La vita vince sempre (tranne al Jurassic World)

Jurassic World è uscito da poco più di una settimana e già ha incassato stratilioni, piazzandosi nella top-qualcosa dei film di maggior successo ever. Il quarto capitolo della serie giurassica (anche se è idealmente un seguito diretto del primo Jurassic Park) ha catturato subito i fan di tutto il pianeta affascinandoli e sconvolgendoli... un po' quello che era il piano di John Hammond per il parco stesso (a dimostrazione che non servono i dinosauri veri, basta il "circo delle pulci"). Ora, diciamolo pure, Jurassic World è un film nel migliore dei casi mediocre. Ci sono validissimi motivi per ritenerlo un brutto film sotto tutti i punti di vista (narrativo, tecnico, scientifico, intrattenitivo), ma questa non è una recensione quindi non parleremo di JW in sé. Se comunque volete sapere cosa ne penso, potete leggere la recensione pubblicata dal paleontologo Andrea Cau sul blog Theropoda, che riassume bene o male le mie stesse impressioni.

Quello che mi interessava affrontare in questo post è quanto emerge come messaggio da Jurassic World, che cosa lo spettatore trae, in modo più o meno diretto, dalla visione. Certo, mi direte subito, non è un film fatto per avere un "senso profondo", è puro intrattenimento (anche se non ci riesce), quindi perché andare a cercare significati nascosti? Perché, di fatto, questi significati ci sono, ma sono così sommersi che probabilmente nemmeno chi ha realizzato il film si è accorto di averli inseriti. Non si tratta infatti di interpretazioni o metafore ma di paradigmi, strutture mentali occulte sul quale il film è stato costruito e che contribuisce a veicolare al pubblico.

No, non sto parlando del messaggio anti-consumistico anti-social, inserito con tanta grossolaneria nella prima parte del film che sembra di vedere una parodia. E nemmeno della possibile interpretazione metatestuale del film suggerita da qualcuno, secondo la quale JW parla in realtà della riproposizione di un franchise vent'anni dopo il suo successo iniziale, manovra ormai all'ordine del giorno nell'industria cinematografica. Questo potrebbe essere un arogmento interessante, ma non è quello che ci interessa, adesso.

Il vero tema nascosto è quello del rapporto tra "uomo e natura", il confronto sempre attuale tra i meccanismi che regolano la vita su questo pianeta e la possibilità e opportunità di alterarli. È chiaro che il film, come tutti quelli della serie, verte in modo centrale su questo argomento, e il messaggio immediato che se ne trae è "ci sono forze che non siamo in grado di controllare, e non dovremmo farlo". Fin qui tutto regolare, niente di nuovo, ma un messaggio sempre utile ribadire. Eppure ci sono delle sfumature ben diverse tra Jurassic World e il suo padre di una generazione prima, il Jurassic Park basato in maniera abbastanza diretta sul libro scritto da Michael Crichton. C'è una differenza fondamentale tra il film del 1993 e quello del 2015, ed è così sottile che in realtà non emerge alla prima visione. Proviamo a ripercorrere alcuni elementi essenziali delle due trame, che pur sviluppandosi con sequenze molto simili (a volte deliberatamente identiche) sottintendono un'interpretazione ben diversa.

In JP il parco dei dinosauri è in costruzione, e il milionario suo ideatore chiede la consulenza di qualche specialista prima di iniziare l'attività. Nello staff del parco c'è però una talpa, che ha intenzione di vendere il prezioso DNA mesozoico ad altri offerenti, e per farlo è disposto a scatenare il caos all'interno della struttura, liberando tutti gli animali per poter fuggire col bottino nel marasma conseguente. I visitatori si trovano così a confrontarsi con decine di bestie preistoriche in libertà, trovandosi spesso in situazioni di pericolo. Si scopre poi che nonostante tutte le misure di controllo (in particolare il sesso predeterminato per tutti gli animali clonati), i dinosauri hanno trovato comunque il modo di riprodursi. "La vita vince sempre", sentenzia all'inizio del film il teorico del caos, dottor Malcolm.

In JW siamo in parco già funzionante e aperto al pubblico, che però sta perdendo il suo appeal, e per calamitare di nuovo l'attenzione spinge le sue tecniche di splicing genetico creando un ibrido con svariati superpoteri. L'ibrido riesce a fuggire dal suo recinto e inizia a seminare morte e distruzione ovunque passa. I gestori del parco cercano quindi di fermarlo, impiegando tutti i mezzi a disposizione, ma falliscono quasi sempre, fino all'epica battaglia finale 3 vs 1 in cui l'ibrido viene eliminato, azzerando così tutti i disastri arrecati nel suo killing spree. "Servono più denti" è la frase che ha portato sia al problema che alla soluzione.

Può sembrare che le due trame in qualche modo convergano: in fondo si basa sempre di una situazione di pericolo creata dalla scarsca cautela di qualche persona troppo avida, con tutte le conseguenze del caso. Ma le differenze ci sono, e stanno tutte nel ruolo che gli umani assumono nelle due storie. Se è ovvio che ad innescare tutto c'è l'intervento dell'uomo (raccolta e replica del DNA di creature estinte), quello che succede una volta che i dinosauri tornano liberi è ben diverso nei due casi. In JP, per la maggior parte del tempo i personaggi umani sono coinvolti solo in modo collaterale, trovandosi in un ambiente poco familiare in cui animali poco familiari si muovono a loro piacimento. Il primo attacco del T-Rex ignora quasi del tutto i piccoli primati e si concentra quasi esclusivamente sull'automobile, oggetto apparentemente più consistente e appetitoso. In seguito sempre il T-Rex attaccherà dei gallimimus, e alla fine del film i velociraptor. Questi ultimi sono forse l'unica specie che mostra di avere un particolare accanimento per gli uomini, ma la cosa si può spiegare all'interno del film con la loro presunta intelligenza, e capacità di comprendere chi è stato a "imprigionarli". Per il resto, tuttavia, tanto nel film che nel libro da cui è derivato, ci si trova sempre di fronte a scene di "natura selvaggia" che risultano incidentalmente pericolose, come potrebbe esserlo un safari nella savana o una regata sul Rio delle Amazzoni. L'uomo è spettatore, e deve trovare il modo di salvarsi.

In JW la prospettiva cambia. L'ibrido mostra fin da subito la sua precisa volontà di uccidere, distruggere, e lo fa in modo creativo e deliberato. Attenzione, anche questo è opportunamente giustificato in-universe, con l'idea che la creatura sia stata progettata appositamente per essere intelligente e cattiva, e si comporta di conseguenza. Tuttavia, l'atteggiamento dell'Indominus (ho evitato finora di usare questo nome terribile, ma ero a corto di sinonimi) è fin troppo umano. E non solo il suo: i velociraptor che rispondono ai comandi, cambiano fazione, e poi si schierano di nuovo con il loro alpha, fanno lo stesso. Gli pterosauri liberati dalla voliera sembrano avere l'esclusivo obiettivo di calare sulle frotte di spettatori per catturarli. Anche il T-Rex (che come confermato dalle fonti ufficiali è narrativamente lo stesso del primo film) interviene solo quando convocato, fa la sua parte e se ne va con una quasi letterale strizzata d'occhio. Tutti i dinosauri di Jurassic World esistono e si muovo solo in funzione dell'uomo. Non hanno una propria volontà, pulsioni, spinte biologico-evolutive. Sono definite soltanto in base al loro atteggiamento verso gli uomini.

Questa è la differenza fondamentale tra i due film, ed è il paradigma dal quale gli autori sono (probabilmente in modo inconsapevole) partiti, portando in sala qualcosa che rafforza nel pubblico il suo già radicato pregiudizio specista. L'idea che l'uomo sia il gradino finale della scala evolutiva, e che questo si esprima a maggior ragione confrontandolo con creature estinte milioni di anni prima (anche su questo ci sarebbe da discutere, perché molti cladi di dinosauri sono di fatto tuttora viventi, ma questo è un altro argomento). Quella stessa distorsione che ci porta a rifiutare il fatto che discendiamo dalle scimmie, ignorando che questa affermazione è fondamentalmente errata.

Attenzione, quando mi riferisco al pregiudizio specista, non mi riferisco al concetto che "l'uomo è parte della natura" e quindi è tenuto a rispettarla e non alterarla. La specie umana, al momento, è indubbiamente in grado di decidere della vita di migliaia di altre specie, e questo la pone in un certo senso su un gradino più alto di molte di queste, ma solo in senso allegorico. La realtà dei fatti è che la vita, gli ecosistemi, l'intero pianeta, rispondono a leggi molto più antiche e incontrollabili, a cui noi stessi siamo sottoposti, e che prescindono in tutti i sensi dalla nostra volontà. In questo non siamo diversi da quei brachiosauri clonati che si trovano a brucare alberi cresciuti 80 milioni di anni dopo la loro morte. L'evoluzione è una staffetta*, e sì, dottor Malcolm, aveva ragione lei: la vita vince sempre, ma gioca sempre in squadra da sola.



*perdonate l'autocitazione

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