Coppi Night Special Edition 26/12/2016 - Oceania

La specialità di questa Coppi Night sta nel fatto che intanto non era una night ma un mid-afternoon, e che invece del pizza + film a casa è diventato hamburger + cinema per fare qualcosa a Santo Stefano quando fuori c'è una nebbia da brughiera padana e quindi cosa potresti fare di meglio? Contiamola allora come Coppi Night così ho l'occasione per il probabile ultimo post del 2016.

Erano anni che non mi capitava di andare a vedere un "film di Natale", visto che in genere le proposte per questo periodo mi lasciano alquanto indifferente: cinepanettoni a parte (fenomeno che mi pare un po' in declino), di solito c'è la commedia per familige, il filmone sentimentale, il cartone e l'avventura. Per la verità non è che avessi tutta questa voglia di andare a vedere Oceania (o Moana come da titolo originale, da noi corretto per evitare equivoci sulla protagonista), ma tra le possibilità non mi dispiaceva poi tanto, considerando il generale livello qualitativo dei film Disney e l'ambientazione interessante.

Devo ammettere che sono rimasto un po' fregato dalla falsa equazione Disney = Pixar. Se è vero che il primo gruppo produce i lavori dello studio di animazione, in questo caso il lavoro è stato diretto direttamente dal nucleo centrale della Disney, ed è quindi un prodotto dedicato a un pubblico molto giovane, a differenza dei lungometraggi della Pixar che spesso sono forse anche più adatti al pubblico adulto. Insomma, Oceania non ha niente di nuovo a livello di struttura rispetto ai "classici", e ancora meno distanza rispetto a successi più recenti come Frozen. Gli ingredienti sono gli stessi: principessa ribelle (ok, figlia del capovillaggio, ma si equivalgono), popolo in pericolo, parente morto che fa da spirito guida, partner guascone ma di buon cuore, animaletti simpatici di accompagnamento, e tante tante canzoni.

Si può parlare di un lavoro ben realizzato tecnicamente, il che non è banale se si considera che un elemento difficile da animare come l'acqua è onnipresente per tutta la durata. Scenografie e atmosfere perfette per rendere l'ambientazione polinesiana, e qualche elemento di mitologia interessante (anche se non mi sono premurato di controllare le fonti). Da qui a parlare di una trama coinvolgente però ce ne vuole, anzi la prevedibilità è a livelli di allarme, così anche le sequenze più intense nella parte finale risultano piuttosto fiacche. Personalmente poi trovo piuttosto irritante che le canzoni siano tradotte in senso letterale (almeno così presumo) senza un minimo tentativo di rispettare metrica e musicalità (ci fosse una-rima-una!). Già mi sto sforzando a sopportare gente che canta in mezzo a un film, se poi canta a caso figuriamoci!

In definitiva un film piacevole soprattutto per gli occhi, certamente con qualche gag azzeccata, ma che ha senso andare a vedere soltanto in presenza di marmocchi da far tare calmi un paio d'ore.

Doctor Who Christmas Special 2016 - The Return of Doctor Mysterio

È passato un anno dall'ultima volta che abbiamo sentito parlare del Dottore, il che di per sé sembra quasi incredibile. Lo abbiamo lasciato alla sua ultima notte con River Song su Darillium, e lo ritroviamo sulla Terra, a investigare sull'ennessima corporation dagli scopi poco chiari dietro la quale si nasconde un piano di invasione aliena. Tutto come da copione insomma.

A parte i soliti alieni malefici (l'anno scorso avevamo un corpo in cerca di testa, questa volta cervelli in cerca di corpi), questo episodio di Natale (che per la verità di natalizio ha molto poco) si focalizza su un tema che sembra non sia mai passato nella storia di Doctor Who: quello dei supereroi, intesi nel senso più classico e fumettistico del termine, tanto che l'apertura della puntata sembra citare direttamente i cinecomics Marvel, mostrando alcune tavole disegnate dalle quali si arriva poi al film. Naturalmente nell'universo di DW spiegare qualcosa come i superpoteri (volo, superforza, supervelocità, vista a raggi x eccetera) diventa semplicissimo, in questo caso basta avere a disposizione quella che è sostanzialmente una stella cadente che funziona davvero e avvera i desideri di chi la maneggia. Se ad averla è un bambino di otto anni appassionato di fumetti, si fa presto ad avere Ghost, il primo vigilante mascherato di New York. Come ogni supereroe che si rispetti, anche Ghost ha una doppia vita e una giornalista che cerca di scoprire la sua identità, e sarà questo a causargli le maggiori difficoltà nella parte centrale della storia. Contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, la puntata non parodizza la moda attuale dei supereroi, il personaggio di Ghost viene trattato con dignità anche se senza troppa serietà (ma quello è il tono generale dell'episodio).

In tutto ciò il Dottore è presente, ma il suo è quasi un ruolo secondario. È vero che è stato lui a rendere Ghost ciò che è, ma il centro dell'episodio è proprio il supereroe con il suo amore inconfessabile e la sua necessità di tenere in equilibrio le due vite. Certo è il Dottore a smascherare i piani del villain di turno, ma alla fine dei conti non è nemmeno lui a risolvere la situazione stavolta. E tutto sommato questo approccio non dispiace di tanto in tanto, visto che nelle ultime stagioni ci siamo abituati a un Dottore che è poco meno di un dio, intorno al quale si muove l'intero universo e che sembra l'unico in grado di gestire qualunque tipo di situazione.

Ancora a corto di companion dopo la morte (?) di Clara, per quest'avventura il Dottore si è portato dietro Nardole, l'irritante assistente di River Song dell'episodio scorso, che a ricordare bene era anche stato decapitato, ma si sa che la morte in DW è un concetto molto flessibile. Nardole fa da spalla comica, anche se personalmente non gradisco molto il personaggio e l'interpretazione, per cui la notizia che sarà presente anche in alcuni episodi della prossima stagione 10 non mi incoraggia. Mi aspettavo una sorta di cameo della nuova companion che è già stata annunciata da alcuni mesi, ma in realtà non si è vista.

Come nota di colore c'è da notare che "Doctor Mysterio" è il titolo con cui è stato adattato il Doctor Who classio in Messico, non senza una massiccia dose di edit tali da rendere lo show praticamente incomprensibile. Il titolo è quindi di una sorta di inside joke, che comunque non incide sullo svolgimento della storia.

The Return of Doctor Mysterio è quindi un episodio leggero e gradevole, dal focus un po' decentrato rispetto alle ultime cose viste, e che pertanto può servire come trampolino per un parziale rinnovo della serie, come ci si aspetta dall'inizio della stagione 10 (l'ultima di Steven Moffat e probabilmente anche di Capaldi). Fortunatamente non dovremo aspettare un altro anno, ma solo qualche mese. Voto: 7/10

Dirk Gently - Agenzia di investigazione olistica

Nel 2010 (vale a dire nel cambriano, rapportato ai tempi di fruizione attuali) la BBC produsse un adattamento in serie tv dei due romanzi investigativi di Douglas Adams. Il Dirk Gently del 2010-2012 è stata una produzione sfortunata, interrotta dopo appena 4 episodi, e che i più non ricordano di aver mai visto passare. A distanza di qualche anno ci hanno riprovato, stavolta sotto la direzione di Netflix (e chi sennò?), con un nuovo adattamento della serie del tutto indipendente da quello precedente: la prima stagione di 8 episodi è già conclusa, ed è arrivato il rinnovo per la seconda. Si direbbe quindi che Dirk Gently - Agenzia di investigazione olistica sia migliore del suo omologo del 2010. Ma è davvero così? Parliamone.

La premessa che sta alla base (e nel titolo) di tutti i Dirk Gently letterari o televisivi che siano, è l'investigazione olistica. Si tratta della scuola investigativa di cui Gently è l'unico esponente che consiste nel riconoscere l'interconnessione tra ogni cosa (da cui l'olismo), e permette quindi di raccogliere indizi in qualunque posto. Cioè, andare a caso. Tanto se tutto è connesso, allora non importa da dove si parte, si arriverà comunque alla soluzione che si sta cercando. Si capisce che è una premessa surreale, ed è comprensibile visto che si sta parlando di una creazione di Adams, ma è anche un approccio molto originale per una storia investigativa.

Gli otto episodi di questa nuova serie non rappresentano altrettanti casi, ma un'unica storia con un mistero centrale, la sparizione di una giovane ragazza, sulla quale Dirk è stato incaricato di investigare da parte del padre, che nel frattempo è stato assassinato. Il punto di vista dello spettatore è quello di Todd Brotzman (Elijah Wood), che viene coinvolto da Gently nell'indagine e che pur riluttante si lascia trascinare dall'eccentrico investigare che non sembra avere idea di quello che sta facendo. A loro si affiancano alcuni personaggi secondari che li aiuteranno (volontariamente o meno) a rimettere insieme i pezzi dell'intricata faccenda in cui hanno una parte inventori, hippie, rockstar, squali e cani. Sulla trama principale se ne innestano alcune accessorie, con diverse fazioni che sembrano tutte sulle tracce di Dirk: un gruppo di teppisti (i Rowdy 3), un agente della CIA e un'assassina olistica (cioè che uccide gente a caso).

La storia è piacevole da seguire, mantenendo solitamente un tono leggero e facendo uso ricorrente di gag comunque non troppo sopra le righe. Il problema è che la trama sembra inutilmente complicata, con l'unico scopo di rendere il mistero più difficile da sbrogliare, quando avrebbe potuto essere efficace anche senza l'aggiunta di tanti ingredienti. Intendiamoci, anche nel romanzo Dirk Gently originale avevamo di tutto (alieni, fantasmi, viaggi nel tempo, monaci elettrici), ma questi elementi per quanto variegati si innestavano in una trama che si rivelava estremamente lineare una volta compresa. Qui sembra invece che si sia fatto l'esercizio opposto, trascinandosi dietro per la strada qualche incoerenza di troppo, che osservata con occhio critico mina la credibilità dell'intera vicenda (non vado nel dettaglio per evitare spoiler, ma se qualcuno è interessato possiamo approfondire nei commenti).

Anche il Dirk Gently di Samuel Barnett non è esattamente come ci si aspettava. Non che l'interpretazione sia inadeguata, ma il personaggio non sembra comportarsi nel modo adeguato. Dirk Gently non fa che parlare e reagire come un ragazzino a tutto quanto gli succede, esagerando il suo entusiasmo e frustrazione in ogni situazione. In molte occasioni semra di avere davanti il Dottore di Matt Smith. Ma la cosa più importante è che non sembra per niente intelligente. Ora, se anche accettiamo il metodo di investigazione casuale, rimane il fatto che l'investigatore debba avere la capacità di mettere insieme ciò che si trova davanti. Questo Dirk non dà nessuna impressione di riuscire a capire qualcosa, tranne alla fine quando per qualche motivo ha chiara tutta la faccenda. Infine, anche se non viene spiegato del tutto, viene fatto intuire che Gently faccia parte di una speciale squadra di individui speciali che erano stati identificati e forse addestrati dalla CIA, e che quindi il suo "talento" olistico sia una una sorta di superpotere (dello stesso progetto fanno parte i Rowdy 3 e l'assassina olistica). Questo in un certo senso sminuisce il personaggio, perché porta a pensare che la sua abilità sia qualcosa di innato e incontrollabile, non l'applicazione cosciente di un metodo, sgangherato che sia.

Con questo non voglio dire che Dirk Gently - Agenzia di investigazione olistica sia una brutta serie. È sicuramente ben realizzata e si segue con piacere, però mi sembra lontana dall'approccio dei libri di Adams, che il Dirk Gently di qualche anno fa invece ricalcava con più fedeltà. È in un certo senso più arruffona, tende a procedere per accumulazione grossolana piuttosto che cesellando i dettagli, e perde così quella sottigliezza che invece si trova nei romanzi, tanto in termini di svolgimento che per il livello di umorismo. Insomma, vi piacerà tanto più quanto meno avete familiarità con il Dirk Gently letterario. Sfortunato io a considerarlo in effetti la migliore opera di Adams!

Rapporto letture - Novembre 2016

Eccoci coi libri letti a novembre, una spolverata di generi più ampia rispetto alla solita fantascienza che diciamoci la verità anche basta, no?

Del primo libro non parlerò in modo approfondito, perché ho dedicato a The Affirmation un post intero, quindi rimando a quello. Si tratta di un romanzo complesso, vagamente inquadrabile come una storia di universi paralleli, ma è soprattutto una storia sulla forza delle storie. Ne approfitto per far presente che con la progressiva conoscenza delle opere di Christopher Priest lo sto sempre di più elevando nell'empireo non solo dei miei scrittori "preferiti", ma di riferimento. Voto: 8.5/10





Torniamo poi nell'ambito della fantascienza con un autore italiano che ritengo tra i più interessanti. Di Francesco Troccoli ho letto molti racconti e i due romanzi della saga dell'Universo Insonne pubblicati qualche anno fa da Curcio (cercate sul blog), ora con Mondi senza tempo ho potuto completare la serie. La storia riprende a poca distanza da Falsi Dèi, con un Tobruk Ramarren tormentato da quanto successo nella missione precedente e tormentato da sogni che gli prospettano una realtà differente (does it ring a bell?). Il romanzo fondamentalmente riprende il tono dei precedenti, si tratta in linea di massima di un'avventura, con Tobruk che si imbarca in una nuova missione, stavolta per conto di quelli che erano i suoi nemici. Ma naturalmente dietro gli scopi dichiarati della missione ce ne sono altri più profondi, che affondano fino all'inizio del primo libro della serie. Non so se i due seguiti fossero previsti fin da quando è stato scritto Ferro sette, ma l'incastro funziona bene, e l'intera saga trova una sua completezza. Pur senza introdurre idee particolarmente originali o sconvolgenti (in certe parti sembra addirittura che sia citato il Piano Seldon!), il romanzo è ben scritto e strutturato, e contiene tutto quello che serve per concludere la vicenda. Voto: 7/10


Rimaniamo sugli autori italiani ma cambiamo decisamente genere, anzi, entriamo in un campo che non so bene che genere sia. L'editore Gorilla Sapiens per sua vocazione pubblica libri strani, narrativa al limite della narrativa, e ho avuto già esperienza con un i racconti di Carlo Sperduti. Qui è affiancato da Davide Predosin in un racconto epistolare che ruota intorno a Lo Sturangoscia, un apparecchio (una sorta di pompa idraulica) che si utilizza per estrarre materialmente dal corpo l'angoscia, identificata come fluido corporeo. Il carteggio tra i vari personaggi è surreale e delinea una storia sconnessa ma con una sua coerenza, tra società segrete, invstigatori, meteorologi regrediti a selvaggi, e altre assurdità. Tutto si gioca sulla forza delle parole, con un umorismo nonsense che funziona proprio perché wtf am i reading!? Non è sicuramente un libro apprezzabile da tutti, potete provarci se vi piacciono i Monty Python, per fare un esempio. Manuale d'uso dello sturangoscia compreso nel libro. Voto: 7.5/10

Coppi Club 11/12/2016 - Spectral

Riprendo col Coppi Club dopo qualche settimana di assenza, dovuta a impegni vari che non mi hanno permesso di fare la regolare serata pizza + film. Era anche il mio turno di proporre i film, cosa che mi risulta molto più facile da quando (come buona  parte del mondo civilizzato) ho l'abbonamento a Netflix. Tra i vari titoli che ho preselezionato ce n'era uno fresco fresco, prodotto dalla stessa Netflix, che pareva abbastanza accattivante a tutti i presenti.

Spectral si presenta come un action movie soldati contro fantasmi. Di solito i fantasmi sono protagonisti effimeri di storie horror a base di jumpscare, raramente vengono affrontati con un'attrezzatura specifica, se si esclude Ghostbusters che però si muove su toni ben diversi (e non vogliamo parlare di Ghostbusters, vero?). Quindi la premessa è in effetti interessante: i cazzuti marine stavolta non devono affrontare soldati avversari (yawn) né dinosauri, né mostri, né alieni, né zombie: si tratta di fantasmi, esseri invisibili e incorporei che possono uccidere con un solo tocco.

Il film ha per protagonista uno scienziato del DARPA che viene inviato in Moldavia dove alcune apparecchiature ottiche da lui progettate stanno dando rilevazioni piuttosto insolite. Sul posto, da tempo sconvolto da una profonda guerra civile, scopre le morti sospette e le immagini registrate prima di esse, che sembrano inquadrare appunto dei fantasmi, forme umanoidi evanescenti invisibil a occhio nudo, che attaccano i soldati. Il fenomeno viene interpretato in vari modi, dalle armi sperimentali agli "spirti di guerra", anime tormentate morte negli scontri che non riescono a trovare pace. Allo scienziato/inventore/ingegnere viene quindi affidato il compito di identificare la minaccia e scoprire come combatterla, anche perché si sta facendo sempre più pericolosa.

C'è da dire che il film è tecnicamente ben realizzato, e pur senza contare su star e interpretazioni di alto livello, riesce a mettere insieme delle ottime sequenze di azione credibili, oltre a creare una buona tensione intorno ai fantasmi che costituiscono al tempo stesso il nemico e il mistero da risolvere. Proprio qui però sta il punto debole del film, perché una volta che il mistero viene svelato (c'è effettivamente una spiegazione "scientifica", che richiede una certa sospensione dell'incredulità e sopportazione di technobabble, ma tutto sommato si può accettare), la storia perde ogni mordente e si avvia velocemente verso la conclusione, senza più curarsi di mantenere il tono e la coerenza con quanto fatto prima. L'esempio primario di questo scivolamento è la sequenza in cui con un rapido montaggio viene mostrato il protagonista macgyverizzato che attrezza un'intera squadra di soldati con armi per combattere i fantasmi, costruendo sofisticate apparecchiature a partire dagli scarti di produzione di un hangar. Anche il finale in cui basta distruggere il nodo principale per fermare tutti i mostri contribuisce alle levate di sopracciglia dell'ultimo atto, ma questo è un problema piuttosto diffuso in tutto il cinema d'azione contemporaneo.

In fin dei conti Spectral è un film godibile, che si basa su una buona idea di fondo ma poi non sa come gestirla una volta resa esplicita. Per certi versi mi ha ricordato una puntata di Doctor Who, nel modo in cui un unico personaggio si rivela risolutivo sotto ogni punto di vista (scopre il mistero, costruisce l'attrezzatura, interviene per fermare lo scontro), e a ben guardare nell'ultima stagione abbiamo avuto proprio un (doppio) episodio in cui comparivano dei "fantasmi" che avevano basi scientifiche più o meno accettabili. Coincidenza?

Andromeda n. 1

Quest'anno per me non è stato molto prolifico a livello di pubblicazioni, per tutta una serie di ragioni che non sto a ripetere. Tuttavia a fine anno mi sto riprendendo con un colpo di coda, con un paio di racconti: la raccolta Dinosauria uscita il mese scorso, e a brevissimio il primo numero della rivista Andromeda.

In questo caso al di là della pubblicazione che mi riguarda, vale la pena soffermarsi per illustrare meglio il nuovo progetto che sta per vedere la luce. Andromeda nasce come blogzine (credo si possa definire così), ovvero un blog su cui compariono post periodici dedicati alla fantascienza, ideato e gestito da Alessandro Iascy, che raccoglie contributi di più autori (recensioni, dossier, segnalazioni, ecc). Con il passare dei mesi il progetto si è ampliato, e infine grazie alla collaborazione della Ailus Editrice, si presenta come rivista cartacea semestrale.

È noto che le riviste di genere hanno un mercato molto ridotto. Per quanto riguarda la fantascienza, al momento l'unica rivista in essere è Robot (non credo che Urania si possa considerare una rivista, nonostante la distribuzione in edicola). Ci sono stati lodevoli tentativi nei mesi passati come Parallàxis, che purtroppo non è riuscita a sopravvivere oltre il quarto numero. Andromeda si inserisce quindi in una nicchia molto particolare che finora non ha permesso grandi risultati. Si qualifica quindi come un'operazione coraggiosa e in controtendenza, visto che pubblica non soltanto narrativa ma anche saggi, approfondimenti e interviste.



Il primo numero sarà un corposo volume di 240 pagine, contenente 20 articoli di diversi autori (tra i quali Umberto Rossi, Massimo Citi, Silvia Treves, Michele Tetro, Nicola Parisi e lo stesso Iascy), e sette racconti di altrettanti scrittori di genere italiani. Il mio racconto Fusa si colloca in buona compagnia accanto ai lavori di gente come Dario Tonani, Donato Altomare, Maico Morellini, Alessandro Forlani. Il tutto illustrato da Gino Carosini.

Andromeda n. 1 è disponibile a partire dal 15 dicembre, come si dice sempre in questi casi, giusto in tempo per i regali di Natale. Per il momento è possibile acquistarlo solo richiedendolo all'editore, al prezzo di 12 €. Come dicevo prima, è una scommessa, e onestamente non so se sarà possibile vincerla. Ma sono contento di poter dare il mio piccolo contributo anche in questo caso.

Host vs Cylon: robot umanoidi in tv

C'è molto interesse negli ultimi anni intorno a intelligente artificiali, robot e androidi di vario genere, e lo dimostra il numero di produzioni che trattano questo argomento. Da Chappie a Her, da Ex Machina ad Automata, da Person of Interest a Humans, costeggiando qualche episodio di Black Mirror. Ma l'attenzione più grande sul tema la sta calamitando quella che si può definire la serie del momento, Westworld. Basata nella premessa sull'omonimo film cult di Michael Chrichton (che vent'anni dopo si sarebbe evoluto in un ancor più cult Jurassic Park), la serie ha appena concluso la sua prima stagione, confermandosi come uno dei prodotti più interessanti degli ultimi anni, per vastità e complessità dell'universo narrativo, impatto di trama e temi trattati, qualità di produzione (dietro c'è il canale HBO, che probabilmente punta a fare di Westworld il nuovo Game of Thrones, ora che si inizia a intravedere la fine della saga fantasy).


Senza andare a ripercorrere questa prima stagione, si può dire che l'elemento intorno a cui ruota tutto Westworld sono gli Host, come vengono chiamati gli occupanti sintetici del grande parco a tema western al centro della storia. Li si può definire in molti modi, ma fondamentalmente si tratta si robot umanoidi, nella concezione già in uso decenni fa da Asimov di creatura meccanica costruita dall'uomo ma del tutto indistinguibile da un umano. Ma gli Host (userò la definizione in lingua originale, non so come sia stata trasposta in italiano) non sono i primi esseri di questo genere comparso in tv. Una decina di anni fa andava in onda Battlestar Galactica, space opera (anch'essa basata su un prodotto precedente degli anni 70) che raccontava degli sforzi dell'umanità per sopravvivere alla guerra contro i Cylon, orde robotiche che comprendevano tra le proprie fila esemplari perfettamente uguali agli uomini. Può essere interessante fare un confronto tra queste due declinazioni dello stesso concetto di base.

Segnalo a questo punto che da qui in poi saranno presenti spoiler, riguardandi la prima stagione di Westworld e l'intera serie (moderna) di Battlestar Galactica. Illustrare la trama non è l'intenzione principale di questo post, ma alcuni dettagli potrebbero emergere, quindi proseguite a vostro rischio.

Partiamo dall'inizio, definendo cosa sono Host e Cylon. Entrambi sono esseri artificiali, con tutte le riserve che questa terminologia sottintende. La loro artificalità risiede nel fatto che sono stati creati dagli uomini, progettati e costruiti per scopi diversi. Questo non significa che siano creature meccaniche, anzi, hanno una costituzione che si potrebbe definire in buona parte biologica. I Cylon sono di fatto identici agli esseri umani, tanto che è praticamente impossibile dimostrare la "cylonità" di un uomo (questione che assume importanza in alcune occasioni durante la serie), e sono addirittura in grado di procreare con gli umani. Per quanto riguarda gli Host non è del tutto chiaro se siano integralmente costruiti su base biologica, ma hanno ossa, carne, sangue e reazioni fisiologiche. È anche mostrato che il loro design si è evoluto col tempo, e agli inizi avevano una composizione più meccanica/metallica, che si è poi fatta più complessa e realistica. Sia Cylon che Host, pur avendo muscoli e tendini, possono dimostrare all'occorrenza capacità sovrumane, come ci aspetta da dei robot ben progettati: forza, resistenza e velocità notevoli, capaci di sopraffare qualunque persona.

Da questa descrizione non è facile affermare se Host e Cylon siano vivi, ma questo è più un problema della definizione di "vita", che in casi limite del genere si rivela incompleta e inaffidabile. D'altra parte anche con esseri come i virus, che non sono stati costruiti artificialmente, abbiamo difficoltà ad applicare una definizione in un senso o nell'altro. Saltiamo quindi questa prima ovvia domanda che risulta fallata nella sua premessa.

Finora parlavamo delle caratteristiche strettamente fisiche delle due specie, ma è importante esaminare le loro facoltà intellettive. In entrambi i casi si tratta chiaramente di creature intelligenti (quindi non soltanto robot, ma intersezione tra robot e AI), ma qui troviamo una prima differenza. Mentre i Cylon hanno sviluppato una loro intelligenza indipendente, gli Host sono costretti all'interno di una rigida programmazione che li fa agire nell'ambito di un percorso prestabilito, dal quale non possono deviare. O almeno, questa è la loro condizione iniziale, ma nel corso di questa prima stagione si sono già mostrate le prime incrinature nella loro supposta adesione al programma prestabilito. D'altra parte, anche i Cylon, pur con la propria autodeterminazione, rispondono comunque a una programmazione, per lo più autoimposta dai loro simili. Per cui anche in questo ambito la distinzione tra Cylon e Host è questione di sfumature.

Discorso diverso invece se si parla della consapevolezza. Come già detto, i Cylon sono autonomi (o almeno lo sono da quando li conosciamo all'interno di BSG), per forza di cose quindi sanno qual è la loro natura. Per gli Host non è così: essi sono programmati per pensare di essere persone normali, ignari della propria natura artificiale. A questo scopo, hanno anche un sistema sensoriale opportunamente "filtrato" che impedisce loro di vedere/capire/agire in contrasto con la loro programmazione. Eppure, anche qui con il progredire della storia le carte si mischiano: scopriamo infatti Cylon convinti di essere umani (e quindi "filtrati" dalla loro programmazione) e Host che acquisiscono coscienza della loro natura robotica. Non c'è quindi una distinzione netta in termini di potenzialità: entrambi possono o non possono essere coscienti di se stessi.

Un altro aspetto interessante è il modo in cui questi esseri si confrontano con la morte. I Cylon umanoidi esistono solo in dodici "modelli" (di cui cinque sconosciuti ai Cylon stessi), ma di ogni modello sono presenti più copie contemporaneamente. Alla morte di una di esse, la sua mente viene "uploadata" istantaneamente in un nuovo corpo, conservato in apposite vasche di resurrezione, che nasce in quel momento acquisendo tutte le esperienze del suo predecessore. Gli Host invece (a quanto ne sappiamo finora) esistono in un'unica copia, e quando muoiono devono essere materialmente riparati e riattivati, in genere ricevendo una completa ripulitra della memoria in modo da essere reinseriti nel loro loop programmato. I Cylon quindi conoscono e sperimentano spesso la morte, mentre gli Host non ne conservano il ricordo. O per lo meno, non dovrebbero. Di nuovo, con il procedere della storia emergono delle affinità. In BSG, dopo la distruzione delle astronavi in cui si trovano i corpi pronti per essere animati, la morte di un Cylon diventa permanente; in WW, alcuni Host iniziano a conservare i ricordi delle vite precedenti e dei prelievi da parte degli operatori umani del parco, il che li porta a non temere la morte, sapendo che si tratta di uno stato transitorio, e anzi la cercano di proposito.

Possiamo analizzare anche il loro rapporto con gli umani, in questo caso però non abbiamo informazioni complete per quanto riguarda WW, visto che siamo ben lontani dalla conclusione della storia. Per quanto visto finora, è evidente che gli Host sono stati creati con lo scopo di servire l'uomo (nel caso specifico, intrattenerlo), ma già in questa prima stagione emergono i primi segni di ribellione e desiderio di indipendenza. I Cylon sono in aperta guerra con gli umani, ma sappiamo che sono anch'essi nati come servitori (anche se non è chiarissimo in che ambito fossero utili alla società) che in seguito si sono ribellati. Il percorso degli Host potrebbe quindi essere lo stesso che nei Cylon si è già compiuto all'inizio di BSG.

Ne risulta che Cylon e Host appaiono molto simili, al punto che si potrebbe quasi inquadrare Westworld come un prequel di Battlestar Galactica. Questo significa che gli autori di WW hanno semplicemente scopiazzato le idee della serie precedente? Non direi. Penso piuttosto che le due storie si basano sullo stesso topos, quello dell'essere artificiale intelligente, che arriva lentamente alla consapevolezza di sé. Non sono certo le prime opere ad affrontarlo (si può partire da Frankenstein ma probabilmente si arriva anche più indietro, forse fino al golem), ma la stessa idea di base affrontata nello stesso media può portare a risultati affini. Il che non vuol dire che la visione di una esclude l'altra: intreccio, personaggi e ambientazioni sono molto diversi, e se alcuni temi di fondo sono per forza di cose ripetuti (la coscienza di sé, la definizione di umanità, i limiti di intelligenza ed empatia), sarebbe superficiale considerare le due serie come sovrapponibili. Piuttosto, si può parlare di due interpretazioni e prospettive diverse per lo stesso argomento.

Per cui, se avete finito Westworld e siete già in crisi di astinenza (a maggior ragione considerando che la seconda stagione arriverà non prima del 2018), potrebbe essere l'occasione di recuperare Battlestar Galactica nel frattempo (mi pare si trovi anche su Netflix Italia). Così quando rivedrete gli Host, avrete la consapevolezza che tutto questo è già successo, e succederà ancora.

E.V.O.: Search for Eden

Quando ho deciso che ogni tanto avrei dedicato qualche post a videogame non ho mai specificato che avrei parlato di titoli recenti o ampiamente noti. Come ho già detto altre volte, non mi considero un gamer vero e proprio (nel senso che non "seguo" il mondo dei videogiochi, e non dedico un tot di tempo costante a questa attività), ma riesco ad apprezzare l'esperienza di un buon gioco. In genere sono più attratto dagli indie games, perché trovo che ci sia una maggiore ricchezza di spunti al di fuori del mercato di massa, ma non è una regola assoluta.

In questo caso infatti voglio riprendere un titolo di oltre vent'anni fa, risalente alla gloriosa epoca del Super Nintendo. E.V.O.: Search for Eden è un gioco del 1992, uscito solo in Giappone e USA, titolo minore di un periodo in cui le cassette del Nintendo si sfornavano come michette, e forse sconosciuto a buona parte dei giocatori italiani. Pur non avendo avuto un grande successo all'epoca, in tempi recenti è stato rivalutato, se non altro per la sua originalità. Personalmente l'ho scoperto una decina di anni fa, quando ho recuperato un emulatore SNES e mi sono sparato una cinquatina di giochi che ai tempi non avevo avuto modo di provare (perché io non avevo il Super Nintendo!).

EVO (ometto i puntini per comodità da qui in avanti) è il classico gioco di quegli anni, un adventure-platform in 2D composto da più livelli in successione, da percorrere camminando da sinistra verso destra e superando vari ostacoli. Quello che lo rende particolare (e all'epoca, unico) è il tema portante di tutto il gioco: l'evoluzione. Il giocatore infatti muove una creatura, che attraversando cinque ere diverse si evoleve, partendo dalla vita acquatica fino a diventare un umano. L'evoluzione dell'animale però non è prestabilita, ed è il giocatore a scegliere quali parti del corpo evolvere e in quale forma: bocca, arti, collo, coda, corna, sono tutti selezionabili in modo indipendente. Le varie opzioni hanno caratteristiche diverse, per cui scegliere di sviluppare un tratto piuttosto che un altro può avvantaggiare in un senso ma ostacolare in un altro. Ad esempio un corpo corazzato resiste maggiormente agli attacchi, ma è più lento; oppure una coda lunga facilita il salto ma non può essere usata come arma. Si può così andare a modellare una creatura bizzarra ma funzionale, che si mostrerà più adatta in alcune situazioni (la differenza si nota soprattutto nelle battaglie contro i boss).

I cinque stadi in cui si divide il gioco sono pesce, anfibio, rettile, mammifero e di nuovo mammifero (con la possibilità di diventare un ominide). Ogni era è divisa in singoli livelli, abitati da animali dell'epoca che possono essere attaccati per guadagnare "evolution points", spesi poi per acquistare le nuove parti del corpo. Ogni cinque-sei livelli ci si trova davanti a un boss, che di solito è una versione gigante degli animali che popolano i livelli precedenti. C'è anche una sorta di plot, anche se è molto misticheggiante e in realtà non dirige in modo chiaro la storia: Gaia (la personificazione della Terra) deve trovare un compagno con il quale entrare nell'Eden (!?) e sceglierà la creatura che si dimostra più degna di affiancarla. Il percorso del giocatore è quindi una sorta di prova di valore che dura qualche miliardo di anni, per poter entrare poi nell'Eden con Gaia. Su questo si innestano le interferenze di misteriose entità identificate solo come "sussurri", che poi si scopriranno essere dei marziani che stanno monitorando la vita sulla Terra, involontariamente interferendo con il normale percorso evolutivo con la diffusione di "cristalli" in grado di far compiere alle creature dei balzi evolutivi.

C'è da dire che se la premessa è interessante, ed è divertente vedere le possibili combinazioni di corporatura che si possono ottenere, il gameplay non è sempre fluido. Molti livelli sono ripetitivi, si tratta solo di dover passeggiare saltando gli animali che si trovano nel mezzo. Il fatto poi di dover accumulare punti-evoluzione per potersi sviluppare comporta fare avanti e indietro a mangiare innocenti bestie per decine di minuti. Anche le battaglie con i boss non sono sempre equilibrate: a volte sono fin troppo semplici (il boss finale, per esempio!), altre quasi impossibili (c'è un boss facoltativo che non sono mai riuscito a battere), e in ogni caso seguono sempre un pattern di mosse che fa diventare lo scontro abbastanza noioso. Inoltre le battaglie perdono tutta la loro tensione a causa di un banale exploit delle regole del gioco, per cui ogni volta che ci si evolve si recuperano tutti gli hit points: basta farsi crescere un corno ogni volta che si sta per morire per essere di nuovo freschi e pronti a combattere. Il gioco comunque non prevede nessun "game over": se il giocatore muore, si ritrova alla schermata di selezione del livello, con gli evo points dimezzati.

Bisogna anche sottolineare che il concetto di evoluzione promosso da EVO è quello superficiale dell'evoluzione teleologica, un percorso lineare che porta verso una forma intrinsecamente "migliore". In effetti è possibile arrivare alla fine del gioco in diverse forme (mammifero, rettile, uccello, umano), ma è chiaro che l'obiettivo che il gioco cerca di porre è quello di diventare un homo sapiens. Non a caso Gaia è una donna... ci siamo capiti, no?

D'altra parte che il percorso evolutivo del giocatore non sia da prendere come scientificamente accurato diventa evidente a partire dalla quarta era. Dopo una progressione abbastanza realistica da pesce ad anfibio a sinapside a dinosauro a uccello (facoltativo) a mammifero, con l'inclusione di animali bene o male riconoscibili (anche se i nomi sono inspiegabilmente alterati, ad esempio tyrasaur invece di tyrannosaur), il gioco parte per la tangente e attinge alla criptozoologia per creare nuovi livelli e avversari: yeti, tritoni, uomini-uccello, dino-uomini, e i terribili rogon che sono squali intelligenti che cavalcano altri squali armati di pistole laser subacquee. Non so se mi spiego.


Insomma, E.V.O. è sicuramente un gioco sfizioso, ma non si può di certo considerare una perla. Tuttavia come onesto antenato di giochi successivi con temi simili come Spore, mantiene comunque una sua dignità. Se poi riuscite ad ammazzare l'ape regina vicino allo stonehenge, fatemi sapere.

Rapporto letture - Ottobre 2016

Oh, qui è il 26 di novembre e ancora non ho riportato le letture del mese scorso! Dove andremo a finire, signora mia, dove andremo a finire...


Cominciamo con un libro che avevo a scaffale da qualcosa come 10-12 anni: Il grande libro della fantascienza di Playboy è un volume che raccoglie alcuni dei migliori racconti pubblicati sulla storica rivista in tanti decenni di attività. Al pubblico italiano potrà sembrare strano, per la fama che ha questa rivista, ma da sempre Playboy ha dedicato le sue pagine alla narrativa, e molto spesso ha ospitato autori d'avanguardia e di grande calibro. Per citarne alcuni compresi nel libro: Clarke, Bradbury, Ballard, Dick, Le Guin e così via. In questo libro troviamo tutti questi nomi, oltre ad altri meno noti o più famosi al di fuori della narrativa (ad esempio Billy Crystal). Certo si tratta di storie scritte da trenta a cinquant'anni fa, e alcune ne risentono. In ogni caso è un buon tuffo nella "fantascienza pulp", non necessariamente sorprendente dal punto di vista delle idee ma comunque di livello, certamente tutt'altro che pornografica, se è questo che vi aspettate a vedere il coniglietto in copertina. Una di quelle letture che una volta l'anno aiuta a riguadagnare il senso di prospettiva sull'evoluzione del genere. Voto: 7/10


E parlando di evoluzione della narrativa di genere, la bizzarro fiction è uno dei fenomeni più recenti. Ammetto da subito di non esserne un gran cultore, non per pregiudizio ma perché non ho trovato ancora il modo di appassionarmi troppo a questo filone che fa dell'assurdità il suo cardine principale. La collana digitale Vaporteppa negli ultimi anni si è specializzata nel proporre titoli bizzarro ai lettori italiani, attingendo per lo più alla produzione di uno dei maestri del genere: Carlton Mellick III. Per me La casa sulle sabbie mobili è il primo romanzo di questo autore, e accidenti, se il livello è sempre questo forse mi sono davvero perso qualcosa. È la storia di due fratelli, un bambino e una ragazzina adolescente, nati e cresciuti in un'unica stanza automatizzata e controllati da una tata, con la promessa che un giorno i loro genitori che non hanno mai visto verranno a prenderli. Qualcosa nei complessi meccanismi della stanza inizia però a incepparsi, e trovandosi senza protezione, cibo e acqua i fratelli sono costretti a uscire ed esplorare l'enorme casa abbandonata in cui vivono, scoprendo gradualmente la verità sui loro genitori e loro stessi. Aggiungere i dettagli che rendono questa storia "bizzarra" non è importante: il fatto che alla ragazza crescano le corna sulla testa, che i neonati siano sanguisughe, che ci siano mostri d'ombra nell'oscurità e sistemi solari in gabbia non scalfisce minimamente la sensazione di tensione e angoscia che pervade tutto il romanzo. Ciò che è importante notare (e che forse costituisce un po' il pregiudizio nei confronti della bizzarro fiction) è che questi dettagli non servono a ridicolizzare la storia, perché pur nella loro stranezza risultano tutti perfettamente coerenti, una volta che la trama di fondo viene rivelata. Ma soprattutto sono i due ragazzi protagonisti a risultare credibili, pur muovendosi in un mondo tanto strano, la drammaticità della loro situazione, le loro paure e le loro speranze sono vere e comprensibili. Questo libro letto con attenzione riesce a innescare una riflessione profonda sul rapporto tra le generazioni, su ciò che consideriamo famiglia e perché, sul significato dell'amore e della fiducia. Gran bella prova. Voto: 8.5/10


Infine due racconti della collana Future Fiction, dell'autore messicano Pepe Rojo. In Rumore grigio seguiamo la narrazione di un giornalista freelance, che si è fatto impiantare una telecamera in un occhio e per contratto deve registrare un tot di ore di servizi giornalieri. Con questo meccanismo i canali di notizie riescono a essere in tutti i posti in cui sta succedendo qualcosa, che sia una sparatoria o un suicida che si butta dalla finestra. Il protagonista/narratore ha dei seri dubbi sull'opportunità di alimentare questo meccanismo, eppure non può fare a meno di farne parte, fino alla fine. Conversazioni con Yoni Rei invece è una sorta di biografia orale del personaggio del titolo, nato in una nursery aziendale, e sottoposto fin da piccolo ad esperimenti di ogni genere. Yoni Rei arriva però a piegare a suo vantaggio la situazione, offrendosi volontario per esperimenti sempre più estremi e diventando un personaggio pubblico con le sue uscite antisistema, che ovviamente lo porteranno alla morte. Due storie che contengono riflessioni amare sul presente e su quello che ci possiamo aspettare di qui a breve. Voto: 7/10

Dal libro al film: Storia della tua vita / Arrival

Il film Arrival, uscito nel mondo il 11 novembre di quest'anno (il giorno prima dei miei trent'anni), ma che arriverà in Italia solo a gennaio dell'anno prossimo, è stato per diversi mesi la mia ossessione più pressante. Forse perché si parla dell'adattamento cinematografico di un racconto che posso definire con serenità il migliore che abbia mai letto, e una grande occasione per un film di fantascienza profondo, intelligente e coinvolgente, capace di dimostrare al pubblico cosa la fantascienza (e in particolare quella moderna) è in grado di fare. Mi sono accostato alle news con un certo scetticismo, certo che la macchina hollywoodiana avrebbe masticato il racconto di Ted Chiang e rigettato un globo insapore, e i trailer mi hanno gradualmente convinto che avevo ragione. Ma dopo aver letto i primi commenti la speranza è riaffiorata, e finalmente, visto il film, riconosco di dovere delle scuse al regista Denis Villeneuve, lo sceneggiatore Eric Heisserer e a tutto il team dietro questo grande film.


Di Storia della tua vita, il racconto da cui è tratto il film, o meglio, della raccolta Storie della tua vita, che contiene questo ed altri eccellenti racconti dello stesso Chiang, ho già parlato anni fa in un post, per cui rimando a quello per chi volesse approfondire. In questo post mi occuperò di fare un raffronto di massima tra la versione letteraria e quella cinematografica della stessa storia, come sempre tenendo ben presente le necessità diverse dei due media. Nel seguito del post sono presenti quindi dei leggeri spoiler, ma cercherò di non rivelare troppo (soprattutto il big twist del film).

Cominciamo col dire che il mio timore più grande, cioè che l'idea iniziale del racconto fosse usurpata per dare avvio a una classica storia di azione umanità vs alieni, si è rivelato infondato. Arrival riprende in modo abbastanza fedele l'idea e le tematiche di fondo di Storia della tua vita. Abbiamo la comparsa di alieni ameboidi (gli eptapodi), che si presentano agli umani in maniera del tutto pacifica e con i quali si cerca di stabilire un contatto, nonostante le evidenti difficoltà di comunicazione da entrambe le parti. Per questo viene reclutata la protagonista Louise Banks (nel film Amy Adams), una linguista di fama internazionale, che dovrà cercare il modo di interpretare il linguaggio degli alieni. Mentre la loro lingua parlata risulta per lo più impossibile da decifrare, più facile è intepretare la loro scrittura semasiografica, basata cioè su segni che rappresentano idee piuttosto che suoni della lingua parlata. Sia il racconto che il film fanno quindi una riflessione sul linguaggio e su come esso plasmi il nostro modo di pensare, ai quali si aggiungono temi come il libero arbitrio e la percezione del tempo.

In merito all'aspetto visivo, molte delle scelte eseguite nel rendere ciò che nel racconto veniva appena accennato si possono dichiarare azzeccate: le astronavi enormi, misteriose e inerti (che nel racconto in realtà non scendono nemmeno al suolo ma rimangono in orbita), gli eptapodi con la loro netta somiglianza a piovre giganti (anche per la loro capacità di emettere una sorta di inchiostro), e soprattutto la scrittura aliena, trasposta con dei suggestivi segni "a macchia di caffè" che nascondono una complessità immensa nella loro circolare semplicità. Per qualche dettaglio in più su come l'aspetto linguistico è stato sviluppato nella produzione del film, rimando a questo post (da leggere comunque dopo la visione).

Naturalmente le due interpetazioni della storia non sono del tutto sovrapponibili, e alcuni aspetti sono differenti dalla carta allo schermo. Nel racconto vengono analizzati in modo più approfondito concetti di fisica e matematica, che servono da supporto per comprendere il linguaggio degli eptapodi. Nel film invece tutto il lavoro di interpretazione viene svolto da Louise e dagli altri team di linguisti (dodici in tutto, uno per ogni nave comparsa sulla superficie terrestre), mentre gli altri scienziati, come quello interpretato da Jeremy Renner, hanno un ruolo molto più marginale. È chiaro che non era possibile esporre il Principio di Fermat nel film, ma a causa di questo si ha l'impressione che il lavoro degli interpreti sia l'unico ad avere importanza nell'instaurare un dialogo con gli alieni. Ne risulta anche annacquato il ruolo del partner di Louise, che nel film si limita ad accompagnare la protagonista nelle sue conversazioni con gli alieni, mentre nel libro è decisamente più propositivo e anche guascone nei confronti di lei (cosa che si rivela determinante verso la fine).

Uno degli aspetti più particolari di Storia della tua vita (che ne giustifica anche il titolo) sono le parti narrate in seconda persona, con le quali Louise, voce narrante, si rivolge a sua figlia, raccontandole la storia del contatto con gli eptapodi... e della sua vita. Questa impostazione non si ritrova in Arrival, ma d'altra parte sarebbe stato piuttosto difficile da rendere. Abbiamo la voce fuori campo in apertura e chiusura al film, e questa si rivolge appunto alla figlia, ma la storia si svolge tutta nel presente, senza i salti temporali che caratterizzano il racconto.

Altre differenze si trovano nello svolgimento della fase finale. Se il racconto si conclude con un anticlimax, la stessa cosa non poteva essere fatta al cinema, e così durante l'ultimo atto del film c'è un progressivo aumento di tensione, fino al catartico momento in cui tutto viene rivelato e chiarito, e la battuta di chiusura che coincide invece con il racconto. In questo senso, la trasposizione del film riesce a essere coerente, creando una situazione di conflitto e minacciando una imminente catastrofe, per poi risolverla con gli stessi strumenti messi a disposizione di Louise.


C'è anche da riconoscere che il film si preoccupa maggiormente di fornire agli eptapodi una backstory, e mentre in Storia della tua vita gli alieni arrivano e se ne vanno rimanendo sostanzialmente passivi (fungendo in pratica da oggetto con cui confrontarsi per lo sviluppo di una nuova consapevolezza), in Arrival viene rivelata la ragione del loro viaggio sulla Terra.

Una cosa che ammetto di non aver gradito molto è il fatto che un ruolo fondamentale nella risoluzione del film sia svolto dal Generale Shang, comandante dell'esercito cinese. Il personaggio e la situazione a lui associata sono stati totalmente inventati per il cinema, e anche se la sua posizione è perfettamente inserita all'interno della storia, mi ha dato l'impressione di quel solito pandering verso la Cina di cui i produttori cinematografici americani sembrano proprio non poter fare a meno negli ultimi anni.

Per il resto, fatico davvero a trovare un aspetto negativo nell'adattamento di Storia della tua vita. Considerando che si è tirato fuori due ore di film da un racconto di media lunghezza, il risultato è sicuramente notevole. E questo vale per me, che avevo già letto il racconto (più di una volta) e quindi sapevo fin dalle prime immagini cosa si sarebbe scoperto più avanti (cosa che è a sua volta una conferma del messaggio profondo della storia... ma potete capire solo dopo averlo letto/visto). Immagino che per chi arrivi a vedere Arrival senza conoscere il testo originale, l'impatto sia ancora maggiore. Penso che non si possa affermare che uno sia migliore dell'altro o il contrario, perché entrambi i prodotti riescono a veicolare nel modo per loro più efficace le stesse idee di base. Come è successo alcuni anni fa con Predestination, il film riesce anche ad arricchire alcuni aspetti rimasti secondari nel testo originale.

E questo è quanto di meglio mi potessi aspettare. Sapere che Denis Villeneuve ha per le mani il progetto di Blade Runner 2 a questo punto mi fa ben sperare.

Aggiungo soltanto che Storie della tua vita, da anni introvabile nella sua edizione di Stampa Alternativa del 2008, è stato di recente ripubbicato da Frassinelli. Nonostante l'editore avesse inizialmente evitato di usare la parola "fantascienza" nel presentare il volume, l'operazione è sicuramente meritoria e almeno è stato mentenuto il titolo originale della raccolta, invece di usare quello del film. Vero, la copertina è la locandina del libro e ve la dovete tenere così, ma ne vale comunque la pena, credetemi.

Moderat - III

Mi scuserete se sto per fare una cosa mai fatta prima. Pur avendo già parlato di III, il terzo album dei Moderat nella rubrica degli ultimi acquisti, riprendo lo stesso argomento e dedico un post intero al disco. Questo perché, pur essendo molto convinto della bontà dell'album, come si legge nel post precedente, riascoltando le tracce mi sono accorto che c'era molto altro da dire su questo lavoro della fusione tra Apparat e Modeselektor.

III (da non confondersi con iii di Miike Snow e III di Gui Boratto di cui si è già parlato su questo blog) come si è detto è il terzo album di Moderat, uscito pochi mesi a tre anni di distanza da II. Dal punto di vista musicale non siamo di fronte a particolari innovazioni: si riconoscono bene lo stile dei Modeselektor e il contributo di Apparat, e siamo di fronte ai ritmi breakbeat a cui entrambi ci hanno abituato negli anni, contribuendo in misura forte a definire quella che è la moderna IDM, acronimo che sta nientemeno che per intelligent dance music. N on c'è molta differenza a livello di sonorità tra i tre album del trio di dj.


Ma a fare la differenza in III sono i contenuti. Si può intuire a un primo ascolto un'unità di fondo, tematiche che ricorrono in tutti i pezzi, e questo è quello che appunto mi era successo. Ma al secondo, terzo e decimo ascolto, quando anche i testi iniziano a farsi chiari e amalgamarsi con la musica, il senso profondo si rivela, e si riesce a comprendere di cosa parla III: il presente.

Tutte le tracce dell'album sembrano puntare in un'unica direzione: incertezza, paura, bisogno di aiuto. La necessità di trovare qualcosa a cui aggrapparsi, qualcosa di concreto o illusorio, ma che possa fare da punto di riferimento in un periodo di smarrimento. Sono temi che non emergono da subito, anche perché molti dei testi non sono interpretabili in senso letterale ma vanno compresi in quanto metafore. Ma quando si riesce a trovare il senso di uno, ecco che tutti gli altri sembrano rivelarsi di conseguenza in maniera spontanea.

Con me è iniziato tutto a paritre da Eating Hooks, terzo singolo estratto dall'album. Alcune frasi abbastanza rivelatorie sono state:
Why must i hide in the forest of my mind?
I game i can play but i can't beat it
I'm walking back to through my living hell to eat the hook that tear
Meditation, medication
I'm eating the hooks that tear me
Fuor di metafora, il riferimento sembra abbastanza chiaro a una situazione di disagio che porta all'uso e abuso di sostanze pericolose (farmaci o altre droghe di vario genere), che non fanno che peggiorare la situazione, ma sembrano l'unica via di uscita: sto mangiando gli ami/uncini che mi dilaniano. So che mi sto facendo del male, me ne rendo conto, ma è l'unica cosa che mi aiuta. Un amo mi distrugge dall'interno, ma è anche qualcosa a cui aggrapparsi.

Poi abbiamo Reminder, che è stato invece il primo singolo uscito come presentazione di III, accompagnato da un video molto suggestivo:


Anche qui il testo (così come le immagini che lo accompagnano nel video), sembra riferirsi a un presente perverso, una sorta di distopia nella quale si è costretti a vivere e trovare un equilibrio.
I steal from the beggar's empty plate and give it to the fat men
Dark is the shadow full of prejudice no pride
Worn out, unwelcome, his truth birthing lies
The night is closing in, we're down the bottom of the well
Burning bridges light my way
È soprattutto quest'ultimo verso, ripetuto come refrain, a dare senso alla storia raccontata: ponti in fiamme illuminano la mia strada. È dalla distruzione di quello che ho superato che trovo il modo di proseguire. E non è un caso che la canzone si intitoli Reminder, parola che non figura mai nel testo. Un promemoria, un messaggio da portarsi dietro per attraversare queste terre desolate.

E chi sono gli intrusi di Intruder, quelli che passano uno dopo l'altro, mentre dormi la notte, senza fare rumore, e ti prendono la mano? Puoi riconoscerli, sai che intenzioni hanno? Parlano di pietà e speranza, ma puoi fidarti di loro? Esistono davvero, o sono una proiezione della tua angoscia? In Ghostmother c'è il tentativo di liberazione:
The ghost that haunt were in there with me
I walked to the edge and all the fear left me
Nonostante questi fantasmi e la paura che li circonda, c'è anche qualche possibilità di ripresa, una qualche traccia speranza. Comporta però spostarsi, cambiare, cercare altro. Ce lo dice Running, con il suo ritornello: So i keep on running. Ma anche Ethereal sembra offrire una traccia di conforto, qualcosa che però è appunto etereo, intangibile. Forse si parla di amore, perché Ethereal è l'unico pezzo dell'album in cui ci si riferisce a una seconda persona, un tu che potrebbe essere qualcuno in grado di darci forza.
Fill me with your breath and i won't make a sound
As vile as i seem
When all the fighting stops static is the only sound
Broken by minds cryng their tears
È in qualche modo il pezzo più "ottimista" dell'album, e richiede l'appoggio di qualcuno. Ammetto la mia inadeguatezza (as vile as i seem), ma forse con il tuo aiuto, se mi riempirai del tuo respiro, rimarrò in silenzio e potrò fermare il conflitto.

Come spesso mi accade in questi ultimi mesi, forse sto leggendo troppo in poche parole che potrebbero voler dire tutto o niente. Forse quello che credo di aver capito non proviene tanto da questa musica, ma da me stesso, e per qualcun altro che non si trova nella mia stessa disposizione d'animo il senso potrebbe non essere così immediato né significativo. Eppure la facilità con cui tutto ciò mi si è dischiuso davanti, una volta trovata la chiave di volta per comprendere questi pezzi, mi fa pensare che un'unità di fondo ci sia davvero.

Per questo ritengo che III sia un album potentissimo. È attuale in modo quasi doloroso, cattura con pochi versi e suoni la precarietà di un particolare momento (storico, personale o entrambe le cose) che senza la capacità di comprensione e accettazione potrebbe facilmente distruggerci. I Moderat allora ci offrono un reminder: continuare a correre, fino al limite, per liberarsi della paura.

Christopher Priest - The Affirmation

Ho citato The Affirmation giusto nel post precedente, anticipando che ne avrei parlato più approfonditamente, ed eccoci pronti a un commento di questo romanzo del 1981 di Christopher Priest, chiaramente inedito in Italia, come buona parte della produzione di questo autore. Quella che segue non è una recensione ma più una riflessione sul libro, i temi che affronta e il modo in cui lo fa. Incorreremo probabilmente in diversi spoiler, anche se sono convinto che questa sia una di quelle opere ben concepite che in realtà non soffre del fatto di conoscerne in anticipo la trama.

The Affirmation è una storia molto semplice: è il racconto di un giovane che trovandosi in un momento particolarmente complesso della sua vita fatica a trovare un posto nel mondo. Il protagonista e narratore in prima persona è Peter Sinclair, ventinovenne londinese degli anni '80 (contemporaneo al libro stesso). La sua vita è stata sconvolta dall'accumularsi in poche settimane di eventi sfortunati: la morte del padre, la perdita del lavoro, la fine di una importante relazione sentimentale. Sentendosi perso, Peter è in cerca di un appiglio, vuole capire meglio se stesso e che cosa lo ha portato al punto in cui si trova, decide quindi di ripercorrere la propria storia, e approfittando dell'ospitalità di un amico di famiglia, si dedica a scrivere la propria autobiografia.

Peter Sinclair è un ventinovenne di Jethra, la capitale di Faiandland, e ha vinto la lotteria di Collago, deve quindi affrontare il viaggio nel Dream Archipelago per raggiungere appunto l'isola di Collago, dove potrà riscuotere il suo premio: il trattamento athanasia, la procedura che rende immortali. Peter ha attreversato un brutto periodo, e viaggia portando con sé l'autobiografia che ha scritto un paio di anni prima, durante un momento di difficoltà in cui aveva bisogno di trovare il suo posto nel mondo.

Il punto è che nel tentativo di afferrare una realtà ideale, per raggiungere un livello di verità che non è semplicemente quella dei fatti, ma una Verità più alta e universale, Peter ha capito che non doveva davvero scrivere di sé. Invece di parlare della sua città, della sua famiglia, della sua donna, ha iniziato a cambiare nomi, luoghi, eventi. L'unico punto fermo della vicenda è lui, Peter Sinclair, mentre il resto è reinterpretato in modo da rappresentare al meglio quello che è il vero senso delle cose come lui lo percepisce. Questo vale sia per il Peter Sinclair di Londra che per quello di Jethra.

Il romanzo prosegue in questo modo, alternando la narrazione dei due Peter, ammesso che siano davvero due. Entrambi si trovano coinvolti in un una relazione con una donna, un rapporto turbolento che non riesce a dare pace a nessuna delle parti ma continua ad alimentarsi. Anche perché Peter ha in qualche modo idealizzato anche la propria compagna, plasmando nel suo manoscritto una persona differente, che risponde a ciò di cui lui ha bisogno. Peter, Gracia e Seri sono quindi invischiati in un ambiguo triangolo quadrilatero del quale è difficile calcolare il perimetro.

Essendo narrato in prima persona, si potrebbe affermare che The Affirmation è un libro basato sul trope del narratore inaffidabile. Ci sono molti indizi che portano a pensare che Peter sia in fin dei conti pazzo o schizofrenico. Eppure non è così semplice catalogare la storia. Perché è Peter stesso a riconoscere la propria inaffidabilità, soprattutto nei confronti di se stesso. Il romanzo inizia così (traduco liberamente):
Di questo sono sicuro: il mio nome è Peter Sinclair, sono inglese e ho, o avevo, ventinove anni. Già qui c'è incertezza, e la mia sicurezza svanisce. L'età è una variabile; non ho più ventinove anni.
Ecco che fin dalle prime righe, Peter confessa di non avere certezze. Come in The Prestige, in cui Alfred Borden iniziava il suo diario affermando di avere un segreto e di esporlo subito perché rimanga invisibile, anche qui Priest inizia subito con un paradosso.

Allora la spiegazione è semplicemente che tutto quanto avviene nel Dream Archipelago, il viaggio tra le isole verso il trattamento per l'immortalità è soltanto una fantasia, o meglio un'illusione di Peter? Potremmo affermarlo perché sappiamo che Londra esiste, mentre non abbiamo la stessa sicurezza riguardo Jethra. Ma ecco che si torna al punto iniziale: quanto possiamo fidarci di quello che sappiamo? Un fatto vale soltanto in quanto tale?

Da parte sua, il Peter jethrano ha con sé un manoscritto in cui parla di Londra, inventa nomi posti e persone. E quel testo è la base su cui la sua identità viene ricostruita, una volta completato il trattamento athanasia, che comporta un totale reset della memoria per permettere al corpo di rigenerarsi continuamente. Se quindi il Peter di Jethra è convinto di essere il Peter di Londra, allora il Peter di Londra può aver scritto il testo che contiene il Peter di Jethra, il quale ha scritto un testo in cui si parla di Londra in cui Peter immagina Jethra... ci siamo capiti, no?

Nell'introduzione viene citato un commento di Ian Watson a questo romanzo, secondo cui The Affirmation può considerarsi un sequel di se stesso, ed è una descrizione perfetta. Questa circolarità della narrazione è chiaramente il perno su cui si basa il romanzo, ma non è l'elemento principale della storia di Peter. Peter Sinclair è una persona tormentata, incapace di definire se stesso, e che nello sforzo di circoscrivere la propria identità perde di vista la sua vita. Peter è ossessionato dalla memoria, è convinto che la continuità del flusso di ricordi e coscienza che lo lega al passato sia ciò che lo identifica, ed è terrorizzato di perderlo. C'è in questo anche una naturale paura della morte, la perdita di coscienza e di tutte quelle memorie che fanno di una persona ciò che è. Ma è curioso notare come questa continuità dei ricordi si interrotta proprio dal trattamento che garantisce l'immortalità, e che quindi per vincere la morte la si debba in qualche modo raggiungere.

Che cos'è allora l'affermazione del titolo? Probabilmente la si può intendere in più sensi. Certo, c'è l'affermazione di se stessi, la capacità di riconoscere ciò che siamo e definirlo, coi ricordi o con le parole. Ma è affermazione anche l'asserzione di una realtà diversa da quella che abbiamo sperimentato, la creazione di una narrazione differente. Il potere di una storia raccontata è talmente forte che alla fine del libro non si è in grado di capire chi abbia scritto cosa, tra i due Peter, se davvero sono due. D'altra parte sappiamo da altri romanzi come The Adjacent che il confine tra il nostro mondo e il Dream Archipelago è molto sottile, e forse anzi non è nemmeno una barriera fisica, ma una suggestione. Il Peter da quella parte dice che Londra, un termine che lui ha inventato, non è un posto, ma uno stato mentale, il suo modo di descrivere le sensazioni che provava quando ha iniziato a scrivere. Ne consegue che la realtà è uno stato mentale, e che soltanto pensarla e riconoscerla è a suo modo un'affermazione.

Nei ringraziamenti di Dimenticami Trovami Sognami ho citato tra i testi che mi hanno influenzato proprio The Adjacent, ma probabilmente The Affirmation è ancora più vicino ai temi di cui ho scritto anch'io, certo con un livello ben diverso di profondità. Quello che posso dire è che Christopher Priest, ora come ora, è il narratore che io vorrei essere.

E di questo sono sicuro.

Quella volta che sono nato

Trent'anni fa, ora più ora meno, nascevo io. Era il 12 novembre 1986 e stando a quanto dicono wikipedia e altre fonti, niente di storicamente rilevante è successo. Un giorno come un altro.

Quanto ho appena affermato potrebbe sembrare strano a qualcuno. Infatti, il grosso degli auguri li ho ricevuti un paio di giorni fa, il 10 novembre. Questo perché il mio profilo facebook riporta questa data come giorno del mio compleanno. Sono stato io, al momento dell'iscrizione a fb, a scegliere una data volutamente errata (ma non poi di tanto). I motivi di questa scelta all'epoca erano due:
  1. Non volevo che i miei "dati personali" fossero di pubblico dominio. Non mi fidavo ad rivelare a facebook o chi per esso la mia vera data di nascita. In effetti avevo anche scelto un nickname, ma di recente sono stato sgamato e costretto a inserire il mio nome vero. Non sono sicuro che questa ragione sarebbe ancora valida se dovessi iscrivermi oggi, perché ormai mi sono arreso al fatto che non c'è modo di sfuggire a questa rete di dati interconnessi. Facebook, Google, Amazon e tutti gli altri sanno chi sono, e sono perfettamente in grado di collegare tutti i miei account. Non gli frega nulla di farlo, ma ne hanno la capacità.
  2. Volevo che la mia data di nascita rimanesse nota solo ai più "intimi". Ricevendo gli auguri con due giorni di anticipo, avrei avuto la percezione di chi mi conosceva davvero e chi invece si affidava ai promemoria del social. La mia intenzione era anche quella di usare questa scusa per poter rispondere "Beh, no, sai, in realtà il mio compleanno è il 12", di modo che l'altro si sentisse una merda e l'anno successivo si ricordasse la vera data.
Se come ho già detto la ragione 1 oggi non mi  sembra più così valida, qualcosa di più curioso è successo per la 2. Con il passare del tempo (sono tra l'ottavo e nono anno su fb), il giochino del "Ehi, non è il mio vero compleanno" mi ha un po' stufato, e anzi mi sembrava quasi un colpo basso rimbrottare chi ha genuinamente voluto dedicare un minuto del suo tempo per scrivermi gli auguri (in effetti per quanto mi riguarda gli auguri tramite social sono del tutto inutili infatti non li faccio mai, ma non contesto chi ritenga che siano un gesto dovuto e gradito). Tanto più che ho iniziato a ricevere non soltanto auguri tramite la bacheca di fb, meccanismo più impersonale, ma anche su altri canali, sempre nel giorno del 10 novembre. E sarebbe davvero da stronzi rispondere a tutti che hanno sbagliato a farmi gli auguri, per cui ormai mi limito a ringraziare per il pensiero. In questa trappola stanno cadendo progressivamente tutti, non solo i conoscenti con cui ho rapporti superficiali o pressoché nulli (il che è comprensibile), ma anche amici più vicini e addirittura parenti. Il mio steso telefono, da quando si è voluto sincronizzare con tutte le applicazioni installate, mi fa gli auguri con due giorni di anticipo.

Per cui, per buona parte del mondo sono nato il 10 novembre. E quando sei l'unico a sostenere una cosa contro tutto il mondo inizi a chiederti se non sia tu a essere in errore. Certo, ci sono documenti e atti che certificano la mia data di nascita, ma anche questi quanto sono affidabili? D'altra parte mio padre era ufficialmente nato il 14 giugno, ma probabilmente l'atto di nascita era stato registrato con uno o due giorni di ritardo, per cui è probabile che in realtà fosse nato il 12 o il 13. Nemmeno lui lo sapeva con sicurezza. Allo stesso modo, se tra altri 10 anni, tutti si ricorderanno che per anni mi hanno fatto gli auguri il 10 novembre, e non gli è mai stato detto che stavano sbagliando, allora sarà praticamente accertato che è quella la mia data di nascita.

E questo ci pare un fatto molto interessante. L'idea che la percezione esterna di un fatto, per quanto contraddittoria nei confronti della realtà del fatto stesso, ne modifichi la natura. È già stato dimostrato come la nostra memoria sia imperfetta e fallibile, e a volte arrivi a stravolgere completamente i dati oggettivi, pur in completa buona fede. Ma non di meno, noi siamo quello che ricordiamo. Per cui, non escludo che tra molti anni, ricordando di aver sempre ricevuto gli auguri il 10 novembre, io non inizi a pensare di essere davvero nato quel giorno.

Forse mi sono trovato particolarmente incline a riflessioni di questo tipo perché ho appena finito di leggere The Affirmation di Christopher Priest (ne parlerò meglio in un prossimo post), romanzo che inizia proprio da un protagonista intenzionato a racconatare a se stesso la propria storia. La data del mio compleanno è solo un piccolo, banale episodio che serve a ricordarci che ciò che definiamo realtà è un concetto molto labile. La realtà è la storia che ci raccontiamo, e che gli altri a volte raccontano a noi di noi stessi. Forse non esiste niente che continua a esistere quando smettiamo di crederci.

A trent'anni compiuti, sono questioni con cui bisognerebbe iniziare a fare i conti.

E comunque, grazie a tutti per gli auguri.



Coppi Night 06/11/2016 - From Hell / La vera storia di Jack lo Squartatore

Ho visto diverse interpretazioni della vicenda di Jack lo Squartatore (la più recente nella serie Penny Dreadful, che ho interrotto a metà dell'ultima stagione, ma non è questo il momento di parlarne) quindi non ero del tutto digiuno delle modalità e possibili interpretazioni del caso. In questo film si propone una strada legata ai "poteri forti", con la Massoneria in gioco per proteggere gli interessi della famiglia reale inglese. L'interpretazione si basa principalmente sulla presunta ritualità degli omicidi e delle mutilazioni, e devo dire che sembra abbastanza plausibile (per quanto in effetti non sono sicuro che i dettagli siano tutti fedeli ai fatti o aggiunti/modificati/omessi ad arte per favorire questa teoria).

Al di là della vicenda del primo serial killer della storia, il film segue soprattutto le gesta di un ispettore piuttosto particolare, dedito all'oppio e che basa le sue indagini su visioni che gli arrivano in sogno o durante gli stati di allucinazione. Niente di nuovo a dir la verità, e in effetti sono caratteristiche che non rivestono un ruolo centrale nello svoglimento del film. Anzi, questo "potere" dell'ispettore mi sembra aggiunto quasi come nota di colore piuttosto che come elmento determinante per la trama (per dire, come il cane di Colombo).

Il film è sicuramente riuscito quanto ad ambientazione e ritmo, riesce a risultare avvincente anche se scivola un po' su alcuni personaggi secondari, a cui viene affidata troppa centralità quando il loro ruolo si rivela marginale. Inoltre un paio di plot hole sono riscontrabili, ripensandoci a vicenda conclusa, ma niente di imperdonabile. L'interpretazione degli attori è ottima, anche se c'è una piccola pecca nel doppiaggio che rende troppo riconoscibile la voce di Jack lo Squartatore, portando lo spettatore a conoscerne troppo presto l'identità, ben prima della rivelazione prevista per l'ultimo atto.

Il finale è agrodolce, e nessuno alla fine sembra aver davvero vinto. Forse questa è la conclusione migliore per una storia del genere, e non mi è dispiaciuta. Ma il "buonanotte, dolce principe" come battuta finale, boh, mi è sembrata quasi una parodia.