Riprendiamo con la prima serata Coppi del 2018, e facendo due conti approssimativi dovrebbe essere qualcosa come dodici anni che la tradizione va avanti, pur con qualche inceppamento in certi periodi. Fatto sta che in questo modo, una domenica alla volta, si è accumulato un sostanzioso archivio storico di film visti negli ultimi tempi, anche se non sempre c'è molto da dire.
Si inizia quest'anno con una bella storia di ingegneria genetica fuori controllo, con gli uomini che giocano a fare dio e vengono inevitabilmente puniti per la loro presunzione. Avevo già visto il film, forse addirittura due volte, non perché lo avessi gradito tanto da volervo rivedere ma solo perché mi è ricapitato sottomano in una serata in cui l'obiettivo era guardare qualcosa di gross e uncanny, che in questo film si trova in abbondanza dall'inizio alla fine.
La storia dei due scienziati che creano una chimera umano-animale presenta punti interessanti e altri più banali, e il problema principale di questo film è a mio avviso che si sofferma proprio su quelli meno freschi, finendo troppo spesso nel "già visto", in particolare per chi è appassionato di argomenti del genere, nella fantascienza ma anche in altri ambiti.
Tra i temi più insidiosi toccati dal film, c'è quello della ricerca e del modo in cui propone. Di fatto una parte importante del conflitto del film deriva dal modo in cui la ricerca scientifica viene sostenuta e indirizzata da investimenti privati, e pertanto non solo deve mantenere un approccio utilitaristico, ma deve essere anche abbastanza fotogenica da poter superare una presentazione in pubblico. Gli scienziati devono essere anche sowman e il loro studio deve essere catchy, preferibilmente sexy, anche quando si parla di ammassi di blob semoventi.
Un altro tema spinoso è quello del modo in cui la propria esperienza personale influenza l'approccio alla ricerca. Emerge quasi di sfuggita ma ha un potenziale enorme. Quando la genetista donna (di cui ora mi sfugge il nome) rivela di essere cresciuta in una famiglia chiusa e forse violenta, con una madre tutt'altro che amorevole, si avverte che questo avrà un impatto sul suo modo di trattare Dren, creatura pericolosamente sul confine tra "esperimento" e "famiglia". Purtroppo il discorso si afferma in un'unica scena e poi viene archiviato, come accade anche alla disturbante scena di sesso che a seconda dei punti di vista può invadere parecchi territori tabù, dalla zoofilia alla pedofilia all'incesto. Ma l'incidente è presto dimenticato e si torna all'azione.
Maggiore attenzione viene invece concessa all'imprevedibilità della "natura" e all'idea che l'uomo sia la creatura più complessa prodotta dall'evoluzione, una concezione antropocentrista che non può trovare spazio nella formazione di scienziati moderni, tanto più se biologi/genetisti in grado di eseguire splicing di questo livello. Argomenti del genere sono vecchi quanto la fantascienza stessa e forse anche di più, se ne trova già in H.G. Wells ma per il grande pubblico basta citare Jurassic Park (no, Jurassic World non aggiunge niente a tutto questo).
Peccato quindi che a partire da un'idea sempre valida, la capacità di manipolare la vita a nostro piacimento, il film scelga di percorrere le strade già battute e accenni appena a quei temi che avrebbero potuto renderlo più incisivo. Forse la voglia di insistere sugli aspetti più uncanny (come dimostra la cura con cui è stata progetta Dren nelle varie fasi del suo ciclo vitale) ha fatto perdere di vista alcuni aspetti meno estetici ma più profondi. Ma in fondo, forse fare cinema è come ricerca, e bisogna sempre cercare di essere catchy per stare a galla.
Tra i temi più insidiosi toccati dal film, c'è quello della ricerca e del modo in cui propone. Di fatto una parte importante del conflitto del film deriva dal modo in cui la ricerca scientifica viene sostenuta e indirizzata da investimenti privati, e pertanto non solo deve mantenere un approccio utilitaristico, ma deve essere anche abbastanza fotogenica da poter superare una presentazione in pubblico. Gli scienziati devono essere anche sowman e il loro studio deve essere catchy, preferibilmente sexy, anche quando si parla di ammassi di blob semoventi.
Un altro tema spinoso è quello del modo in cui la propria esperienza personale influenza l'approccio alla ricerca. Emerge quasi di sfuggita ma ha un potenziale enorme. Quando la genetista donna (di cui ora mi sfugge il nome) rivela di essere cresciuta in una famiglia chiusa e forse violenta, con una madre tutt'altro che amorevole, si avverte che questo avrà un impatto sul suo modo di trattare Dren, creatura pericolosamente sul confine tra "esperimento" e "famiglia". Purtroppo il discorso si afferma in un'unica scena e poi viene archiviato, come accade anche alla disturbante scena di sesso che a seconda dei punti di vista può invadere parecchi territori tabù, dalla zoofilia alla pedofilia all'incesto. Ma l'incidente è presto dimenticato e si torna all'azione.
Maggiore attenzione viene invece concessa all'imprevedibilità della "natura" e all'idea che l'uomo sia la creatura più complessa prodotta dall'evoluzione, una concezione antropocentrista che non può trovare spazio nella formazione di scienziati moderni, tanto più se biologi/genetisti in grado di eseguire splicing di questo livello. Argomenti del genere sono vecchi quanto la fantascienza stessa e forse anche di più, se ne trova già in H.G. Wells ma per il grande pubblico basta citare Jurassic Park (no, Jurassic World non aggiunge niente a tutto questo).
Peccato quindi che a partire da un'idea sempre valida, la capacità di manipolare la vita a nostro piacimento, il film scelga di percorrere le strade già battute e accenni appena a quei temi che avrebbero potuto renderlo più incisivo. Forse la voglia di insistere sugli aspetti più uncanny (come dimostra la cura con cui è stata progetta Dren nelle varie fasi del suo ciclo vitale) ha fatto perdere di vista alcuni aspetti meno estetici ma più profondi. Ma in fondo, forse fare cinema è come ricerca, e bisogna sempre cercare di essere catchy per stare a galla.
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