che questa impostazione non se la sono inventati i ragazzi. Ci mancherebbe altro che un adolescente analizzi di sua iniziativa un romanzo contemporaneo per trovarne le figure retoriche. È ovvio che questo modo di esaminare il testo è stato a loro suggerito dagli insegnanti. Ed è qui la stortura di base che mi è saltata gli occhi: il gioco di ruolo, come Santoni stesso dice, era un fenomeno nato dal basso, un'espressione della cultura di massa estranea alle élite e trascurata nel migliore dei casi, fraintesa negli altri, sia dall'ambiente culturale che dai media. Ma adesso, grazie a una serie di circostanze che sarebbe troppo complesso affrontare qui, la prospettiva sta cambiando. Il gioco di ruolo, ma più in generale la cultura nerd, sono diventati oggetto di analisi da parte di chi la Cultura la fa di mestiere. L'élite se ne è appropriata, e ha iniziato a trattarla con gli strumenti con cui affronta ogni tema.

Non sto dicendo che Vanni Santoni sia il responsabile di questo trattamento, né che fosse sua intenzione suscitare questo tipo di attenzione da laboratorio. Anzi, è evidente che la sua passione e il suo coinvolgimento siano genuini. In un articolo scritto dopo l'ultimo Lucca Comics, sul suo blog Mauro Longo parla di Santoni come di un possibile leader capace di riscattare la cultura nerd agli occhi del grande pubblico. E anch'io credo che lui potrebbe riuscirci e lo farebbe col cuore. Ma non è lui il problema, e nemmeno il "grande pubblico". Il nemico è lo stesso che avevano i nerd trent'anni fa: l'estabilshment. Il Sistema che se non può comprenderti, ti imbriglia. Ti digerisce in modo da assimilare quanto gli è utile, ed espellere il resto.

L'ho percepito nelle domande che gli studenti, incoraggiati dai professori, hanno rivolto all'autore. E ho notato anche le sue risposte evasive, tese a minimizzare l'impatto Artistico e Sociale di quello di cui si stava parlando. Scambi del tipo:
D: Quindi il gioco di ruolo è anche una lezione di vita?
R: Lo è stato per me in quel momento, ma tutto può essere una lezione di vita.

D: Quindi giocando online si perde il vero valore che sta dentro il gioco di ruolo?
R: In tutti i periodi di transizione si perde e si guadagna qualcosa, e oggi viviamo in un periodo di transizione verso l'era digitale.
Questo desiderio di vedere per forza il risvolto sociale, storico, attuale, attinente alla vita reale e alla Cultura, è lo stesso atteggiamento che ha portato in origine i giochi di ruolo e tutto quanto vi ruota intorno a essere considerati come lo erano. Ora possono aver guadagnato lo status di "fenomeno culturale" ma questo non significa che se ne tragga lo spirito, l'idea fondante.

Rispondendo alla domanda in cui spiegava il titolo del libro, Santoni spiegava che "la stanza profonda" è in senso letterale la cantina dove si ritrovava coi suoi amici a giocare a D&D, ma che questo ritrovarsi nel seminterrato assumeva anche una connotazione diversa: i ragazzi dovevano svolgere questa attività quasi di nascosto, nella stanza più lontana e inaccessibile rispetto al salotto di casa, dove invece si compivano tutti quei rituali di affermazione di una società medio-borghese che scimmiottava le abitudini dei nobili di un secolo prima.

La mia impressione è che nemmeno adesso si possa giocare apertamente nel salotto: la stanza profonda si è trasferita dentro il salotto buono, ma è ancora un ambiente separato. Il gioco di ruolo e tutta questa sottocultura nerd è ora a portata di mano, e può essere osservata e discussa con il distacco e la curiosità con cui si studia un formicaio. Ma non se ne fa parte, non la si comprende nelle sue motivazioni e origini.

Non voglio che questo ragionamento suoni come un banale "ai miei tempi era diverso", anche perché come ho detto ai miei tempi manco giocavo di ruolo, come non lo faccio ora. E non voglio nemmeno accusare le nuove generazioni di superficialità e disinteresse, anzi. Certo durante l'incontro c'era chi chiacchierava e stava attaccato al telefono, ma in fondo sono adolescenti ed è normale che mostrino poco interesse per attività imposte dall'alto. Io stesso a quell'età prendevo gli incontri con gli "ospiti" a scuola come occasione per saltare ore di lezione; diamine, anche andare ad Auscwhitz per me è stata poco più di una gita sulla neve, quando avevo diciassette anni. Ma non sono i giovani il problema, è l'ambiente che li indirizza e insegna loro cosa è importante e come lo si affronta. E la risposta è: sempre nel solito modo. È curioso notare come la persona in tutta la sala che si è data più da fare con le foto all'autore e ai ragazzi (a volte richiamandoli per farli mettere in posa), senza prestare attenzione a una sola parola di tutto ciò che veniva detto, era una delle professoresse accompagnatrici.

Avrei voluto rivolgere una domanda in questo senso a Vanni Santoni. Chiedergli se lui ci crede davvero, anche se mi rendo conto che la sua è una posizione un po' scomoda. Purtroppo non c'è stata occasione perché il panel si è protratto oltre l'orario prestabilito e ci hanno mandato fuori in fretta per far spazio all'evento successivo. Santoni è stato circondato per i selfie, io mi sono allontanato, e nelle ore seguenti che sono rimasto al Book Festival non l'ho più visto.

A proporre il primo selfie, naturalmente, c'era quella prof.

Coppi Night 05/11/2017 - Ratatouille

Ma come, non avevi visto Ratatouille? No, non l'avevo visto. Se è per quello non ho mai visto nemmeno Apocalypse Now o Citizen Kane. Un po' alla volta cercheremo di rimediare, e a questo giro è toccato a uno dei primi film Pixar di successo.

Ratatouille, manco a dirlo, segue una ricetta perfetta. È scritto seguendo il più classico dei manuali di sceneggiatura, rispetta una struttura tipica e riconoscibile, crea conflitti e li risolve, rende i personaggi relatable e ci fa empatizzare con loro. Le tematiche di fondo sono comuni a tutti, e valgono per entrambi i protagonisti, bipedi e quadrupedi: l'inadeguatezza, la ricerca di un proprio ruolo in un mondo che sembra già assegnarcene uno, il tradimento delle aspettative di chi abbiamo intorno. In più, tratta un argomento non molto seguito dal cinema (la cucina), e riesce lungo il percorso a essere abbastanza divertente.

Quindi c'è poco da dire su un film del genere, che nella sua semplicità (intesa come aderenza ai principi base della cinematografia) funziona al meglio su tutti i fronti. No, ok, una cosa da dire ce l'ho: la sceneggiatura è stata scritta da Brad Bird, autore di diversi altri film di grande successo, come Gli Iincredibili (anche questo mi manca), Tomorrowland alcune puntate dei Simpson, e soprattutto Il gigante di ferro, che è una delle opere d'animazione che è stata capace di farmi piangere. Ora, vedendo quest'ultimo film si possono notare diverse affinità con Ratatouille. Per esempio, quali sono i temi di fondo nel Gigante di ferro, che riguardano sia i protagonisti organici che quelli meccanici? Così a naso direi l'inadeguatezza, la ricerca di un proprio ruolo in un mondo che sembra... ehi, ma è la stessa cosa del topo cuoco!

Esatto, ci troviamo con due storie che hanno un tema di fondo praticamente identico, eppure sfido chiunque a dire che siano uguali tra loro, o a sostenere che una volta visto Il gigante di ferro, non c'è nessuna ragione per guardare Ratatouille e viceversa. Tutto questo come efficace esempio di come sia possibile raccontare la stessa storia, trasmettere lo stesso messaggio, in modi diversi e sempre validi, mantenendo potenzialmente all'infinito l'interesse e l'intrattenimento dello spettatore. È una bella lezione di tecnica narrativa mi è balzata davanti, forse per via del mio interessamento recente all'aspetto teorico di questa disciplina.

Lo so, è una digressione totalmente slegata dal contenuto del film, ma d'altra parte quando si parla di un lavoro universalmente conosciuto e apprezzato, non avrei comunque molto da aggiungere ai chilometri di post e giorni di conversazioni già esistenti.

Rapporto letture - Ottobre 2017

Considerando che ho passato la prima metà del mese in giro per siti Maya, penso che due letture totalizzate siano un buon risultato. Una delle due è peraltro un libro che mi ero promesso di iniziare da diversi anni.

Sto parlando de La bussola d'oro, o come da titolo originale Northern Lights, il primo libro della trilogia His Dark Materials di Philip Pullman. Avevo sentito consigliare questo libro spesso, come esempio virtuoso di young adult scritto quando ancora questo termine non esisteva, e che unisce alla classica storia di formazione temi profondi sull'autoderminazione e il potere della religione. Non avendo nemmeno visto il film mi sono approcciato senza nessuna aspettativa, e sono rimasto prima di tutto folgorato dalla ricchezza dell'ambientazione. Il mondo alternativo in cui si svolge la storia, chiaramente una Terra che non è la nostra Terra, è carico di particolari interessanti: la tecnoogia, le materie di studio, gli orsi corazzati, le streghe, e soprattutto i daemon. Quello del compagno animale legato alla propria anima, una sorta di totem vivente mutaforma, è una delle idee più formidabili che mi sia capitato di leggere ultimamente. Mentre scrivo questo commento ho da poco finito di leggere anche il secondo volume della raccolta, quindi so già molto più sull'arco narrativo completo di quando ho finito Northern Lights, tuttavia posso dire che il viaggio di Lyra mi ha catturato e trascinato, anche se non sono riuscito a entrare in completa sintonia con la giovane protagonista. Per quanto determinata e brillante, in molti casi mi è sembrata motivata solo dal suo capriccio, o forse dalla profezia che si porta addosso. Questo però non toglie niente alla bellezza del percorso, mi sono trovato letteralmente attaccato alle pagine per scoprire di più su quel mondo e sapere come finisce. E qui arriva il secondo problema, perché Northern Lights non finisce, quindi è difficile da valutare per sé. Al netto quindi di quanto so già dal secondo libro, devo comunque limitarmi a un voto 7/10 per la piacevolezza di un viaggio di cui ancora non so la destinazione.

Come defaticamento prima di passare a The Subtle Knife, ho scelto uno degli ultimi titoli di Future Fiction, nello specifico il piiù recente autore italiano pubblicato... me escluso. Nicoletta Vallorani è un'autrice d'esperienza, che si è occupata di generi diversi e in Il catalogo delle vergini affronta in tre racconti diversi un tema comune, quello dello sfruttamento, in particolare delle donne e del loro corpo. Le tre storie sono indipendenti tra loro, ma si capisce che si svolgono nello stesso futuro vicino e difficilmente definibile distopico, nel senso che oggi ci sono già tutti gli indizi che potrebbero portarci a un futuro del genere, senza bisogno di catastrofi, guerre o dittatori. Donne senza identità, senza vita, o alle quali tutto ciò viene sottratto, e che trovano riscatto solo combattendo con gli stessi mezzi che dovrebbero renderle schiave. Se c'è un appunto che posso fare è che alcune parti sono fin troppo raccontate, quasi come la narrazione introduttiva di un film, e si fatica a capire quello che sta accadendo ora all'interno della toria. La qualità e drammaticità della scrittura compensa comunque questi momenti di azione sospesa, e la lettura rimane quindi densa di suggestioni. Voto: 7/10

Coppi Club 29/10/2017 - Mindhorn

Il revival anni 80 è una delle tendenze che tira di più ultimamente, vedi il successo di serie come Stranger Things, ma anche film tipo il nuovo It, e il continuo fiorire di remake/reboot di franchise di successo di quegli anni. Sappiamo tutti che finirà presto, ma come usano dire tutti i produttori di cinema, "finché dura fa verdura". E in questo solco si inserisce anche Mindhorn, action comedy prodotto da Netflix e uscito pochi mesi fa.

La storia è quella di attore in disgrazia, popolare ai tempi del poliziesco degli anni '80 (Mindhorn, appunto) di cui era il protagonista, che cerca di far sopravvivere la sua carriera nonostante la palese assenza di qualsivoglia talento, e un nome che ormai non apre più nessuna porta. Abbandonato dal suo agente, dimenticato dai colleghi, e costretto a dubbie performance nella pubblicità, coglie l'occasione di un killer che sembra ossessianto dal vecchio telefilm e dichiara di voler parlare solo con lui. L'attore viene convovato dalla polizia sull'isola di Man per collaborare alle indagini, ed è qui che mette in scena la sua nuova performance, certo dell'attenzione mediatica che il caso riceverà.

Il film si muove quindi su due piani, da una parte seguendo l'omicidio e il mistero che si nasconde dietro a questo, che va oltre un "normale" killer; dall'altra i tentativi dell'ex Mindhorn di riguadagnare la sua popolarità, rientrando in contatto con i colleghi dell'epoca, tutti passati a nuove fasi della loro vita, a differenza di lui. Il protagonista è un personaggio egocentrico e presuntuoso, convinto che il mondo debba riconoscere il suo talento. Si appoggia anche a personaggi di caratura simile, falliti che vivono delle briciole lasciate dalle altre star. La maggior parte delle gag deriva quindi da questo contrasto tra le illusioni del protagonista e la realtà di un mondo che è andato avanti per trent'anni.

Ma questo è allo stesso tempo anche il punto debole del film. Dopo la sequenza iniziale durante le riprese di Mindhorn e le prime scene che servono a capire l'attitudine del protagonista, il resto del film prosegue sempre sulla stessa strada, proponendo a oltranza le stesse situazioni. Rimane quindi difficile empatizzare con un personaggio che di per sé è odioso, e dopo mezz'ora di film non è più nemmeno simpatico. Oltre a questo, anche la soluzione degli omicidi avviene in modo del tutto indipendente dalle sue azioni, e per tutto il film è soltanto un agente passivo, capace solo di autocompiacersi.

Mindhorn avrebbe funzionato meglio se invece di durare un'ora e mezzo fosse durante venticinque minuti, una specie di mediometraggio alla Kung Fury, dove l'assurdità delle situazioni e l'incoerenza dei personaggi non pesa troppo, visto che tutto è talmente concentrato da non dare il tempo di pensare. In questa forma allungata invece tutto appare molto presto annacquato e stantio, a danno di un'idea di base valida e interpretazioni efficaci.