Come si fa a rendere noioso un film che parte dalla sconvolgente (seppur non originale) premessa di intere generazioni di bambini cresciuti per fare da dispensa di organi? Semplice, basta concentrare l'intera trama sul più banale dei triangoli amorosi che si svolge in questo contesto, piuttosto che affrontare il nucleo distopico della vicenda.
Questa può essere la sintesi essenziale di questo recente film basato sul romanzo di un autore giapponese con cui spero di non avere mai a che fare. Ora, non dico che la storia sia completamente da buttare: gli spunti per tirare fuori qualcosa di convincente ci sono. Anzi, probabilmente in forma di libro, con l'adeguato sviluppo dei personaggi e delle situazioni, può risultare interessante, ma la sua trasposizione cinematografica si rivela invece piuttosto scialba. Oh, certo, c'è tanto sentimento, tanto ostentato mal di vivere, che è comprensibile in personaggi desintati a una morte prematura in seguito ai successivi espianti forzati, ma l'attenzione è tutta focalizzata sul prevedibilissimo rapporto di amicizia-amore-odio dei tre protagonisti, che invece di curarsi della caducità della loro vita, e fornire qualche dettaglio incidentale su un mondo contemporaneo in cui esistono speciali istituti di allevamento per banche viventi di organi da trapianto, si preoccupano di chi scopa con chi per ripicca a chi.
Il messaggio ultimo del film è intenso e commovente, e può far riflettere sul senso della vita anche delle persone "libere", che probabilmente arrivano alla morte incompleti e insicuri tanto quanto i donatori, ma viene consegnato con un forzato monologo finale, invece di emergere gradualmente attraverso i cento e passa minuti precedenti di bobina, nella più grossolana violazione dell'assiome fondamentale show don't tell.
In definitiva, si tratta di una grande occasione sprecata, una storia potenzialmente affascinante e inquietante ridotta a un raccontino rosa da edicola.
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