Primo rapporto letture dell'anno, che sarà breve ma intenso, perché a gennaio ho letto solo due libri, ma di quelli che segnano per bene, quindi ci sarà da dire parecchio su entrambi.
Del primo in realtà ho già parlato in maniera tangente. Ho approfittato infatti dell'uscita di Arrival per confrontare il diverso linguaggio degli alieni nel film con quello degli Ariekei di Embassytown. Si tratta per me del primo libro di China Miéville, autore che mi ripromettevo da tempo di affrontare, anche se secondo alcuni non ho iniziato col titolo giusto. In ogni caso, la lettura è stata interessante, e gli ottimi spunti offerti sul linguaggio e il modo di concepire il mondo che ne deriva (o viceversa) sono riepilogati nel post linkato poco sopra. Riguardo il romanzo in sé, devo dire che per quanto affascinato dalle tematiche e dalla fisiologia e psicologia ariekea, ho trovato la storia non sempre abbastanza coinvolgente. C'è tutta una parte centrale, dalla fine dei flashback fino allo scoppio della crisi vera e propria, che a mio avviso incespica un po', come se non sapesse bene che direzione prendere. È vero che questi momenti di incertezza sono ampiamente ripagati in seguito, quando la trama arriva al suo compimento, ma devo ammettere che per diversi capitoli ho un po' arrancato. In ogni caso ciò che è veramente notevole di questo libro è come la narrazione arrivi appena a scalfire la superficie dell'immenso universo narrativo che ci sta sotto, come se stessimo guardando dal buco della serratura in un salone enorme. Ok, conosciamo gli ariekei, Embassytown e gli Ambasciatori, sappiao dell'immer e del faro, di Bremen e degli androidi... ma come tutto questo si trova a convivere in un'unica realtà non ci è dato di saperlo, anche se si intuisce che c'è un ordine di fondo, una ragione per tutto. Probabilmente è questa la cosa che ho trovato più affascinante di tutto il romanzo, oltre alla già citata tematica della Lingua. Di certo quando mi capiterà proverò altro di Miéville, e magari acquisendo maggior familiarità con l'autore riuscirò anche a trarne di meglio, come mi è capitato con altri come Dick, Lem e Priest. Voto: 7.5/10
Cambiando radicalmente genere e autore, ho recuperato solo il mese scorso un romanzo di Alessandro Forlani, uscito alcuni anni fa e di recente ripubblicato in edizione digitale. Il Grande Avvilente: Tristano è un fantasy che segue le gesta di Tristano, un Grande Avvilente del Regno. Il Regno è il regime al potere nel mondo descritto, apparentemente in forze dall'inizio dei tempi, che controlla il popolo senza bisogno di oppressione, soltanto con l'avvilimento. Il Regno non usa la forza, non ha nemmeno un esercito: si limita a scoraggiare, deludere, impedire ogni guizzo di immaginazione, ogni ambizione, ogni desiderio che vada oltre il lavoro della giornata. Il Regno ascolta tutto, ma risponde in un solo modo: no, non si può. Per il Regno tutto è indifferente. I Grandi Avvilenti sono i suoi ispettori, incaricati di coprire il territorio e applicare la cinica politica di disillusione. Conosciamo Tristano mentre fa irruzione in una casa, aiutato dal suo uomonero Otre (una sorta di orco), per umiliare una ragazza madre che ha avuto l'aspirazione di maritarsi con un giovanotto: no, non si può. Perché sperare? Perché affannarsi a cercare una vita migliore? Non cambierebbe nulla, è indifferente. Ma qualcosa inizia a scricchiolare nel Regno, quando in una successiva missione Tristano si trova davanti a un villaggio animato da un Eroe, un condottiero che la gente sembra voler seguire fino anche alla morte. Dopo la terribile scoperta, Tristano e i suoi compagni viaggiano fino al cuore del Regno, dall'Autorità, per avvertire della minaccia che incombe. Tutto questo di per sé è già notevole, e fa di Tristano una storia davvero incisiva, di estrema attualità, ma la forza di questo romanzo non si esaurisce qui. Forlani dimostra sempre un gusto barocco nel suo linguaggio (ad esemip anche in Eleanor Cole), ma qui va anche oltre. Tutto il libro è scritto con estrema musicalità, con frasi cadenzate, tanto che procedendo nella lettura sembra quasi di leggere un poema in versi, una sorta di Orlando furioso. Questo stile ricercato ed efficacissimo non è solo un orpello, ma si dimostra anche funzionale alla trama, rendendo l'immagine (o il suono?) di una società decadente, in cui gli Avvilenti devono mantenere le scarpe lucide e la gorgiera a posto, e gli uominineri devono mangiare come porci al trogolo, anche se preferirebbero usare posate e tovaglioli. Perché anche il potere del Regno, alla fine dei conti, è solo apparenza, e la lingua contribuisce a manternerla tale (e si torna imprevedibilmente al tena centrale di Embassytown). Voto: 8.5/10
Nessun commento:
Posta un commento