La settimana scorsa ho saltato la Coppi Night, chiaramente non per mia volontà (anche perché si svolge a casa mia, quindi non ho modo di evitarla...), ma perché ero alla Levantecon a Bari, per la la premiazione del Premio Giulio Verne. A quanto mi è stato riferito comunque non mi sono perso nulla, è stata vista una insipida commediola italiana di qualche anno fa, quindi poco male. Quest'ultima domenica invece, stava a me proporre i film, e con massimo spirito di abnegazione ho fornito una lista di titoli che ben poco hanno a che vedere con le mie solite propensioni cinematografiche. E nonostante questo, tra film leggeri come Mr. Crocodile Dundee e Weekend con il morto, tra filmetti comici italiani tipo Tutti gli uomini del deficiente, cosa va a vincere? Questo Urlo, film che dovrebbe essere la biografia di Allen Ginsberg.
Dico "dovrebbe" perché parlare di film biografico è fuori luogo. La storia si divide essenzialmente in tre blocchi: Ginsberg che racconta la sua vita (ma appunto la racconta in prima persona: non è la vita che viene mostrata, a parte qualche breve immagine), la declamazione dei versi di Urlo accompagnata da animazioni allucinate, e la cronaca del processo svoltosi nei confronti del poema. Per cui, in realtà, arrivati alla fine non si conosce la "storia" di Allen Ginsberg. Si sa qualcosa della sua poetica, si scopre che conosciuto e amato Jack Kerouac, si ottiene qualche interpretazione della sua famosa poesia... ma non si sa come Ginsberg abbia vissuto. Non si vede lo svolgimento di una vera e propria storia. In altri termini, più che un film si può parlare di un documentario sceneggiato.
Non nego che il film abbia un certo fascino, e nonostante l'astrusità dei temi ci si può far ammaliare dalle parole dell'autore, dalle lisergiche immagini che accompagnano la poesia, e si può trovare appassionante il dibattito sul "valore letterario" dell'opera, che ne sconfessa la presunta oscenità. Ma sono elementi tra loro sconnessi, che non confluiscono in un unico, intenso moto di coinvolgimento, e che quindi si ostacolano a vicenda. Finito il film, personalmente non ho avuto voglia di sapere qualcosa di più di Ginsber e della "beat generation" (termine che lo stesso Ginsberg apparentemente rifiuta). Quindi, se l'intento era quello di incuriosire lo spettatore (che di solito è l'obiettivo delle biografie), di certo non ha funzionato.
Un'ultima nota riguarda la trasposizione italiana del film: ho trovato molto, molto forzato il modo in cui il doppiatore di Ginsberg interpreta la poesia. Onestamente quella che doveva passare per carica emotiva mi è sembrata in'impostazione scimmiottantemente teatrale, come un bambino che canta la filastrocca di natale durante il pranzo coi nonni. D'altra parte non dev'essere facile interpretare una poesia tanto piena di riferimenti, termini gergali e neologismi, dal senso tanto evanescente. Anzi, mi chiedo come la traduzione stessa di Howl in un'altra lingua possa avere senso. L'unica parola facile da riportare probabilmente è "Moloch".
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